Aimez-vous Brahms?

di CINZIA DICHIARA-

Il titolo di un famosissimo film di Anatole Litvak, tratto nel 1961 dall’omonimo romanzo sentimentale di Françoise Sagan, muove dal nome di Johannes Brahms (1833-1897), evocando l’insopprimibile e malinconica suggestione della sua musica. Probabilmente la classe di tre colossi della recitazione in technicolor, quali Ingrid Bergman, Yves Montand e Anthony Perkins, conferisce alla versione cinematografica una maggiore qualità rispetto all’effettivo valore testuale. In ogni caso, Brahms sembra essere semplice motivo d’occasione nel film, allorquando il personaggio di Philip, interpretato da un giovane e raffinato Anthony Perkins, rivolge questa apparentemente semplice domanda a Paula, un’elegante e sofferente Ingrid Bergman nelle vesti di un’arredatrice trentanovenne che sarà divisa tra il bel ragazzo e un traditore seriale, il fascinoso Yves Montand, che l’ha soggiogata.

La domanda risulta, invece, di per sé, profondissima, poiché la musica di Brahms lo è.

Nell’ascoltatore la scelta di aderire alla poetica brahmsiana richiede un totale, viscerale coinvolgimento poiché la sua musica scuote per intero le fibre sensoriali, fino a raggiungere l’interiorità più nascosta. Forse, per coloro che non avendo già conseguito una confidenza preponderante con la musica colta, vogliano votarsi a questo ascolto, si tratta di un atto di devozione, di affidamento, di abbandono. L’unico rischio è quello di poterne essere invasi, e, magari, di doverne temere le ripercussioni interiori. Un luogo comune vorrebbe che in Brahms il trasalimento emotivo necessiti di essere guadagnato attraverso un approfondimento, viceversa esso è fulmineo, anzi, la sua potenza rapisce all’istante, e suo tramite, il segreto della vita, della terra, dell’uomo, in quel frangente sembra appartenerci tutto, e, svelarsi all’uopo, contenendo ogni risposta, pur senza fornire alcuna spiegazione che non la tortuosa via seguita dai richiami motivici, dalle pulsazioni ritmiche, dallo spessore delle parti, dai particolarmente ambrati e bronzei colori timbrici.

Se, dunque, la narrazione brahmsiana consente di partecipare a un afflato palpitante, a un’ispirazione umana inimmaginabile, soverchiante, essa rimanda comunque all’interno, e questa è la sua cifra ultima e primigenia, come alcuni dolori, e anche piccole o grandi gioie, che si sprigionano fortemente da dentro, quindi possono esplodere, ma, tutto sommato, aspirano a rimanere nel chiuso dell’interiorità.

Scegliere Brahms comporta inoltre un’adesione escatologica alla sua dottrina, alla sua ‘religiosa’ appartenenza all’antico, nelle fondamenta, intrisa di insopprimibile vocazione tardoromantica, nella sostanza organica: sulla sua strada ci si imbatte in un originalissimo modo di innovare la composizione attraverso la tradizione codificata. Motivo che ha alimentato la convenzione che lo contrassegna quale severo accademico. Il suo è invece un personalissimo essere tra le cose, con ardente amore e grandioso senso dell’umano sentire; tutt’altro che un sentire facile, di superficie; il suo anelito è grave, ponderoso, intrinseco. Altrettanto, la scelta brahmsiana rappresenta una conquista dell’anima, solo in parte dell’intelletto, benché la costruzione formale, nonché il suo completo apparato compositivo, presuppongano la compenetrazione di un ingegnoso e talora faticoso processo di creazione intellettuale; lo si coglie appieno nell’ascoltare le sue immortali quattro Sinfonie.

La magnificenza, spesso eroica, e il piglio struggente di alcune sue idee melodiche, sono sostenuti da una potenza strutturale inaudita, basti pensare alle consuete larghezze accordali, alle verticali trame sinfoniche, all’ordito contrappuntistico, alla metrica poderosa. Per contrasto, a fronte del vigore teutonico, la tenerezza delle piccole cose sembra sgorgare dolce oltre ogni dire, permeata da una grazia intima e da ingenua semplicità, mentre la passionalità di passaggi voluttuosi e traboccanti sembra non conoscere tregua, ritornando sempre su sé stessa. Certamente vive in lui la mestizia della tragedia umana, ma con una tormentosa e lacerante possanza, seppure atteggiata al ripiegamento, causato dal riserbo, dall’introversione. Ancora, nel suo ideale compositivo i temi popolareggianti, gli echi folcloristici, i ritmi accentuati e vigorosi, intessuti di vitalità, di leggiadria, di tristezza, finiscono col costituire un campionario di doni straordinari. Una volta conosciuta, la sua musica passionale resta per sempre compresa tra i beni che ci sono dati su questa terra.

Amare Brahms può essere anche un atto naturale e disarmato e forse implica l’essere da lui scelti, l’essere ammessi, a flusso continuo, al palpitante codice della sua partitura, capace fin dalla prima battuta di aprire, nell’anima predisposta, un varco emozionale, talora inaspettato.

Amare o non amare Brahms, quindi, significa molto, in una persona. Chiunque sia consapevole della bellezza, quella tardoromantica per eccellenza, e l’abbia non soltanto respirata ma assimilata, somatizzata, acquisendola come propria nella forma mentis, come temperie emotiva e psichica quasi spossante, sa di che cosa si tratti. Ma, se è lecito, come si potrebbe non amare questo genio assoluto?!

Da quando nacque, ad Amburgo, il 7 maggio 1833, Brahms scese nell’agone musicale con la predestinazione di essere battezzato, appena ventenne, “giovane araldo di una nuova era”. Chi gli spalancava la strada della notorietà e della fama, in preda a un’eccitazione entusiastica, era Robert Schumann (1810-1856) genio esemplare del primo romanticismo tedesco. Così scriveva del giovane pianista amburghese, sulla Neue Zeitschrift für Musik, il compositore del Carnaval op. 9, il quale, insieme alla moglie, Clara Wieck (1819- 1896), gloriosa e indomita pianista dell’800, gli aprì le porte della sua casa di Düsseldorf, accogliendolo come un figlio e introducendolo con tutti i crismi nell’ambiente musicale e, soprattutto, nel suo entourage.

In tal modo ebbe inizio una carriera importante, quella di un esordiente giovane musicista amburghese, e un’amicizia fraterna, intesa in senso nobile e perfetto, tra lui e i suoi due illustrissimi anfitrioni. Ad eccezione dei fiumi di inchiostro versati intorno alla stretta amicizia tra Johannes e Clara, più che altro a livello di gossip letterario (che poi le lettere furono opportunamente distrutte dalla protagonista). Un legame proseguito ben oltre la prematura morte di Robert, evento nefasto che avvenne in un manicomio, nei sobborghi di Bonn, listando a lutto il corso degli eventi, più o meno felici, senz’altro eccezionali, di una congrega familiare, nonché di una cerchia di amici, portentosi.

L’amicizia, in un tempo, come quello di Brahms, agitato da inquietudini crepuscolari ma ancora lontano dal frettoloso e cinico vivere moderno, un tempo denso di sentimenti umani costantemente accesi da fede idealistica e poetica, fu nella vita del compositore una costante. Negli anni lo vediamo accomunarsi elettivamente a spiriti, pari a lui animati da prorompente creatività artistica, come il violinista Joseph Joachim (1831-1907), il musicologo Philipp Spitta (1841-1894), il compositore Albert Dietrich (1829-1908), il direttore d’orchestra Hans von Bülow (1830-1894) ed altri numerosi artisti e idealisti romantici, fra musicisti, poeti e personalità di spicco, alcune delle quali lo accompagnarono fedelmente per tutta la vita.

Che cosa ascoltare, dunque, dell’universo Brahms, per conoscerlo? Il suo è un vocabolario in cui un violino sa cantare intensamente, persino con voce scura, umbratile, oppure deliziosamente gentile, come un volteggio di uccelli o una corbeille di rose; il violoncello sa levare il suo vibrato brunito dentro un lamento dolce, il pianoforte può narrare di tormenti discendenti verso l’interno o esplodenti verso l’alto come fuochi, l’amalgama degli archi può accarezzare come una fiamma accesa, e tutto questo può, insieme, cantare alla vita, umanamente.

 L’elenco dei capolavori è cospicuo e, certamente, non si può dire di conoscere il genio di Amburgo se non si sono ascoltate, oltre alle citate sinfonie, le Variazioni su un tema di Haydn op. 56, il Doppio concerto op. 102, i Concerti per pianoforte op.15  e op. 83, il Concerto per violino op. 77, Ein Deutsches Requiem op. 45 e molta musica da camera: le 3 Sonate per Violino e pianoforte op. 78, op. 100 e op. 108, le 2 Sonate per Violoncello e pianoforte op. 38 e op. 99, le Sonate per clarinetto (o viola) e pianoforte op. 120,  i Trii, i Quartetti, il celeberrimo Quintetto per pianoforte e archi op.34, i famosi Sestetti per archi op.18 e op.36. Infine, le bellissime opere per pianoforte, come gli Intermezzi op. 117 e op.119, le Variazioni su un tema di Haendel op. 24, e i brani per duo pianistico a quattro mani, con le ultranote Danze ungheresi e i Valzer. Ce n’è ancora, fortunatamente, ma già tutto questo, ringraziando il cielo e la pervicace ispirazione brahmsiana, è molto.

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