Antonio Latanza, un anno dalla sua scomparsa

di CINZIA DICHIARA

Antonio Latanza, in passato Direttore del Museo Nazionale degli Strumenti Musicali di Roma, collezionista tra i più grandi al mondo di strumenti musicali e dischi in vinile, a un anno dalla scomparsa.

Scrivere di una persona che si sia conosciuta nella vita non sempre è facile poiché, se da un lato se ne potrebbero accennare aspetti caratteriali, ricordare episodi e menzionare espressioni peculiari, dall’altro, una sorta di delicatezza induce a misurare con sensibilità le parole, sia per non superare la soglia della confidenzialità trascorsa, sia perché, a rischio di parzialità, pur avendone compreso alcuni tratti, se ne potrebbero tralasciare altri. Tuttavia, dedicare un profilo a una personalità che merita di essere conosciuta e ricordata, come quella di Antonio Latanza (1946-2022) costituisce, a un anno dalla scomparsa, un tributo alla memoria, valore sentito, che peraltro è bene coltivare nella società odierna, oltremodo tesa alla corsa verso il futuro consumistico dell’oggi.

Tarantino d’origine, Antonio Latanza è stato indubbiamente una singolare figura di cultore ed esperto di musica, che molto ha dato al mondo musicale. Malato da anni, eppure sempre operoso, viveva ormai nella casa paterna, un elegante appartamento in zona Vigna Clara, in cui dominava incontrastato il suo regno, fatto di libri, dischi e apparecchi di riproduzione sonora, sullo sfondo di un gigantesco affresco parietale realizzato in stile futurista. Colto e appassionato, conosceva in maniera enciclopedica tutto, sulla musica, gli autori e le opere di suo interesse, che sapeva comprendere e valutare con gusto e con trasporto autentico e gioioso. Avrebbe desiderato molto continuare a mantenere i contatti con l’ambiente culturale, dati i suoi frequenti rapporti di amicizia e di scambio con musicisti, studiosi e collezionisti di ogni dove, cosa che negli ultimi tempi gli è venuta meno, e, finché ha potuto, ha alimentato i molteplici interessi, che lo hanno visto, lungo il percorso, indimenticabile direttore del Museo degli Strumenti Musicali di Roma, nonché appassionato collezionista di dischi e di rulli per pianoforte meccanico, ovvero autopiano, parte dei quali donati al Dipartimento di Musicologia di Cremona e attualmente raccolti nel ‘Fondo Discografico Antonio Latanza’.

Proveniente da famiglia altoborghese, Antonio era figlio del Senatore Domenico Latanza (1908-1991), politico attivo nella Roma dagli anni ’50 ai’70. Si sentì in dovere di laurearsi in giurisprudenza, cosa che fece brillantemente nel 1979, ma presto si rese conto di voler procedere su un altro binario. Persona di grande libertà di pensiero, scevra da ogni inclinazione al perbenismo tout-court, nonostante l’impostazione orientata sulla cultura classica e su un’educazione d’antan, talora esplodeva in qualche sfuriata momentanea che attraversava il suo cielo sereno come una tempesta passeggera. Del tutto allergico alle convenzioni banali, che rifuggiva con un “odi profanum vulgus et arceo”, era refrattario a qualunque forma di opportunismo e si teneva lontano da consorterie e faziosità intellettuali, che lo infastidivano anche per i loro limiti culturali, alle quali preferiva la collaborazione basata sulla stima e sulla condivisione di idee.

Fu amico, e amico davvero, di importanti personalità dell’ambito musicale, come i grandi pianisti Carlo Zecchi, l’eredità epistolare e documentaristica del quale pensò di donare al Conservatorio ‘Santa Cecilia’, Pietro Scarpini e Mario Ceccarelli, noti esponenti della scuola romana e occasionalmente suoi maestri di pianoforte; su Ceccarelli ha anche pubblicato un volumetto dettato da ammirazione incondizionata, successivamente alla nota pubblicazione del suo raro e particolare studio sul Piano a cilindro per la casa editrice Aracne. Fu legato da fraterna amicizia anche alle figlie del pittore Giacomo Balla, Luce ed Elica, peraltro sue vicine di casa- raccontava- quando risiedeva in zona Prati.

Conoscitore di interi libretti di opere liriche con relativi cori e arie, così come di poemi letterari, amava citarne interi brani a memoria. Sbalorditivo, declamava liriche leopardiane e recitava con ironia e spesso con una vena di sarcastica amarezza, i sonetti romaneschi di Giovanni Gioacchino Belli. Tutte le rime tristissime della Achmàtova, le pronunciava sempre con una emozione inaudita, talora con un groppo alla gola, commuovendosi, così come si adontava per le tante ingiustizie del mondo. Ma la sua arguta verve gli consentiva di spaziare con ilarità dalle poesie di Trilussa alle battute di Totò, delle quali infarciva talune pirotecniche conversazioni amicali.

Iniziò ad operare in un ambito collegato alla musica, arte per lui attraente oltre ogni dire, occupandosi di archivistica presso la Discoteca di Stato di Roma, sede di collocazione e catalogazione del deposito legale della fonoteca nazionale.

Decisivo fu il suo incontro in quegli stessi uffici con Luisa Cervelli, altra personalità emblematica di un mondo forse poco conosciuto che si affaccia a pieno titolo su quello della musica. Studiosa di organologia, la Cervelli era stata chiamata a organizzare e dirigere per un decennio il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, fra le centinaia di strumenti collezionati dal tenore Gennaro Evangelista Gorga, passato alla storia del melodramma col diminutivo di Evan, acquisite nel 1974 dell’allora Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, cui vennero ad aggiungersi, grazie al suo impegno, altri esemplari di pregio, come l’arpa seicentesca appartenuta alla casata dei principi Barberini e un rarissimo pianoforte di Bartolomeo Cristofori del 1722.

Al momento di doversi congedare, la Cervelli indicò in Antonio Latanza, del quale nel frattempo aveva avuto agio di apprezzare la preparazione e le qualità intellettuali e manageriali, il suo successore ideale. Fu così che all’età di 38 anni questi diveniva Direttore del Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, sito in un magnifico palazzo di tre piani in Piazza di Santa Croce in Gerusalemme. E malgrado qualche ostacolo burocratico che talvolta ebbe a lamentare senza reticenze, è stato il museo, forse, la sua impresa più bella.

Ammiratore di artisti primonovecenteschi, inoltre, era un fedele ‘seguace’ di Ferruccio Busoni, della cui produzione compositiva possedeva tutte le registrazioni. Il suo volume Ferrucio Busoni. Realtà e utopia strumentale (Pellicani, 2001) rappresenta un lavoro pionieristico, il primo intorno agli strumenti meccanici e a quelli elettrici ai quali Busoni volle dedicarsi. Esso è scaturito dall’interesse per le sperimentazioni su strumenti meccanici delle prime avanguardie musicali, di cui Latanza rende pubblici documenti del tutto inediti reperiti presso la Preussische Staatsbibliothek di Berlino.

Condivise per un significativo periodo l’appassionata ricerca intorno all’opera di questo autore con una studiosa venuta dal nord con la quale, egli raccontava, aveva letteralmente adorato la Tuscia e il viterbese, eleggendo la terra etrusca a principale meta di sopralluoghi fuori porta di quel periodo. Negli ultimi anni amava narrare con nostalgia dei tramonti accesi sulle alture della Tolfa, irretito, tanto dai misteriosi segreti delle necropoli, quanto dal mare solitario delle coste altolaziali. Ma non amava il mare inteso come meta di vacanza. Nel suo modo di essere aristocraticamente anticonvenzionale detestava i movimenti di massa in esodo verso le spiagge a suon di radiolina e di strombazzanti clacson e impallidiva di fronte alle distese di ombrelloni. E allorquando doveva trasferirsi, per brevi periodi estivi, nella sua villa di Ansedonia, assumeva un tono vagamente rassegnato.

 Con quella medesima intensità amava invece la vitalità barocca dell’opera napoletana e l’elegante contesto artistico del settecento, che trovava in lui un fine conoscitore, nonché un instancabile raccoglitore di incisioni. Altrettanto amava la scuola pianistica russa, della quale lo seducevano la possanza, e, parimenti, la struggente passionalità, che andava ricercando nelle pieghe, e nei solchi vinilici, degli esiti discografici.

In definitiva era un uomo dalle grandi passioni, verso le quali era spinto da generosità e slancio, sobbarcandosi talora le spese per il reperimento, la manutenzione o l’acquisizione di strumenti musicali interessanti, che portava al Museo, fino al punto di finanziare di suo il restauro dell’Organo Idraulico del Quirinale, marchingegno ingegneristico che eccitava la sua fervida attrazione per gli oggetti capaci di produrre suono.

Tra i suoi amici ve ne sono di musicisti e cattedratici, a Roma ma fino in Svizzera, Germania, Inghilterra, America, che hanno condiviso con lui avventure alla ricerca di strumenti antichi, magari abbandonati in un solaio o in qualche cantina, che egli ha avuto il grande merito di sottrarre all’oblio e al disfacimento.

 Purtroppo, intorno al 2006 emersero i primi sintomi della malattia degenerativa che gli riservava un progressivo e inesorabile isolamento. Ciononostante ha tentato di non smettere le sue attività e uno dei suoi principali intenti è stato quello di destinare l’ingente patrimonio artistico-culturale accumulato nel tempo al migliore degli indirizzi possibili. La scelta avvenne grazie al contatto con Laura Mauri Vigevani, specialista di organologia e docente presso il Dipartimento di Musicologia e Beni culturali dell’Università di Pavia dislocata a Cremona. Grazie alla ricerca da costei condotta sugli strumenti musicali e sui beni musicali in generale, Latanza decise di donare la sua enorme collezione non a Roma bensì al Dipartimento di Musicologia cremonese. Questa fu trasferita nella città lombarda tra il 2015 e il 2019.

Egli stesso, in preda all’entusiasmo quasi fanciullesco che gli era proprio, con l’aiuto dei suoi collaboratori partecipò all’organizzazione e ai preparativi. Infine volle presenziare all’inaugurazione del Fondo intitolato al suo nome, invitando anche gli amici più vicini alla cerimonia, tenutasi presso il Dipartimento il 10 aprile del 2017. Dopo averli custoditi per una vita, donava quasi 3000 dischi in gommalacca, migliaia di dischi in vinile, centinaia di CD e innumerevoli nastri magnetici, nonché oltre 1.800 rulli traforati per autopiano (collezione davvero unica) con un pianoforte a mezza coda predisposto per il loro impiego, che fino a quel momento aveva troneggiato nel salone della sua casa, e, infine, il materiale documentario relativo a ricerche che aveva svolto o in via di svolgimento.

La stampa nazionale ha dato un rilievo periferico ed episodico alla sua iniziativa e alla sua persona, che invece riveste un valore, non soltanto per aver fatto del Museo degli Strumenti Musicali di Roma un punto di riferimento fondamentale nel mondo, ma anche per aver messo a disposizione di tutti, attraverso le donazioni, un patrimonio storico impareggiabile, raccolto con minuziosa e rara perizia, frutto di profonda conoscenza e di un amore encomiabile per il particolare settore disciplinare della discografia e della musica meccanica, oltre alle altre cospicue donazioni di documenti relativi a musicisti importanti.

In tutto quello che Antonio Latanza ha creato nel tempo risiede la sua estrema vitalità. Egli si trova a beneficiare della fortunata sorte di coloro che abbiano elargito all’umanità doni legati alla bellezza: la loro vita non si interrompe, se non fisicamente, proseguendo attraverso il loro lascito. Ciò farà sì che la sua figura, ce lo auguriamo, non muoia mai veramente.

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