25 aprile, il discorso del Presidente della Provincia Romoli

VITERBO- In occasione delle celebrazioni del 25 aprile, a Viterbo, si è svolta la cerimonia con tutte le autorità civili, militari e religiose che si sono riunite in piazza del Sacrario. Applauditissimo il discorso del presidente della Provincia, Alessandro Romoli, che riportiamo per intero: ” Rivolgo un saluto a tutte le autorità civili, militari e religiose, ai rappresentanti delle Forze dell’Ordine, dell’ANPI e delle associazioni d’arma e combattentistiche presenti oggi per le solenni celebrazioni del 25 Aprile. E ringrazio sinceramente voi, cittadine e cittadini, che ancora una volta con la vostra presenza dimostrate che questo non è un giorno come tanti altri sul calendario. Oggi più che mai celebriamo infatti la bellezza della libertà, la bellezza di non avere catene ai polsi, di poter esprimere il nostro pensiero senza la paura di finire in carcere o di venire uccisi. Una bellezza che ci sembra naturale e scontata, ma che è stata invece conquistata con il sacrificio di chi ha scelto di combattere e morire, piuttosto che vivere una vita di compromessi con il regime fascista e con gli occupanti nazisti.

La storia della lotta al nazifascismo scorre tra i sampietrini, le vie e i ricordi di questa città. E, se vogliamo, precede di oltre 20 anni quella meravigliosa giornata del 25 Aprile 1945. Era infatti il 10 luglio del 1921, quando le camicie nere di Benito Mussolini cercarono di entrare all’interno delle mura cittadine di Viterbo. Una tranquilla giornata di sole, che alcuni fascisti forestieri cercarono però di oscurare con la violenza e le intimidazioni, proprio quella violenza e quelle intimidazioni che furono una costante nella storia sanguinaria del regime. Ma le mura della città, che per secoli avevano difeso Viterbo da invasioni ed eserciti nemici, ancora una volta dissero di No. Con una grande differenza, però. Quella volta a minacciare la città non erano le truppe di un qualche Paese invasore. E non erano nemmeno le scorribande di qualche facinoroso. Quella volta a minacciare Viterbo erano fratelli italiani che avevano deciso di stare dalla parte sbagliata della storia.

Per tutta la giornata del 10 luglio, e per le altre due successive, i viterbesi si opposero alle camicie nere. Le affrontarono con coraggio, mettendo a repentaglio la propria stessa vita. E per amore della libertà, le costrinsero alla ritirata. Nessun’altra città d’Italia, prima di allora, era riuscita a fermare i fascisti. Quei fatti sono passati alla Storia come le “Tre Giornate di Viterbo” e rappresentano uno degli ultimi aneliti di libertà in un Paese che stava per entrare negli anni più drammatici della propria storia. Le “Tre Giornate di Viterbo” non impedirono certo al fascismo di andare al potere, ma dimostrarono all’Italia intera che era ancora possibile opporsi, combattere e sperare in un futuro di libertà. Perché, cittadine e cittadini, gli antifascisti e i partigiani ce l’hanno insegnato bene: nessuna notte, neanche quella più buia e fredda, può durare in eterno.

Oltre 20 anni dopo quelle Giornate, anche nella Tuscia si sono formati i movimenti di Resistenza che, soprattutto sui Monti Cimini, hanno combattuto strenuamente contro le truppe nazifasciste. In tanti sono morti: celebri sono infatti le storie di lacrime e sangue, amore e lotta, dei nostri conterranei Mariano Buratti e Paolo Braccini. Il primo – militare della Guardia di Finanza, professore di filosofia e partigiano – catturato a Roma nel dicembre del 43 e fucilato dai tedeschi dopo atroci torture. Il secondo invece, Paolo Braccini, tra i primi comandanti in assoluto della Brigata partigiana Giustizia e Libertà, arrestato a Torino nel marzo del 44 e fucilato.

Infine sono arrivati anche gli eccidi perpetrati dai nazifascisti. Come quello dell’8 giugno del 1944, quando le truppe tedesche in città, ormai in ritirata, con gli Alleati quasi alle porte, trucidarono due uomini e una donna dove adesso sorge piazzale Gramsci.

Anche oggi, qui, tra noi, c’è chi in quei terribili anni ha perso un nonno, una nonna, un genitore, un fratello. Sono passati 79 anni dalla Liberazione dell’Italia, eppure molte ferite non smettono di sanguinare. Ecco allora perché siamo qui, oggi. Perché questa è una festa che ci appartiene più di ogni altra in quanto cittadini liberi e consapevoli che la democrazia trae la propria forza dal ricordo. E se oggi siamo qui, è perché riconosciamo la libertà come valore assoluto, come un timone che guida ogni nostro pensiero e ogni nostra azione.

Ecco perché non possiamo oggi rimanere indifferenti di fronte al ritorno dei tamburi della guerra. Se facciamo silenzio riusciamo quasi a sentirli, tanto sono vicini a noi. Che siano le bombe che squarciano i cieli ucraini, che siano i combattimenti in Medio Oriente o quelli nel Mar Rosso, assistiamo quasi a un ritorno indietro delle lancette del tempo. E allora dobbiamo chiederci: è questo il mondo per il quale gli antifascisti e i partigiani sono morti? È questo il mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli, dove si perpetrano massacri, si minaccia il ricorso al nucleare e si avvelenano i pozzi della cooperazione tra popoli? Come italiani, abbiamo subìto violenze e prevaricazioni. Sappiamo cosa significa avere sulla pelle le cicatrici delle torture e delle ferite di guerra. E non possiamo accettare che ora, a pochi chilometri da noi, ci siano altri popoli costretti alla stessa sorte. Possiamo e dobbiamo fare di più affinché cessi il fragore delle armi e tornino le voci per le strade e le piazze di Kiev, di Gaza, di Tel Aviv.

Non potremo mai onorare a sufficienza chi ha dato la vita, o chi ha sacrificato parte di essa, per regalarci la libertà. Ma a loro possiamo promettere certamente una cosa: quella libertà noi la difenderemo, con le unghie e con i denti. Il 25 Aprile del 1945 i nostri nonni ci hanno passato infatti un testimone fatto di pace e democrazia. Portarlo avanti è ora un nostro dovere, per amore dell’Italia e dei nostri figli.

Viva la Liberazione, Viva l’Italia. Buon 25 Aprile a tutti”.

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