Aldo Ragone e l’eticità della sua arte

Domani a Viterbo per la Stagione dei Concerti Unitus

di CINZIA DICHIARA –

VITERBO – Già noto al pubblico di Viterbo, il pianista barese torna per la terza volta ad esibirsi per la Stagione dei Concerti dell’Università della Tuscia, domani alle ore 17 presso l’Auditorium Santa Maria in Gradi, proponendo un programma che comprende la Sonata Op. 10 n. 1 di Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770-Vienna, 1827) le Variations Serieuses op. 54 di Felix Mendelssohn-Bartholdy (Amburgo 1809-Lipsia 1847); il Preludio e Fuga in la min. nella Trascrizione del BWV 543 per organo di Johann Sebastian Bach (Eisenach, 1685-Lipsia, 1750)-Franz Liszt (Raiding, 1811-Bayreuth, 1886) e la Sonata (1928) di Mario Castelnuovo-Tedesco (Firenze, 1895-Beverly Hills, 1968).

Ragone è persona molto coinvolta nella sua professione, guidata da una fede profonda nei valori della serietà, della bellezza, dell’umanesimo e parlare con lui significa parlare di musica mai disgiunta dall’impronta del pensiero etico.

Pianista pluripremiato in concorsi nazionali ed internazionali, concertista in Italia e all’estero per prestigiose Istituzioni musicali, è docente di Pianoforte presso il Conservatorio Perosi di Campobasso, cittadina nella quale si è stabilito attualmente dopo aver vissuto in altre città italiane, anche in provincia di Viterbo, e nove mesi in Polonia, a Varsavia. Ma la parte molto importante della sua carriera si è svolta in America, dove si è trasferito nel 2001 dopo essersi formato con Giuseppe Scotese al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e dopo essersi perfezionato, dal 1991 al ’96, a Parigi con Aldo Ciccolini.

-Maestro Ragone, la sua esperienza americana

Ho frequentato l’Università del Maryland College Park, conseguendo il dottorato in Arti Musicali sotto la guida di Larissa Dedova (premiata al Concorso Bach di Lipsia e allieva di Lev Oborin, primo vincitore dello Chopin di Varsavia) e con lei ho affrontato lo studio di tutte le Sonate di Aleksandr Scrjabin, il Concerto in fa diesis min. e vari brani importanti di questo autore.

Dopo gli studi con la Dedova mi sono trasferito a Denver, ove ho conseguito un Artist Diploma in Performance Pianistica studiando con Steven Mayer, un allievo di Leon Fleischer. Poi, ho suonato molto in giro per gli States, eseguendo il quinto Concerto di Saint Saëns e il secondo di Rachmaninov, e sono stato il primo ad eseguire il Concerto di Scrjabin in Colorado. Partito come studente, per motivi personali sono tornato in Italia come docente universitario, nel 2009. Purtroppo L’Italia dal punto di vista artistico fa pensare al deserto. Mi sono sempre rifiutato di accettare compromessi e tutto quello che ho, l’ho conseguito con i miei soli mezzi, le mie doti personali.

  • Quali sono i riconoscimenti più importanti che le hanno valso la notorietà e l’affermazione definitiva come pianista di professione?

In Italia ho avuto dei riscontri vincendo diversi premi in concorsi internazionali ma l’esperienza degli Stati Uniti certamente è stata molto importante per la verifica: la performance, le audizioni, l’impegno accademico hanno fatto la differenza.

  • Lì aveva una carriera davanti in qualità di docente

Dopo i tre anni di assistentato all’Università del Maryland, quando mi sono trasferito a Denver, dopo un anno mi hanno assunto come professore aggiunto presso la Regis University, università privata. Nelle occasioni in cui ho suonato con l’orchestra Sinfonica di Denver è stato realizzato il tutto esaurito. Tornato in Italia, dopo essere stato molto in giro per l’Europa e per l’America mi sono stabilito a Campobasso, stanco dei grossi centri e di là mi sposto quando devo tenere concerti. Vivo in mezzo ai monti.

  • Il programma di Viterbo…

Scelgo sempre dei programmi mirati, dal punto di vista cronologico o monografico. In tal caso invece ho voluto fare un pot-pourri di compositori diversificati: Beethoven e Mendelssohn, dopodiché venendo incontro a una richiesta dell’organizzatore del concerto, il prof, Franco Carlo Ricci, ho optato per il Preludio e Fuga in la min. nella Trascrizione del BWV 543 per organo di Bach – Liszt, da accostare alla Sonata, che segue, di Castenuovo Tedesco. L’organo è stato il mio primo amore, ho sempre desiderato suonarlo e quando ho potuto, da ragazzo, ho voluto subito studiare Bach.

  • Castelnuovo Tedesco, un autore non sempre eseguito. Qual è il motivo che la sospinge verso la sua Sonata?

Io amo molto le opere inconsuete, ad esempio le Bachianas Brasileiras di Villa-Lobos, e, seguendo l’insegnamento di Aldo Ciccolini, ho preso a interessarmi anche alla Suite Piedigrotta di Castelnuovo Tedesco. La Sonata mi ha preso per la sua genesi, essendo una sonata di guerra. La scrisse nel 1928, a cavallo fra le due guerre, durante la nascita del Nazionalsocialismo e siccome oggi sembriamo andare a grandi passi verso un conflitto si avvertono analoghi tempi di guerra.

Circa Scrjabin, invece, il mio percorso riguarda anche Massimiliano Damerini che avevo conosciuto partecipando, a Genova, a un’edizione del concorso intitolato a Martha Del Vecchio. Portavo la Fantasia op. 28 di Scrjabin, divenuta un mio cavallo di battaglia, e in quell’occasione egli mi apprezzò nonostante non giungessi in finale. Anzi, mi parlò spiegandomi che non sempre nelle giurie si può essere d’accordo all’unanimità, invitandomi al Teatro Carlo Felice, ove teneva il suo interessantissimo corso su Scrjabin. E in seguito mi invitò ancora, quella volta a suonare per l’Associazione Scrjabin di Bogliasco, paese in cui l’artista russo sul quale peraltro avevo fatto la mia tesi americana, aveva vissuto per nove mesi.

Ero ancora studente quando ascoltai Damerini a Roma, nella sesta Sonata di Scrjabin che studiai anni dopo, e mi piacque moltissimo, da musicista di spessore quale è stato. Ho sempre avuto grandi maestri.

  • Infatti è stato anche borsista alla Fondazione Cini di Venezia, con Eugenio Bagnoli, e ha studiato all’École Normale de   Musique   Alfred   Cortot   di   Parigi con Marcella Crudeli. Lei che è formato sui grandi classici e dunque con uno sguardo rivolto sempre ad approfondire il passato, come vive la contemporaneità e il mondo attuale, rispetto alla sua formazione classica?

In modo piuttosto conflittuale. Io ho un punto di vista preciso sulle cose. Sono persona molto schiva, non mi pongo al centro dell’attenzione, dei social, ad esempio, poiché trovo che la situazione collettiva sia alquanto degenerata.

La musica colta è nata in un momento storico in cui i compositori avevano un enorme scambio culturale con altri tipi di conoscenze: la filosofia, la letteratura, la pittura, la scultura, la poesia, il teatro, queste sono state le discipline che hanno nutrito i grandi autori. Schumann era un letterato e Bach un latinista, Beethoven leggeva Kant, Schopenauer ha scritto sull’arte musicale e suonava il flauto. Un tal crogiuolo di conoscenze che adesso vengono definite classiche, sono da considerarsi umanistiche, in quanto eterne. Dobbiamo pensare che ‘classico’ è ciò che si riferisce a quella parte di noi che è immutabile nei secoli, ecco.

  • L’insegnamento per lei è…

Una missione, poiché il mio compito consiste nell’aprire le menti e i cuori di ragazzi generalmente circondati da un panorama orrendo. Questo il mio credo più autentico, non è pura formalità, e quindi spingo gli allievi a leggere, a vivere. Una volta chiesi al maestro Ciccolini che cosa dovessi fare per suonare meglio. Lui mi rispose che dovevo riempire la mia vita di cose belle. Oggi c’è bisogno di tornare indietro, alla bellezza. Altrimenti il progresso non è tale ma è un regresso.

Dal punto di vista umano stiamo regredendo. Siamo andati avanti sul piano tecnologico ma vediamo orrori diffusi nella realtà. L’unica forma di difesa è cercare di creare intorno a sé una comunità e di fare squadra nella propria sfera d’azione. Con gli studenti faccio questo tipo di lavoro. La musica la insegno riferendomi sempre all’aspetto umano delle cose.

L’esigenza di appartarmi origina proprio dall’impossibilità di coniugare il mondo di oggi con quello che io ‘sento’. Per me è una sofferenza. Vivo la musica, nel suonare, come esperienza di costruzione interiore, nel rapporto col mondo esteriore, ma non quello che vediamo. Per me ci sono soprattutto gli alberi, le montagne, la natura, i fiori, un bambino, una carezza, un abbraccio.

 Nella performance ciò che conta è l’emozione. Il fine per un musicista non è raggiungere la perfezione matematica della prestazione tecnica, come chi va ai concorsi senza sbagliare una nota. Il pubblico nel sentire musica non vuole vedere uno spettacolo circense ma desidera emozionarsi.

  • Ogni artista ha autori che predilige per averli nelle proprie corde maggiormente rispetto ad altri. Per lei, quali sono gli autori nei quali si è formato, quelli con i quali ha familiarità, quelli che sono suoi ‘amici’?

Ci ho pensato varie volte, ma devo dire che tutte le volte che mi avvicino a un autore lo faccio perché nutro un amore profondo. Tuttavia, benché abbia una fortissima attrazione per Srjabin non posso dire che questo autore abbia molto influenzato il mio modo di concepire la musica come attività che ha del mistico. Posso affermare invece con sicurezza di non amare la musica pop e, come sosteneva Glenn Gould del rock, non capisco come si possa amare una musica così poco complessa.

Amo Bach, amo molto Brahms, molto il ‘900. Adoro Schönberg, ho suonato solo l’op 19 però incito i miei studenti a conoscere anche il 900 storico.

-Quindi la radicale trasformazione del linguaggio precedente e il suo cambiamento nella dodecafonia è aspetto che la attrae

Sì, sono diversi gli aspetti, le istanze del 900. La realtà cambio definitivamente rispetto alle epoche precedenti, dunque il linguaggio doveva necessariamente cambiare: non si può pensare di ritrarre un evento atomico neanche con una Sonata di Prokof’ev. Purtroppo a tal riguardo constato una certa arretratezza culturale in molti musicisti. Per i pittori è piuttosto usuale apprezzare Mondrian, Picasso, Giacometti con le sue strane sculture; in musica invece basta qualche dissonanza per intimorire. Il motivo è nel vecchiume accumulato nei siti accademici, scuole artigianali.

            – Che cosa pensa dell’equiparazione tra tutti i generi musicali?

A nessuno verrebbe in mente di comparare un libro di Fabio Volo con uno scritto di Kant. Sarebbe un’operazione sciocca. La musica non è tutta uguale, sono diverse le premesse, e i mezzi. Neanche tutta la musica classica è uguale, ma ve n’è una magna pars che si ispira e si rivolge agli aspetti più alti dell’essere umano. Non è commerciale, non è semplice, ma è complessa così come è complesso l’animo umano. La musica pop adotta due o tre accordi, ha bisogno di una reiterazione ritmica continua, non ha dinamiche: tutto è semplificato.

La musica è un linguaggio e ciascun linguaggio va compreso poiché è complesso. Le persone che non abbiano cultura musicale quel linguaggio non lo afferrano, non lo decodificano. Inoltre i gusti musicali dipendono dalle esperienze, da tutte le esperienze, da ciò che si è letto, da come si è vissuti, dall’essere educati a questo tipo di ascolto.

  • Nel salutarci, quale messaggio gradirebbe rivolgere al pubblico viterbese?

Vorrei invitarlo a venire ad ascoltare la Musica! Nel mondo odierno è invalso l’uso di scrivere sulle locandine il nome del pianista in grande, e i nomi degli autori in piccolo: credo che andrebbe fatto tutto il contrario. Inoltre, sarebbe bello venire ad ascoltare a lume di candela, come faceva Richter, con la sua candela sul pianoforte. Soprattutto, inviterei a cercare di ritornare a una dimensione più vera di umanità. E la musica è un mezzo per ritornare umani.

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