di ANNA MARIA STEFANINI-
Anche la mafia ha il suo vocabolario e i soprannomi fanno parte di questo lessico dell’onore: Totò Riina era chiamato “u curtu“, per via dei suoi 158 cm di statura e “la belva“ per altri motivi che tutti possono immaginare.
Riina nasce il 16 novembre 1930 a Corleone, comune della cintura metropolitana di Palermo e questo lo colloca nei ranghi del famigerato gruppo detto dei “corleonesi”, destinato a scalare i vertici della mafia siciliana. Nel 1943 muoiono il padre e un fratello in un’esplosione mentre cercavano di recuperare la polvere ed il metallo di una bomba; nell’incidente Totò rimane illeso. Illeso e non orfano perché il giovanissimo Salvatore incontra un prestigioso mentore: il concittadino mafioso Luciano Liggio (1925-1993) sotto la cui guida apprenderà tutte le regole per guadagnarsi i galloni di “uomo d’onore”.
A 19 anni compie il primo gradino della sua straordinaria carriera: uccide un coetaneo durante una rissa e si fa qualche anno all’Ucciardone, il carcere di Palermo. Un esordio perfetto per chi è in cerca di padrini generosi.
Nel 1958 Liggio fa fuori il proprio capo-cosca Michele Navarra insieme a tutti i suoi più stretti collaboratori e assume il comando del gruppo mafioso, in quegli anni impegnato in affari con commercianti di bestiame e nella macellazione. Sotto la guida del maestro Liggio anche Riina fa carriera. Nel 1964 Riina consolida il proprio status di uomo d’onore arricchendo il suo curriculum con un nuovo arresto eseguito dai carabinieri e con qualche ulteriore anno all’Ucciardone per essere stato trovato in possesso di una carta d’identità rubata e di una pistola non dichiarata; anche questa volta esce rapidamente per via di una generosa assoluzione per “insufficienza di prove”.
Tuttavia nel 1969 il tribunale di Palermo emette un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Liggio e Riina ma per Riina il provvedimento viene convertito in un foglio di via con soggiorno obbligato a S. Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna; è in quel momento che Riina entra in clandestinità e inizia la sua leggendaria e straordinariamente lunga latitanza, seconda soltanto a quella, tuttora in corso, del boss Matteo Messina Denaro.
Dalla latitanza Riina consolida la propria leadership mafiosa agendo a quattro livelli: facendo assassinare tutti i suoi più pericolosi rivali mafiosi (come Stefano Bontate); facendo assassinare o assassinando di persona gli uomini delle forze dell’ordine pericolosi per lui (come il procuratore Pietro Scaglione), sottomettendo, anche attraverso rapimenti di famigliari, i maggiori imprenditori siciliani ai suoi interessi e ai suoi traffici economici e favorendo l’ascesa politica di Vito Ciancimino, che diventerà sindaco di Palermo, facendo assassinare tutti i politici che potevano ostacolarne la carriera.
Secondo alcune fonti, in questo periodo Totò Riina riesce ad accumulare un patrimonio enorme, stimato in circa 10 miliardi di lire di allora che tuttavia non verrà mai trovato, ad eccezione di una valigia con 500 mila dollari spedita a New York ma intercettata a Palermo dal capo della squadra mobile Boris Giuliano, assassinato poco tempo dopo il sequestro del denaro.
Gli anni ’90 sono gli anni più oscuri, quelli delle grandi stragi mafiose, degli assassini eccellenti e della trattativa stato-mafia ed è altamente probabile che i nemici interni alla mafia abbiano collaborato alla sua cattura: sarà il pentito Balduccio Di Maggio a rivelare ai carabinieri il covo della latitanza di Riina: una villetta con palme al centro di Palermo.
La soffiata permetterà ad una squadra speciale dei carabinieri del ROS di appostarsi e, il 15 gennaio di 30 anni fa, eseguire l’arresto del boss mentre, in macchina con autista, percorreva una strada vicina al covo.
Da quel giorno ha inizio la sua terza vita: quella della reclusione nei super-carceri di mezza Italia; tuttavia troverà il modo di mantenere contatti con altri detenuti e persino di rilasciare dichiarazioni pubbliche.
Totò Riina muore il 17 novembre 2017 per l’aggravamento di vecchi problemi cardiaci.