Aleksandr Malofeev al castello Ruspoli per il Festival della Tuscia

di CINZIA DICHIARA-

VIGNANELLO (Viterbo)- Preceduto dalla sua fama internazionale resa ancor più sorprendente dalla giovane età, il pianista moscovita residente a Berlino, Aleksandr Malofeev, ha offerto l’altra sera un’esibizione adeguata al suo rango di artista formatosi nella severità della scuola russa e affermatosi fin dall’età di tredici anni, grazie alla vittoria del Concorso per Giovani Musicisti intitolato al genio della sua patria, Čajkovskij.

L’ambientazione degli antichi e spettacolari saloni del Castello di Vignanello, intriso della storia di una delle nobili famiglie protagoniste del Medioevo, è cornice ideale di bellezza per la musica che si libra nelle sale di rappresentanza alla presenza della padrona di casa, la principessa Claudia Ruspoli  che ha accolto gli ospiti con la grazia e l’affabilità in lei innate.

L’attesissimo artista russo, il cui aspetto rasenta quello di un angelico cherubino rinascimentale ma anche di un personaggio emerso dalla letteratura di Dostoevskij, potrebbe essere il principe Myškin. Non soltanto per il candore dell’aspetto, biondo, lunare, imberbe, carnagione pallida, modi discreti e gentili, ma anche per l’idealità del suo modo di rendere la musica tutta, che fa sgorgare dalle mani dinoccolate e dal suo sistema mente – anima molto interconnesso col mondo naturale attraverso la dimensione tecnica e con il mondo spirituale attraverso la sua profonda sensibilità. Inoltre, per la fantasia che sprigiona dalla sua costruzione narrativa, muovendo dalla profondità dell’intelaiatura dei bassi fino all’aspirazione metafisica di volatine e frasi trasparenti, sembra avere l’allure del protagonista delle Notti bianche, altro personaggio biondo e diafano, del tutto inconsueto, che cammina vagando solitario per San Pietroburgo: un sognatore che si esprime in modo filosofico.

Tal giovane angelo, dal volto di porcellana biscuit, passa a sconfinare nel luciferino allorquando, nell’avvolgente spirale di passaggi potenti e tragici, mette in mostra un arsenale di effetti virtuosistici che gli vengono facili come sempre accade per quei ‘draghi’ che sanno utilizzare a piacimento e con impeccabile padronanza ogni risorsa del loro strumento. Pur nella foga estrema e nell’affondo percussivo di effetto potentissimo, tuttavia la forza pare che origini in lui dal principio del ‘bello’ in equivalenza col bene’, secondo la diade καλὸς καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs) dell’estetica antica. I conflitti drammatici non travalicano gli abissi della ragione, ma assurgono a una dimensione teatrale del senso del tragico e la sua tecnica è sempre piegata alla chiara volontà interpretativa, strumento di espressione e mai di compiacimento soltanto esteriore, uno degli aspetti che attraggono nel suo pianismo oltremodo brillante ma evidentemente introspettivo come si addice a un’anima russa.

Malofeev ha eseguito un programma non comune e diversificato, proponendo brani all’insegna del libero fantasticare compresi tra il primo e il tardo ‘800 e dunque abbracciando l’intero secolo tramite quattro autori emblematici: Schubert, araldo del romanticismo, seguito da Chopin, sacro vate della poesia del pianoforte della generazione del 1810, per passare a un Rachmaninoff giovanile ma già temperamentoso, e concludere con la vena poetica di Scrjabin, che a fine secolo raccoglie l’eredità precedente e guarda al futuro.

Inizia con i Drei Klavierstücke D. 946 composti da Franz Schubert (1797-1828) poco prima di morire e pubblicati postumi nel 1868, tre pezzi in Mi bemolle minore, Mi bemolle maggiore e Do maggiore, che sembrano avere elementi in comune con gli Improvvisi pur consistendo di un maggior peso specifico. In effetti gli stilemi e le idee compositive di quest’ultimo Schubert sono facilmente rintracciabili nelle composizioni dell’op. 90 e dell’op. 142, mentre per l’alta densità contenutistica i tre brani si possono considerare vicini alle coeve Sonate D 958, D959, D960. Certamente rispondono alla poetica del ‘frammento’, propugnata sul finire del ‘700 da Friedrich Schlegel (1772- 1829) e dagli altri sodali della rivista «Athenäum» dando inizio alla temperie romantica. Ed è con tale spirito che Malofeev attacca il famoso incipit dal ritmo puntato del primo brano Allegro assai in Mi bemolle minore, cominciando a sfoderare le sue notevoli qualità, innanzitutto il piglio romantico in cui si avvertono la lezione dei grandi interpreti del passato e la proposta di una propria declinazione. Quindi la capacità di condurre le linee polifoniche differenziando i piani dell’apparentemente semplice tracciato schubertiano, del quale è in grado di disvelare i minimi particolari con un acume musicale inusitato e nuovo. Inoltre attrae per la sua cantabilità elegante ma anche patetica, persino nell’elemento distintivo dell’accompagnamento di terzine, del quale fa una cifra espressiva significante, proprio nel senso della semiotica del linguista ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913) che distingue tra ‘significante’ (simbolo che esprime un concetto) e ‘significato’ (ciò che quel concetto contiene).

Procedendo sul filo della tensione espressiva, la sua eloquenza attraversa un ventaglio di gradazioni difficile da immaginare, cedendo alla tenerezza della scrittura schubertiana del secondo Klavierstück con un gioco di bagliori, di rifrazioni, di lontananze, di accorate intimità, di disvelate sensazioni animistiche. Porge infatti in modo sensibile e affettuoso il tenero e aggraziato Allegretto in Mi bemolle maggiore, evocando la purezza semplice e tipicamente biedermeier che nel genio della Wanderer- Fantasie assume le tinte delicate dell’ingenuità. A tratti sottolinea una scrittura espressiva che incalza verso la dimensione lirica, soprattutto nella struggente melodia poggiata sul tipico accompagnamento per accordi ribattuti, modalità rintracciabile nell’Improvviso op. 90 in La bemolle maggiore.

Elegiaco, delicato e carezzevole riesce con amabilità a centellinare ogni suono del sentimentale motivo tematico sul languido andamento di barcarola italiana, riproponendolo in conclusione come ricordo, venato di intimismo, che si spegne.

Dopo aver dischiuso le sue capacità poetiche, il pianista riserva maggiore enfasi all’agilità marcata dagli accordi del terzo pezzo, Allegro in Do maggiore, che accenta impetuoso nell’incisiva scansione ritmica, prima del disegno da innodia corale omoritmica utilizzato da Schubert con la semplicità di un mesto messaggio. Malofeev lo esegue in contemplazione mentre nella sala si coglie appieno lo spessore della sua concentrazione e il suo comunicare con il pubblico in un palpabile scambio di energie. Lungo l’articolata serie di episodi, interruzioni, digressioni, sospiri e languidezze avvicendatisi sotto le sue dita, ora vellutate ora scattanti e decise, si è fatto seguire quale narratore, illustrando con estrema cognizione analitica la sintesi costruttiva dell’autore.

 

Ancora richiamando la semiologia di Saussure sembra che questo giovane portento sappia distinguere nella comunicazione sociale del linguaggio tra il codice oggettivo e immodificabile della “lingua” (nella fattispecie la scrittura adottata da Schubert) e la “parola”, cioè la pronuncia soggettiva di quella lingua, dunque l’espressione personale che quella lingua veicola agli altri.

Si intende, siamo di fronte a una vera rivelazione per chi non lo abbia ancora ascoltato dal vivo e  quando attacca Chopin (1810-1849) il pubblico non sa ancora che cosa aspettarsi, poiché passare dall’uno all’altro autore significa compiere un balzo di distanze tra pianeti, se pensiamo alla poetica, allo stile, alle risorse compositive.

Come Franz Liszt ebbe a scrivere nel suo volumetto su quel giovane arrivato a Parigi da Varsavia per divenire pietra miliare nella storia della musica, si può eseguire Chopin solo dopo aver attraversato e massimamente compreso lo spirito della Polonia che sempre l’umbratile compositore portò nel cuore fino a che il suo cuore batté, continuando a palpitare nella sua opera, caposaldo del repertorio di grandissimi interpreti e talora oggetto di melense esecuzioni salottiere dilettantesche.

L’Andante Spianato et Grande Polonaise brillante op. 22 è opera che ha avuto nella storia dell’interpretazione migliaia di ‘visioni’, dunque è storicizzato attraverso il lascito di artisti sommi che abbiamo nelle orecchie da tempo. La linea di demarcazione tra il gusto finissimo che essa postula e l’errore stilistico è un filo. Malofeev ne ha dato una propria lettura, di un virtuosismo moderno, affatto retorico. Egli ha saputo vestire i panni dell’eroe veemente e appassionato lasciando trapelare una ricerca interessante e ancora in fieri.

Nell’Andante in Sol magg., ‘spianato’ in quanto disteso, brano d’introduzione di tono sentimentale, il pianista evoca sommessamente l’atmosfera psichica sospesa e trasognata del notturno. Nella Polonaise in Mi bemolle magg., dall’inizio grandioso scatena la propria verve sui due binari, della passione infuocata nel ritmo energico e pieno di ardore, e del lirismo profondo e commovente del canto. Distende la linea melodica quale ‘assolo’ di voce vibrante su prodigiose scalette precipitate, ottave fendenti, volatine lievissime, trilli modulati e risolti con finezza e ogni altro virtuosismo.  Mostra una tenuta complessiva superiore al mero dettaglio tecnico, comunque sbalorditivo, così suscitando il fervido entusiasmo del pubblico che lo applaude con acclamazioni.

Il concerto riprende nella seconda parte con Sergej Rachmaninoff (1873-1943) e i Morceaux de fantaisie op. 3, titolo che allude alla fantasiosità giovanile di cinque brevi pezzi fra i quali spicca ad effetto il famoso Prélude in Do diesis minore con cui il musicista sovietico/statunitense omaggiò il suo maestro di armonia Anton Arensky. La loro varietà fa sì che Malofeev vi investa quanto più possibile la propria capacità interpretativa, studiando come quadri le atmosfere di musiche che gli ottengono una potente impressione sull’ascoltatore.

Nell’’Elegie’, brano di andamento moderato e tranquillo, sottolinea il clima riflessivo nel quale la guida è un tema legato che piega il canto alla malinconia. Il Prelude sotto le sue mani diviene una esternazione del peso sofferente del mondo, a fronte dell’impeto della focosa ribellione accordale. L’Allegro vivace Polichinelle, caleidoscopio di brio e vivacità nei salti nervosi, in ironiche e forse amare piroette ispirate alla maschera napoletana, rivela di nuovo dita d’acciaio ma elastiche nella rapidità di note sbandierate velocemente leggere come lancio di coriandoli; nella parte centrale, calma, lirica e malinconica, Malofeev si avventura nelle regioni del pianto per poi passare alla tempesta di fuochi come granate. Maestro nel discorrere tra sé e sé medesimo, suona con l’anima mentre il cervello governa tutto.  Nel suo tocco poetico, per fortuna tipicamente russo, il suono è sempre pensato, sentito con passione struggente, eppure mirabilmente sorvegliato. La sua interpretazione sente il peso della storia desiderando andare oltre.

Conclude il concerto con i 4 Preludes op. 22 di Aleksandr Scrjabin (1872-1915) e la Fantaisie op. 28 nei quali trasfonde tutte le sue qualità di interprete: domina la tastiera come un funambolo, canta come un poeta, gioisce come un fanciullo, medita come un filosofo, sogna come un utopista, soffre e insorge con la forza ruggente di un leone.

Applausi fragorosi di soddisfazione, gioia e apprezzamento del folto pubblico e ovazioni gridate a ripetizione particolarmente dai giovani, ammiratissimi ed esultanti, lo accompagnano per numerose chiamate e Malofeev, sempre generoso, concede ben quattro bis eseguiti con bravura e incanto: Minuetto in Sol minore di Händel, Canzone Serenata op. 38/6 di Medtner, Pas de deux di Čajkovskij/Pletnev; Ground in do minore di Purcell. Quale magnifica serata!

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