ORTE (Viterbo)- Riceviamo e pubblichiamo: “Consegnate 50 chili d’oro entro 36 ore e non sarete deportati», questo l’ultimatum-beffa dei tedeschi alla comunità ebraica di Roma. Per salvare le proprie vite, quell’oro fu trovato, eppure ciò non impedì il rastrellamento del Ghetto di Roma di venti giorni dopo, sabato 16 ottobre 1943: 350 soldati tedeschi circondarono le vie di accesso al quartiere ebraico. 1.259 persone, tra le quali quasi 700 donne, circa 350 uomini e 200 bambini, vennero prelevati, senza scampo o possibilità di fuga, dalle loro case e caricate su dei camion. Due giorni dopo quelle persone, schiacciate come sardine in vagoni-bestiame, iniziarono il viaggio di molti giorni – che milioni di persone fecero, quasi tutti senza ritorno – verso i lager nazifascisti. Nella Roma «città aperta» – dove quindi vigeva il divieto teorico di stabilire reparti e apprestamenti militari – succedeva questo e molto altro: i tedeschi rastrellavano case, chiese, sparavano sulle donne che chiedevano pane, torturavano nel lager di via Tasso, fucilavano a Forte Bravetta, quando non per strada o per gioco. In questo clima, la lotta partigiana faceva clandestinamente quello che ogni guerriglia ha la possibilità di fare: sabotaggi, agguati, azioni-lampo, contro due eserciti (l’occupante nazista e le camicie nere fasciste) molto più forti militarmente e che oltretutto potevano manifestarsi alla luce del sole.
Il 23 marzo del ’44, un commando militare partigiano assaltò una divisione nazista a via Rasella, nel centro di Roma: 28 furono i soldati uccisi, 4 morirono nelle ore successive. Per tanti, troppi anni, una bieca propaganda attribuì a quell’atto – e non alla ferocia nazista – la tragica vendetta del giorno successivo. Per troppi anni si è mentito, dicendo che se quel commando si fosse consegnato le bestie non avrebbero avuto il motivo per vendicarsi su cittadini innocenti. Si tratta di un falso: lo hanno dimostrato numerose sentenze della Corte di Cassazione, al termine di processi dove giornalisti, che avevano chiamato assassini i componenti di quel gruppo, furono ripetutamente condannati a risarcire i protagonisti per averli diffamati. È lo stesso comunicato tedesco a far luce definitiva sulla vicenda: mai nessuna richiesta di consegnarsi fu fatta ai partigiani. Il giorno dopo, «semplicemente» gli usurpatori fecero affiggere in città un comunicato che concludeva: «Il comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è stato già eseguito». Già stato eseguito, quindi senza possibilità di soluzione diversa! E, per non sbagliare, si arrotondò per eccesso: 335 persone – quindici in più del macabro conteggio – tra i quali l’ortano Tito Bernardini, furono fucilate alle Fosse Ardeatine e sepolte facendo esplodere quella cava per nascondere l’aberrante massacro. Non fu solo un crimine tedesco, ma nazifascista, perché le autorità di polizia italiane contribuirono attivamente a compilare la lista di coloro che vennero definiti «non degni di vivere». Uno dei tanti crimini – appartenente al periodo più basso della nostra Storia – che ancora oggi, a distanza di quasi ottant’anni, non possiamo permetterci di dimenticare.
Alle ore 10:30 di giovedì 24 marzo, la Sezione di Orte «Tito Bernardini», nel 78° anniversario di quell’Eccidio, si recherà – insieme alle Istituzioni e a una rappresentanza di studenti – a rendere omaggio al Monumento a Tito Bernardini, nell’omonima piazza dietro lo stadio comunale».