di CINZIA DICHIARA –
Vincitore del premio “Dino Ciani” del Teatro alla Scala di Milano nel 1983 e da allora impegnato in una vita concertistica per mezzo mondo, diretto da miti della direzione d’orchestra come Claudio Abbado e Zubin Mehta, insignito di riconoscimenti come il premio Accademia Chigiana nel 1994 e il premio della Giuria “F. Abbiati” nel 1995, Accademico di Santa Cecilia e Direttore artistico dal 2008 della Scuola di Musica di Fiesole su invito dello stesso fondatore Piero Farulli, direttore dell’Accademia Filarmonica Romana dal 2018 al 2021, nominato Accademico nel 2023, direttore artistico degli Amici della Musica di Firenze dal 2022, città ove risiede dal 1991, Andrea Lucchesini è un fiore all’occhiello della scuola di Maria Tipo e prosegue, sul suo esempio, una carriera che lo ha portato a condurre una vita nella musica, sia quale concertista sia nel ruolo di didatta, consapevole erede di una scuola straordinaria.
La sua ammirevole semplicità, molto vicina all’umiltà di chi abbia il cuore colmo di gratitudine e la mente affollata di ricordi, pone ancor più in risalto la sua caratura personale, rivelandone la sensibilità artistica e umana. Ma l’aspetto che maggiormente emerge dalla nostra chiacchierata è l’affetto del discepolo, la sacralità dei principi appresi, la venerazione dell’allievo verso il maestro, soprattutto la consapevolezza di essere per un certo verso debitore e al contempo responsabile nel proseguire sul camino tracciato, onde far dono di quei frutti alle nuove generazioni. Del resto, una grande scuola si rivela anche nella concatenazione di ‘testimonianze’ come anelli di congiunzione che collegano il sapere facendo sì che non vada disperso.
– Maestro, lei è stato molto presente nei giorni scorsi su tutti i media di comunicazione quale allievo della Tipo e dunque testimone della sua scuola, affezionato seguace dei suoi dettami didattici, ammiratore privilegiato del suo talento e del suo metodo. Ecco, con lei vorrei tentare di riportare ai lettori un ritratto che esuli dal curriculum ufficiale ma ci conduca vicino alla personalità di questa artista- caposcuola che, lo abbiamo constatato in occasione della sua scomparsa, è stata onorata dalle istituzioni musicali e culturali più autorevoli, non soltanto in Italia ma anche in altre parti del mondo. Attraverso i suoi ricordi, partiamo dall’inizio, dal suo primo incontro con la maestra che ha guidato i suoi passi fino a portarla ad affermarsi tra i più grandi pianisti della sua generazione.
Senza di lei avrei fatto molta più fatica. Ho iniziato a studiare con Maria Tipo dall’apprendimento basilare, essendomi avvicinato al pianoforte a 4 o 5 anni. Mio padre, jazzista, suonava la tromba e altri strumenti, ed io, come fanno molti bimbi, andavo a cercare sulla tastiera, a orecchio, le note che sentivo, ascoltandolo mentre dava lezione. Cosicché, molto presto si rese conto che avevo una predisposizione e, con due pezzettini insegnatimi velocemente, mi accompagnò a farmi sentire dalla Tipo mediante il suggerimento di un suo amico, insegnante di trombone, allora collega della pianista in conservatorio. Intravedendo in me delle qualità, la pianista decise di prendermi nella sua classe nonostante fossi un bambino appena seienne, età non ancora contemplata per l’ammissione. Entrai pertanto come uditore, pur ricevendo da lei moltissime lezioni, da allora fino a quando, avevo appena superato il mio quinto anno, andò in pensione: incredibilmente, decise di lasciare il conservatorio a causa della difficoltà ad avere permessi per proseguire la sua attività concertistica.
-Quale tecnica, quale impostazione aveva Matia Tipo?
La rilassatezza della mano era il fattore più importante. E, senza dubbio, anche più dell’articolazione, l’estrema cura del legato, per lei fondamentale. Inoltre lavorava molto sull’uso corretto del polso che in altri tipi di tecnica è tenuto abbastanza fermo. Attraverso il polso, infatti, si riesce a modificare il suono e a rilassare continuamente la mano; anche in passaggi molto difficili nella dinamica ‘forte’ occorre essere sempre rilassati con il braccio. Cercare di ottenere il bel suono era l’aspetto più evidente e quello che da bambino mi affascinò maggiormente. Quando cominciai ad affrontare pezzi un po’ più importanti e ad averla accanto a me nell’esecuzione a due pianoforti, sentirla suonare significava veramente innamorarsi del suono proveniente dallo strumento. Era un esempio continuo di bellezza.
– Come si colloca la sua scuola tra quelle italiane, tra la scuola romana di Renzo Silvestri e la scuola napoletana di Vincenzo Vitale?
Maria Tipo ha studiato moltissimo con la madre Ersilia Cavallo, che era allieva di Vincenzo Romaniello e di Ferruccio Busoni
– Una genealogia portentosa!
Sì, proviene anche dalla scuola russa di Anton Rubinstein. Certamente la Tipo si è formata molto a Napoli prendendo diverse strade. Ad esempio l’insegnante della Argerich, di Barenboim e di Bruno Leonardo Gelber era anch’egli dello stesso indirizzo.
– Vincenzo Scaramuzza?
Sì, però Scaramuzza se ne andò in Argentina ove fondò una sua propria scuola e a Napoli rimase Romaniello, altro discendente di quella scuola russa, dunque l’impostazione è molto simile. Tuttavia la Argerich se ne differenzia un poco perché in seguito andò a studiare anche con Gulda e quindi nel complesso ha avuto un altro tipo di esperienza. Al contrario, quando vedevo suonare Barenboim, ora purtroppo non suona più, coglievo moltissime analogie con la nostra scuola.
– La Tipo sembrerebbe infatti più vicina al pianismo di Barenboim che a quello evidentemente molto basato sull’articolazione della Argerich.
Certamente, sull’articolazione, un po’ com’era per Gulda. Napoli è stato un centro pianistico molto fiorente.
-Una Napoli diversa da quella di Vitale, però
Assolutamente.
-Possiamo dunque individuare una diversa scuola pianistica napoletana
Stranamente si parla moltissimo di Vitale, molti addirittura pensano che la Tipo sia stata sua allieva.
-Allorquando la Tipo ha abbandonato l’insegnamento istituzionale ha continuato a seguirla privatamente?
Sì, ha fatto una cosa bellissima: ha riunito gli allievi, non eravamo molti, sei o sette a non aver ancora concluso il corso di studi, dando lezione gratuitamente a tutti noi per portarci a conseguire il diploma. E le sue non erano certo lezioni da un’ora ma si protraevano per interi pomeriggi. Ricordo che arrivavo alle tre, andando via alle otto di sera, pieno di informazioni.
– E in seguito?
È stata molto brava anche successivamente, quando ha avuto allievi privati a casa sua. Inoltre ha insegnato a Ginevra per più di dieci anni e poi altri dieci, quindici anni a Fiesole. Amava molto riunire gli allievi, fare serate tutti insieme e se qualcuno aveva da preparare un concorso la sua esibizione davanti ai compagni diveniva occasione di ritrovarci fra noi. Siamo rimasti legati come membri di una famiglia. Lei ha sempre cercato di farci collaborare, di vivere insieme la musica. Aveva una carriera molto importante quindi non sempre era presente, però riusciva comunque a trovare momenti per dedicarsi alle nostre lezioni. Noi allievi l’abbiamo rincorsa ovunque. Poteva capitare che ci desse lezione di due ore nel pomeriggio alla Scala, quando aveva concerto la sera stessa. Io la seguivo ovunque.
-Un impegno notevole per entrambi
Lei poneva sullo stesso piano di valore l’impegno concertistico e quello didattico. I concerti erano la sua priorità ma anche l’insegnamento lo era. E ‘soffriva’ quando noi allievi avevamo un concerto.
-Ha partecipato ai suoi traguardi man mano che lei andava affermandosi?
Certamente, sempre.
-Come si mostrava e fino a quando ha partecipato direttamente?
Era insegnante molto esigente, rigorosa, non si accontentava. Una delle sue raccomandazioni costanti era che noi allievi dovessimo arrivare a un concorso sicuri al 100%: la coscienza doveva essere pulitissima, la preparazione inattaccabile. Se non ci riteneva pronti, anche dopo la prova finale, sia prima di andare a un concorso sia semplicemente al saggio in conservatorio, non esitava a manifestare il suo diniego con decisione e severità. Con la stessa lucidità, quando le cose funzionavano riusciva a darci una carica e una sicurezza che andavano ben oltre la validità della preparazione. Insomma, la prova davanti a lei era quella definitiva, molto più difficile del concorso.
-Un grande maestro rappresenta un faro per i suoi discepoli
Sì, la Tipo lo è stata per tutti noi allievi. E ce lo diceva ogni tanto, quando si arrabbiava. Noi tutti avevamo sempre la sensazione di essere miracolati per essere capitati con lei e sapevamo di dover dimostrare di essere degni di far parte della sua classe. Dal canto nostro infatti, avvertivamo la responsabilità di occupare un posto ambitissimo e dunque dovevamo meritarlo. Lei aveva pochi allievi e stava a quei pochi saperle dimostrare che la scelta che aveva fatto era valida.
-Quanto le è grato?
Maria Tipo ha dato moltissimo a ciascuno di noi, donando tutta sé stessa senza risparmiarsi un attimo e noi dovevamo in qualche modo restituire quel che ci veniva dato. Nel mio caso, oltre ai miei genitori lei è stata una persona di famiglia, una seconda madre. Loro mi hanno cresciuto, mi hanno insegnato a vivere e li ringrazierò per la vita, però la vita musicale la devo esclusivamente a lei, mia unica insegnante.
-Oggi i ragazzi cominciano subito a fare esperienze con diversi insegnanti
Oggi i giovani sono abituati a vivere, a consumare senza problemi, viaggiano in continuazione, si spostano con facilità. Internet insegna a muoversi continuamente, è un’epoca diversa ma fino a ventidue, ventitré anni, almeno fino a quando non si diventi autonomi, è importante avere un insegnante di riferimento. Anche senza essere Maria Tipo vi sono in circolazione tanti insegnanti bravi.
– C’è stato un momento nel quale lei ha sentito di essersi staccato divenendo autonomo?
Io avrei continuato a starle vicino ma nel momento in cui ho vinto il Concorso Dino Ciani è iniziata l’attività concertistica anche per me. Passavo due mesi in America, uno in Giappone e anche la Tipo era sempre in giro, quindi le occasioni per vederci erano sempre meno. A un certo punto volle parlarmi, dicendomi che avevamo fatto un grandissimo lavoro insieme per dieci, undici anni ed era giunto il momento che io volassi con le mie ali, cominciando a far da solo, tuttavia aggiungendo: ”Io ci sarò sempre”.
-I suoi inizi?
Per un po’ di tempo, cinque o sei anni, ho continuato a suonare il repertorio che avevo preparato durante la formazione con lei e sono andato avanti sfruttando i programmi studiati insieme. In seguito, quando ho iniziato a cambiare repertorio, mi sono sentito un po’ solo, con la sensazione di non più avere le spalle coperte ma tutte le volte che glielo chiedevo lei era a disposizione per sentirmi. Diciamo che non c’era più il rapporto della lezione settimanale e forse è anche giusto così. Sono cresciuto molto anche commettendo qualche errore. Fare scelte sbagliate di pezzi da studiare magari non adatti a me è stata esperienza di crescita. Se tornassi indietro lo rifarei poiché sono passaggi che fanno parte dell’evoluzione. Ho avuto anche momenti di calo nel rendimento. Può capitare ad esempio di avere un ripensamento su ciò che si sta facendo e così si matura, si cambia modo di pensare, modo di esprimersi, di essere: nel nostro lavoro accade spesso. Allora era più difficile che oggi ma lei non è mai mancata, è sempre stata presente, anche nelle difficoltà.
-Come potrebbe descrivere le bellezza del rapporto docente/discente?
Un rapporto totalizzante. Non si limitava alla lezione, non finiva lì, era un rapporto umano. La mia maestra mi ha insegnato anche a destreggiarmi nell’ambiente di lavoro. Avendo l’esperienza dei viaggi di un concertista, mi ha insegnato persino a far la valigia!
– Quali erano le coordinate del suo pensiero?
Scaturivano dalla vita musicale, quindi il rigore, il rispetto assoluto per la propria attività, per l’impegno da ottemperare. Nessun tipo di scorciatoia, di trucco. Mai accontentarsi, cercare sempre di migliorarsi, di approfondire, di ampliare le proprie conoscenze per una formazione che non si limiti alle note e alla tecnica. Con la raccomandazione ineludibile di studiare il repertorio della musica da camera per imparare dagli altri strumenti. Inoltre riteneva indispensabile conoscere il canto. Innamorata della cantabilità, voleva che conoscessimo e ascoltassimo l’opera di Mozart in particolare, poiché è da quella cantabilità che parte tutto.
– E, rispetto all’esistenza, era credente?
Sì, ma non praticante. Era un aspetto molto intimo, non ne parlava.
– La personalità, il carattere?
Molto esigente con se stessa. Persona davvero forte, raccontava i numerosi disagi dell’essere donna, nella professione, in un mondo maschile. Raccontava che nei viaggi intercontinentali, ad esempio in America, inizialmente partiva con la nave ma in seguito, viaggiando in aereo, poteva anche capitarle di trovarsi unica donna fra tutti i passeggeri.
-Viaggiava da sola?
Sì. E fin da giovanissima, a vent’anni, trascorreva mesi in Sudamerica, ove era una star. Grazie ad Arthur Rubinstein che, stimandola moltissimo, si era rivolto al suo agente affinché introducesse la giovane pianista italiana sul posto, visse lunghi periodi soprattutto in Argentina e in Uruguay.
Questi la portò a Buenos Aires ove tenne il primo concerto. Dopo la prima esibizione, il passaparola entusiastico fece sì che le venisse richiesto un altro concerto a tre giorni di distanza e con un altro programma, cosicché lei accettò il secondo concerto, che fece registrare il tutto esaurito. Quindi ci fu ancora richiesta e pare che, in tal modo, abbia tenuto almeno quattro o cinque concerti l’uno dopo l’altro, nel giro di una decina di giorni. Un po’ come usava ai tempi di Franz Liszt o Clara Schumann, l’artista rimaneva nella città fino a quando era richiesto, per tornare ad esibirsi l’anno successivo. Cominciò così la sua amicizia con l’America Latina. Raccontava spesso la sua vita da nomade, nella quale aveva sofferto moltissimo la solitudine.
– Era una donna pragmatica ma anche un’artista romantica?
Nel suonare era una persona romantica ma nella vita era molto pratica.
Pur avendo avuto due matrimoni (i suoi coniugi avevano una loro attività dunque non potevano affiancarla nei viaggi), salvo un periodo della vita in cui ebbe un’amica che la seguiva ovunque, dopo un’intera esistenza trascorsa in giro per il mondo lamentava il disagio dei viaggi da sola, soprattutto col passare del tempo e con l’aumentare del peso delle valigie. Fu così che a sessantacinque anni decise di smettere di suonare, ma non perché avesse alcun problema, anzi, era all’apice della carriera, con tournée già fissate in America, in Giappone mentre Seiji Ozawa le scriveva pregandola di non abbandonare poiché voleva ancora fare un’ultima tournée con lei. Insomma, era un momento di massimo fulgore, quando improvvisamente disse basta. Non se la sentiva più di viaggiare e di affrontarne il disagio. Allo stesso modo, dopo essere andata avanti altri dieci anni nell’insegnare, decise di smettere quando cominciò a sentirne il peso. Era determinata e una volta presa una decisione non aveva ripensamenti. Ne conosco pochi così risoluti e fermi.
-Certamente riusciva ad infondere grande sicurezza
Sì, quando ci elogiava ci dava tanta forza, poiché non capitava spesso. E si avvertiva allora di aver fatto un passo avanti.
– Era artista facile a commuoversi?
Sì, si commuoveva spesso. L’ho vista piangere durante alcune esecuzioni toccanti. Il suo trasporto emerge anche nelle annotazioni sulle partiture. Nei passaggi che avevamo eseguito particolarmente bene scriveva: ‘meraviglioso’, ‘commovente’. Le conserverò sempre le sue indicazioni, sono preziose: non si limitava a vergare sullo spartito un ‘piano’ o un ‘forte’, ma vi indicava il carattere da imprimere alla musica. In questo era molto brava poiché riusciva a darci immagini precise, che rimanevano in mente a lungo, inducendoci allo sforzo di renderle in musica.
– Al suo temperamento artistico, ha giovato la sua dose di napoletanità
Certamente, le sue due anime, il fatto di essere meridionale e disciplinata, hanno fatto in modo che realizzasse il suo Bach, un miracolo per me. Vi è l’anima matematica, rigorosa, dentro a tanta musica, cosa che spesso in Bach viene messa in secondo piano. Pensiamo alle sue Variazioni Goldberg, credo siano uniche. Ve ne sono di meravigliose ma le sue mettono in luce un aspetto melodico, una cantabilità non frequente.
– Qual è il suo ricordo più bello di questa maestra così amata?
Ne ho moltissimi. Il primo è quello di bambino, quando ho imparato a usare il pedale: si è messa in ginocchio per aiutarmi prendendo il mio piede con le sue mani e azionandolo al momento giusto per cambiarlo. Questa immagine mi resta impressa a vita, come pure l’ultimo ricordo che ho di lei ancora lucida. Non usciva più di casa e noi andavamo a trovarla abbastanza spesso: le suonai la Fantasia di Schumann e ne fu felicissima. Mi disse inoltre quelle due o tre osservazioni bastevoli per mettere a posto l’intero pezzo che mi rimarranno sempre dentro. Aveva ancora una lucidità incredibile, mentre era un pochino più offuscata su tutto il resto, ma quando si trattava di musica era incredibile. Fino in fondo ha ascoltato musica dalla mattina alla sera, seguendo per filo e per segno tutto quello che avveniva musicalmente nel mondo.
– Qual è stato il vostro ultimo incontro?
La sera prima che se ne andasse. Abbiamo saputo che si era aggravata e ci siamo recati al suo capezzale, presso la sua casa, mia moglie, anch’essa sua allieva per tanti anni, ed io.
– Quando una persona cara viene a mancare, vorremmo ancora parlarle. Se lei potesse, maestro, che cosa desidererebbe poterle dire?
Grazie! Mi sembra la parola più giusta. Tutto quello che so, lo so grazie a lei. E le farei la promessa di continuare a fare quello che sto facendo da un po’ di tempo, restituendo quel che lei ha dato a me, dando ai miei allievi il massimo di quello che io posso fare. Certamente non potrà essere quello che lei ha dato a me, ma cercherò di seguire il suo esempio luminosissimo.
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