Accadde oggi, 11 gennaio 1999: muore Fabrizio De Andrè; il paradiso al primo piano

di ANNA MARIA STEFANINI –

VITERBO – “Croce […] dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante.” Diciotto febbraio 1940: Fabrizio De André e il mondo intraprendono un viaggio durato 59 anni, quando ciascuno riprenderà la propria esistenza. Ma per entrambi l’esistenza non sarà più quella di prima.
A Fabrizio, “Faber” per gli amici, dal nomignolo che gli dà l’amico Paolo Villaggio per la sua predilezione per i pastelli di marca Faber-Castelli, il mondo regala Genova, la città-mondo centro di antiche rotte mediterranee e principale hub di collegamento fra sud e nord Europa; anche l’antichissimo Homo sapiens emigrato dall’Africa è passato di lì.
Fabrizio ricambierà regalando al mondo un numero mai esattamente censito di poesie in musica che raccontano il mondo meglio di un trattato di sociologia.
Ladri, puttane, assassini, innamorati, re straccioni e pescatori eroi; questi i disincantati personaggi che hanno incantato generazioni di cercatori del bandolo della matassa della vita e non sono pochi coloro che vedono nei personaggi messi in musica da De André gli stessi che popolano i vangeli.
Da De André abbiamo imparato anche come il dialetto genovese stretto sia più incomprensibile del gaelico.
Fabrizio De André è una contraddizione umana: di famiglia borghese benestante (il padre Giuseppe è stato amministratore delegato di Eridania e fondatore della Fiera del mare) preferisce una vita appartata per scrivere meglio; a lungo considerato il più irregolare dei cantautori italiani, le sue canzoni sono tra le più ricorrenti nei libri di scuola ed è proprio a scuola che milioni di ragazzi lo hanno conosciuto e amato. Non soltanto: anarchico reo confesso (“attenzionato” persino dai servizi segreti) ha sempre dichiarato di vedere in Gesù Cristo la più grande figura di rivoluzionario; colui che regalò amore e parole sante ed ebbe in cambio chiodi, spine e sputi. Una passione con risvolti famigliari: il figlio (avuto dalla prima moglie Enrica “Puny” Rignon), a sua volta musicista e continuatore del padre, ha ricevuto in dote gli impegnativi nome e cognome Cristiano De André.
Anche il suo ciclo cantautorale è stato un imprevisto accidentale: da sempre resistente al canto pubblico, frequentatore di ristrettissimi club di colto pubblico praticante la difficile simbiosi fra canzone esistenzialista francese e critica sociale, viene improvvisamente dirottato verso il pubblico a consumo perché, per qualche rara ragione, la più grande vocalist italiana (Mina) rimane incantata dalla struggente “La canzone di Marinella” (1964) e la incide su microsolco, curvando la storia esistenziale di Faber in direzione dell’imprevisto ruolo di icona cantautorale.
Diversamente dalle aspettative, questo nuovo percorso nell’industria discografica coinvolge molto Fabrizio perché conosce e stringe amicizia con molti appassionati musicisti, poeti, parolieri frequentatori degli studi di registrazione.
A questo periodo risalgono le prime incisioni e l’amicizia con i New Trolls, la Premiata Forneria Marconi (che allora si chiamava “I quelli”, probabilmente un calco dei britannici “The who”), l’arrangiatore Gian Piero Reverberi e il polistrumentista Mauro Pagani.
“Tutti morimmo a stento” e “La buona novella” (ispirato ai vangeli apocrifi) sono i prodotti di quell’intenso periodo; lavori che, per taglio stilistico, espressivo e testuale, vengono qualificati “concept album”.
Fra critiche e successi la difficile via fra opera colta e pubblico di massa era stata aperta; la stessa via, negli stessi anni, praticata da Bob Dylan e Leonard Cohen nel Nord America.
Seguiranno album storici come “Non al denaro, non all’amore né al cielo” (1971) e “Storia di un impiegato” (1973). Il primo è liberamente ispirato all’opera poetica “Antologia di Spoon river” di Edgar Lee Masters, con musiche composte da Nicola Piovani e la – diciamo – supervisione di Fernanda Pivano, studiosa di letteratura americana, della quale si racconta che ricorse al sotterfugio di registrare in segreto le discussioni con Fabrizio (sempre contrario a rilasciare interviste) per ricavarne una testimonianza a futura memoria.
Non soltanto musica; il percorso di vita di Fabrizio De André viene profondamente segnato da due fondamentali eventi: l’incontro del 1972 con Dori Ghezzi, la sua compagna e testimone di vita, sposata nell’89 (nell’estate del 2018 Dori Ghezzi è intervenuta ad una manifestazione di poesia organizzata dal comune di Vitorchiano) e il sequestro del 27 agosto del 1979 da parte della cosiddetta “anonima sequestri sarda” , culminato con la liberazione del 22 dicembre successivo dopo il pagamento di un riscatto di circa mezzo miliardo di lire, versato dal padre Giuseppe.
In un concerto tenuto a Roccella ionica nell’agosto del 1998, Fabrizio avverte forti dolori al torace ed alla schiena ed è costretto a interrompere l’esibizione; pochi giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore polmonare; muore all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano l’11 gennaio 1999, interrompendo la parte biologica della sua partecipazione al mondo.
Ma la sua storia e le sue opere accompagneranno per sempre questo mondo.

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