Aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, interviene Daniele Nicastrini (USPP)

VITERBO – Riceviamo da Daniele Nicastrini (segretario USPP) e pubblichiamo: “Dopo l’agente ferito a Sassari cos’altro succederà? Il 41 bis resisterà agli attacchi che lo snatureranno? Partiamo dall’episodio odierno, avvenuto al carcere di Sassari. Dalle agenzie di stampa si legge che un detenuto ristretto in regime 41 bis, per ragioni ancora da chiarire, ha conficcato il tappo di una penna a biro in faccia ad un agente di Polizia Penitenziaria che svolgeva ordinarie attività di controllo. Qualche giorno addietro, sempre da fonti giornalistiche e sempre a Sassari, si apprende la notizia che il boss Leoluca Bagarella ha preso a morsi un altro poliziotto, mentre lo stava accompagnando all’interno dell’istituto penitenziario. Quello che stupisce, qualora ci siano ancora episodi di aggressione dei detenuti nei confronti degli agenti di Polizia Penitenziaria che possano generare stupore, in quanto avvengono quotidianamente in ogni carcere italiano, non è tanto l’atto violento in sé, ma l’incapacità di fare prevenzione e l’inutilità della risposta di reazione a simili accadimenti, anche quando questi atti violenti vengono messi in atto da detenuti sottoposti al regime più duro nel carcere: il 41 bis dell’ordinamento penitenziario. E allora l’impressione che ne traiamo è che del carcere e del suo corretto funzionamento interessi solo a noi addetti del settore, che lo viviamo e purtroppo lo subiamo. Per la verità, oltre a noi, ci sono organismi e associazioni poco conosciuti all’opinione pubblica che hanno fatto fortuna e acquisito posizioni sociali e istituzionali di alto profilo, adoperandosi affannosamente per la tutela dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale a cui interessa e non poco il carcere. E’ un dato di fatto che le loro iniziative, i loro interventi e, soprattutto, le loro ingerenze nei confronti del mondo politico, italiano ed europeo, siano tali da incidere sensibilmente sugli orientamenti e sulle decisioni da adottare in tema di esecuzione penale. A dirla proprio tutta, sembrerebbe proprio che i loro interventi chirurgici sconfinino indisturbati anche nell’organizzazione del Corpo di polizia penitenziaria, nel suo funzionamento operativo, in un ben congeniato e più ampio programma di neutralizzazione dell’esecuzione penale in carcere. Per raggiungere questo obiettivo, già molto vicino, è ovvio che occorra realizzare un’architettura complessa che si costruisce nel tempo, alimentando precisi movimenti di opinione politica e realizzando specifici convincimenti nell’azione amministrativa. Passo dopo passo, abbiamo contezza, anche da questi episodi, che i frutti di un’orchestrata cabina di regia occulta inizino a raccogliersi. Si approva una legge sulla tortura, non perché in Italia la normativa esistente non prevedesse la condanna di chi si rendeva protagonista di tali comportamenti, ma perché nella stessa norma non esisteva la parola magica “tortura”. Si elimina dal nostro ordinamento penale l’ergastolo ostativo, grazie al fattivo contributo della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (che già aveva scardinato i limiti di movimento senza controllo diretto, superando il concetto di cella detentiva in favore di quello di camera di pernottamento) e si completa l’opera con la dichiarazione della sua illegittimità da parte della Corte Costituzionale. Proprio il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (guarda caso guidato in passato dall’attuale Garante Nazionale dei Detenuti) propone oggi chiaramente l’abolizione dell’isolamento diurno degli ergastolani dal codice penale italiano e sempre con lo sponsor dell’autorevole organismo sopra citato, si arriva a fare un appello alle autorità italiane affinché, oltre a dare la caccia alle streghe (leggasi a trovare in fallo la Polizia Penitenziaria per punirla a dovere), ci si impegni seriamente sull’attuale configurazione del regime del 41 bis, auspicandone una profonda riforma che – possiamo immaginare – non dovrà essere così afflittiva e poco risocializzante come quella che si presenta allo stato attuale. Tutto ciò avviene senza parlare del fatto che, in occasione della celebrazione del ventennale del G.O.M., il Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria, si è scoperto che le sezioni detentive del 41 bis non sono in numero sufficiente, tanto da suscitare una reazione indignata, addirittura, del Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Bombardieri, presente all’evento che ha affermato essere assurdo che vi sia una “lista d’attesa” nell’applicazione del regime del 41 bis. Ebbene è incontestabile che la permeabilità del nostro sistema penale e penitenziario è avvenuta e avviene nella sostanziale passività della politica italiana, nella neutralità di una parte importante della magistratura nostrana e nell’incapacità di resistenza del Ministero della Giustizia e del Governo agli attacchi demolitori di un sistema penale che ha consentito la difesa delle istituzioni democratiche di questo paese dalle organizzazioni criminali che le hanno compromesse e continuano a metterle in pericolo con efferati delitti di stampo mafioso e terroristico. L’USPP è fortemente preoccupata da questo andamento, sconcertata che ci si stia avviando verso una fase di destrutturazione del nostro ordinamento giuridico. Rimanendo esterrefatti dalla mancanza di linee guida penitenziarie che riguardino certe particolari tipologie di detenuti, 41 bis e Alta Sicurezza in primis, non ci resta che denunciare quanto sta accadendo, per tutelare i nostri associati e più in generale la nostra categoria, mentre il sistema penitenziario va avanti per inerzia, senza investimenti e gravando il suo funzionamento, per la maggior parte di esso, sulla buona volontà degli agenti al fronte. Ma questo è nulla se, leggendo tra le righe dei vari interventi del Garante delle personale detenute, si intravvede un malcelato attacco anche all’attività del N.I.C., il Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria, per le indagini eseguite nei confronti dei colleghi, dimenticando che è l’autorità giudiziaria a delegarne l’attività investigativa. La mancanza di attenzione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Ministero della Giustizia verso questi rischi non può non essere stigmatizzata, se proprio in istituti penitenziari strategici, come dovrebbero essere quelli che ospitano queste tipologie di detenuti, nel caso di specie dell’istituto penitenziario di Sassari, devono subire un sostanziale depotenziamento dello specialistico personale del G.O.M., che dispone di poco più della metà dei poliziotti di cui dovrebbe avvalersi, a cui fa il paio un effettivo abbandono generale della struttura, per l’assenza di un direttore e di un comandante di reparto titolari del carcere. Vero è che, come nell’odierno caso di Viterbo, quando i colleghi ci sono, essi rischiano di essere indagati perché un detenuto è stato ucciso da un suo compagno di cella, altro fatto che merita un nostro segnale di vicinanza, supplementare a quello che ogni giorno rivolgiamo a tutti gli agenti infamati da accuse spesso strumentali e a quelli che subiscono atti violenti e tornano poi nella sezione dove questi episodi si sono verificati, senza alcun supporto psicologico. Occorre un segnale che provenga dal Governo, dal Ministro e, non per ultimo, dal capo del DAP, che ad onor del vero qualche timida proposta l’aveva presentata su alcuni temi, come quello delle aggressioni (ma che ancora è chiusa in qualche cassetto di via Arenula), perché stiamo andando completamente alla deriva del sistema penitenziario, della tutela della legalità e della credibilità dello Stato in termini di certezza della pena. Cosa accadrà domani lo sappiamo già: altre aggressioni, sperando che non accada il peggio. E mentre il vertice politico si contorce su se stesso con leggi di cui non se ne sente il bisogno e che mostrano profili evidenti di incostituzionalità (come la legge sulla prescrizione), i giudizi di contrarietà, che registriamo e che non siamo tenuti a formulare, non possiamo non condividerli nel loro più tecnico significato. Una cosa è certa, se si vuole stravolgere il sistema di gestione della detenzione in carcere (anche l’affettività sarà presto un’altra realtà) e della certezza della pena, la strada imboccata è quella giusta. Noi non staremo a guardare, se ciò si tradurrà – come temiamo – in un depotenziamento del ruolo della Polizia Penitenziaria e in una compressione dei diritti contrattuali che già oggi sono calpestati, se è vero – come è vero – che da un recente studio condotto al D.A.P. mancano all’appello oltre 8.000 unità nella pianta organica occorrente, ovvero circa il 20%, per consentire il corretto funzionamento degli istituti penitenziari”.

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