Andar per chiese: Montefiascone, dal profano al divino

di DANIELA PROIETTI-

MONTEFIASCONE (Viterbo) – Quando mi affacciavo alla finestra della classe, ammiravo la mia Viterbo da lontano. Ho lavorato per anni nel mio luogo di residenza poi, per uno scherzo del destino, ne sono uscita e non riuscivo più a tornare. In realtà sto ancora fuori, ma oramai Vitorchiano è diventata un po’ casa mia, e non penso che me ne andrò prima della pensione.

La mia aula guardava a sud est, e il capoluogo appariva come una chiazza d’olio alle pendici dei Cimini. Era difficile non distrarsi mentre lavoravo, sebbene, insegnando geografia, mi sentivo un poco ispirata dall’ampio panorama che, con cadenza bisettimanale, ero portata ad ammirare.

La scuola primaria del paese, quella che gli autoctoni chiamano “l’edificio”, è una grande costruzione sorta negli anni del fascismo, e posizionata in cima ad una collinetta su cui si apre Piazzale Roma.

Come tutte le piazze costituisce l’anima del centro, quel luogo in cui si incontrano i cittadini, tessendo sane relazioni sociali, e di cui, nelle città più popolose, e quindi dispersive, se ne sente la mancanza.

Montefiascone è piuttosto esteso, tanto che le sue zone assumono nomi e caratteri decisamente diversi. Sono perlopiù abitati, una sorta di piccolo villaggio nel paese stesso. Non vi sono edifici particolarmente importanti o che abbiano storie da raccontare, ma contano sulla presenza di alcune  chiese e sul sontuoso panorama che dominano.

Diversi anni fa, mi capitò di fare una sostituzione presso la scuola della  frazione falisca di Le Mosse: classe molto poco numerosa e panorama fantastico.

Abbiamo iniziato il nostro giro prendendo la Strada Verentana che, costeggiando l’estremo sud del lago, conduce alla vicina Marta. Delle strette stradine in discesa, attorniate da una serie di case tutte disuguali e che danno l’impressione di essere state costruite a caso, senza l’aiuto di un giusto piano regolatore, arrivano ad un largo spiazzo erboso su cui svetta maestosa e disarmonica col resto dell’ambiente, una grande pala eolica. Fonte di energia rinnovabile e non inquinante, ma che stride violentemente con l’aria bucolica presente in un luogo decisamente incorrotto come quello.

Sul versante opposto del paese, dopo aver attraversato il centro ed aver proseguito sulla Via Cassia in direzione Bolsena, si giunge alla frazione di Le Coste, anch’essa graziata dall’immensa veduta su quello che milioni di anni fa ebbe origine  dal crollo della caldera (camera magmatica) centrale che alimentava una serie di vulcani di cui si notano bene i crateri di Montfiascone e Latera o Mezzano. Le acque del lago sono in parte di origine sotterranea, in parte la conseguenza di interminabili e copiose precipitazioni.

L’abitato conta circa 1200 persone che occupano le tante case dislocate su vie che discendono lungo, appunto, la costa del colle.

Le Coste, sono nei miei ricordi grazie ai racconti della mia migliore amica, che vi si recava spesso a trovare i nonni. Sorrido ancora al pensiero di quando mi rispondeva con parole tipiche del dialetto del posto o con espressioni che lei enfatizzava con un’ironia tutta particolare.

Nei pressi c’era un ristorante molto noto, La Rondinella, subito dopo, su una curva, sorge una chiesa che guarda al maestoso orizzonte: la Chiesa del Corpus Domini, edificata nei primi anni ’20 del secolo scorso, progettata dall’Architetto Tullio Passarelli. L’edificio religioso venne fatto costruire per sostituire nelle pratiche del culto l’antichissima Chiesa di San Pancrazio.

Mi è sempre risuonato nella mente il nome di questo santo, non ne conosco il motivo, forse, semplicemente per la sua inusualità, o forse ancora perché presente nei racconti della mia amica.

Di fronte alla Chiesa del Corpus Domini, ho visto un’indicazione marrone, di quelle che contengono la denominazione di luoghi storici o culturali. Non avevo la minima idea di dove fosse collocata quella piccola chiesa campestre anzi, in realtà, l’avevo scambiata per quella da cui provenivo.

Così, con la nostra automobile, le cui dimensioni non sono certo adatte ad una stradina di campagna, ci siamo avventurati per il viottolo.

La strada è tutta in discesa e curvilinea: snodandosi tocca svariate abitazioni, all’esterno delle quali alcune donne piuttosto avanti con l’età siedono beatamente nella pace del posto, di certo non interrotta dal trambusto dei veicoli. In alcuni cortili è presente una piccola pergola, da cui pende uva appena accennata che darà vita, in autunno, a chissà quale prelibatezza.

Un grande lavatoio, detto “del Cuncchio”, segna quasi un punto di svolta tra quella che è una strada tranquillamente percorribile ed una molto più tortuosa e stretta, dove incontrare un’altra vettura che procede in senso opposto può costituire un vero e proprio problema.

Ci siamo inoltrati in essa e, per quanto io non mi scoraggi quasi mai, ho temuto di trovarmi in una situazione poco facile. Dopo alcune centinaia di metri, tra gli arbusti di una strada un po’ abbandonata a se stessa, è comparsa una croce, che ci ha fatto capire di aver raggiunto la piccola Chiesa di San Pancrazio.

Il minuscolo edificio sacro è posto in una zona molto tranquilla. Sembra sia stata innalzato sul finire del XII secolo, e risulta essere molto ben conservato, grazie anche ai tanti interventi che sono stati apportati nel corso dei secoli.

Purtroppo non abbiamo avuto l’opportunità di visitarlo, in quanto non viene abitualmente aperto, se non in occasione della ricorrenza che vi si celebra.  Abbiamo avvicinato i nostri volti al vetro surriscaldato dal caldo sole di luglio e siamo riusciti a scrutarne l’interno attraverso la grata che lo protegge. Di fronte ai nostri occhi abbiamo notato il crocifisso mentre, di lato, due affreschi celebrano i santi Pancrazio e Margherita, patrona della cittadina.

Il santo, la cui nascita avvenne sul finire del III secolo, fu martirizzato da giovane a Roma, sulla Via Aurelia, durante l’impero di Diocleziano.

Venne giustiziato nel mese di maggio, e fa parte dei cosiddetti santi di ghiaccio, ossia quegli uomini  votati a Dio che passarono a miglior vita durante la sesta settimana dopo l’equinozio di primavera, quando si registra, secondo la tradizione, un’anomalia climatica.

Ci siamo chiesti perché la chiesetta fu costruita proprio in quel luogo, apparentemente disperso. Abbiamo trovato la risposta in una leggenda che vuole che in quel lembo di terra, detta “Buca de la Strega”, vivessero delle perfide streghe, tanto malvagie da essere temute da coloro che abitavano la zona. Esse si riunivano nella casa del Cempene, dove il demonio dava loro ordini. Assieme alle odiose direttive, il diavolo portava dall’Inferno il fuoco malefico. San Pancrazio  spense le fiamme con le proprie urine, lasciando il maligno assieme alle sue aiutanti malefiche nel buio più completo.

Dal piazzale erboso, guardando verso l’alto, si ammira la Rocca dei Papi e il Seminario Barbarigo, splendente nella sua nuova e candida veste.

La voglia di tornare alla civiltà da un posto rimasto così selvaggio, ci ha riportati al centro della bella Montefiascone.

Abbiamo ripercorso le viuzze del centro che tante volte ci hanno accolti, restando un po’ delusi nel constatare che la crisi abbia colpito anche lì. Corso Cavour, in passato, era un pullulare continuo di negozi e attività varie. Oggi ne rimangono aperti ben pochi: qualche abbigliamento, una pelletteria, un negozio di oggetti artigianali in legno, uno di complementi d’arredo e alcuni di generi alimentari. La chiesa posta a metà della via, del Divino Amore, appartiene al Monastero del Divino Amore delle Monache Agostiniane, che nel 1721 divenne un istituto di clausura, fino agli inizi dello scorso secolo.

Successiva alla Porta del Borgo, nel 1583, si chiamava ancora San Giovanni in Borgo e nel 1615 assunse il nome di Santa Maria della Potenza. La sua denominazione variò ancora dopo la ristrutturazione operata nella seconda metà del ‘700,  e venne quindi dedicata alla Vergine Assunta in Cielo.

Mi sono introdotta al suo interno, attratta dalle voci che sentivo dalla strada. Le suore stavano recitando il rosario, e un grande organo ad aria, che ha visto oltre un secolo e mezzo di storia, le sovrastava.

Una delle chiese più note del paese è l’antica San Flaviano, affacciata sulla via omonima e che, percorrendola, giunge a Bagnoregio prima e ad Orvieto poi.

La basilica è straordinaria. L’esterno, affascinante, rapisce lo sguardo di chiunque passi di lì. Costruita sull’antica Via Francigena, è di origini medioevali e gode del titolo di Basilica Minore.

Intitolata a San Flaviano, che giunse nell’abitato falisco durante la prigionia precedente a quello che fu il supplizio finale, e venne martirizzato nel 361. Secondo alcune scuole di pensiero, invece, il suo corpo vi fu traslato dopo il martirio.

Dall’ architettura è di stampo romano-gotico, venne iniziata a costruire a partire dall’XI secolo e subì modifiche negli anni che trascorsero tra il 1200 e il 1400.

La particolarità risiede nella sovrapposizione dei due ambienti, due vere e proprie chiese, direzionate in senso opposto.

Nella chiesa inferiore, molto meno luminosa di quella ad essa sovrapposta, vi sono numerosi affreschi che conservano la magia dei secoli trascorsi.

Di lato, nel silenzio del suo essere deserta, abbiamo notato la tomba di Johannes Defuk, vescovo tedesco. Il religioso, durante il viaggio di ritorno da Roma, città in cui aveva appena assistito all’incoronazione ad Imperatore del Sacro Romano Impero di Enrico V da parte di Papa Pasquale II, si era fermato in paese.

 Stupefatto e attratto dalla bontà del vino locale, che tutti conosciamo col nome di “Est! Est!! Est!!! di Montefiascone”, ci rimase fino alla morte.

Il suo servo fedele, Martino, nel 1113 ne curò la sepoltura facendo incidere sulla lapide in peperino della tomba, visibile ancora oggi, l’iscrizione in latino: «Est est est pr nim est hic Jo De Fuk do meus mortuus est» che sta per «Est est est propter nimium est hic Johannes De Fuk dominus meus mortuus est» (Per il troppo EST! qui giace morto il mio signore Johannes Defuk).

Abbiamo lasciato Montefiascone un po’ in fretta, stavolta senza gustare il meraviglioso nettare dorato e senza neanche assaporare i prodotti gastronomici che lo hanno accompagnato la volta precedente.

Il sole era ancora alto, non aveva terminato il suo passaggio sui nostri cieli e non si era andato a nascondere dietro i colli e, così, ci è sfuggito anche il tramonto.

Ma, a volte, le privazioni, non possono che far bene. Se non altro per il fuoco del desiderio di ritornare che sono in grado di alimentare.

“Sapete, è geniale questa cosa che i giorni finiscono. E’ un sistema geniale. I giorni e poi le notti. E di nuovo i giorni. Sembra scontato, ma c’è del genio. E là dove la natura decide di collocare i propri limiti, esplode lo spettacolo. I tramonti.”
(Alessandro Baricco)

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