Arriva la festa di Sant’Antonio nella Tuscia fra fuochi, benedizione di animali e poesia

di ANNA MARIA STEFANINI-

VITERBO – Si avvicina la festa di Sant’ Antonio abate, detto anche sant’Antonio il Grande, che è stato un abate ed eremita egiziano ed è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati.
In onore di Sant’Antonio, domenica 15 gennaio, a Viterbo si svolgerà la benedizione degli animali alla quale sono stati invitati a partecipare anche gli alunni delle scuole viterbesi. Ma la festa di Sant’Antonio è anche legata al fuoco.

“Di quella pira l’orrendo foco tutte le fibre m’arse, avvampo’!” (G.Verdi).

Non si spegne la passione per i fuochi e i falò di Sant’Antonio nella Tuscia. Il Sacro fuoco rappresenta la vittoria della luce sulle tenebre. Il fuoco è ascendente, sale verso l’alto, simboleggia energia, forza, virilità. A Olimpia ardeva nel braciere. I Romani adoravano il fuoco come una divinità familiare e una Vestale lo custodiva. Prometeo lo rubò agli dei per donarlo agli uomini.
È da sempre legato a rituali mistici e magici, a danze sacre intorno ai falò,
alle preghiere (il fuoco arde anche nelle candele accese in chiesa).

Il Focarone di Bagnaia rappresenta un’antica e suggestiva tradizione.

Tempo fa, si usava, alla fine della festa, raccogliere le braci rimaste e portarle a casa per proteggere la famiglia dalle malattie, dalle disgrazie e dai fulmini. Per tradizione, si svolgerà il 16 gennaio, vigilia della festa di Sant’Antonio.

La cenere in passato veniva raccolta e usata per aumentare la fertilità dei campi.

Soffocare le fiamme che si levano dalla poesia italiana, è impossibile, fortunatamente. È la poesia stessa a volte una stupefacente forma di combustione dell’esperienza umana, delle emozioni più profonde, delle passioni. Da essa promanano le emissioni di calore e di luce proprie di un incendio.

L’origine dell’uomo che ci consegna la mitologia greca è quella di un impasto di fango “animato” dal fuoco degli dei, in base a quanto deciso da Zeus ed attuato dal gigante Prometeo (il cui nome significa “Colui che è capace di prevedere”).

La prima condanna inflitta da Zeus al genere umano, colpevole di aver trattenuto per sé la parte migliore del creato, è la “confisca” del fuoco (dell’anima?).

Parallelamente, il primo reato internazionale perpetrato dagli esseri umani è il furto, con la complicità del generoso Prometeo, del fuoco.

Senza il fuoco l’essere umano non sopravviverebbe, forse non esisterebbe neppure, come ricorda il fisico greco Empedocle che scompose l’unità e gli equilibri dell’universo nel quadrinomio fuoco, acqua, terra ed aria.

Anche i primi grandi poemi epici dell’umanità, l’ Iliade e l’Odissea, ruotano entrambi sul cardine dell’incendio di Troia.

San Francesco d’ Assisi scriveva: “Laudato si’, mi’ Signor e, per frate focu / per lo quale ennallumini la nocte: / et ello è bello et iocundo et robustoso et forte”. (San Francesco, Laudes creaturarum); la ritroviamo crepitante nella nota invocazione di Cecco Angiolieri: “S’i’ fosse foco, arderei’ il mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei” (sonetto).

Dante Alighieri, nel suo viaggio, ritrova la musica ignota del fuoco: “Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento”. (La Divina Commedia, Inferno, canto IX).

Il fuoco e la poesia. Una dualità che si unisce. Così scrisse Salvatore Quasimodo:“…altare della sopravvivenza davanti ad un falò presso il Naviglio, dove Qualcuno può tradire /a quel fuoco di notte, può negare / per tre volte la terra (…)”.

Talvolta fuoco ed acqua si alleano a modellare l’esistenza: “Il mare brucia le maschere / le incendia il fuoco del sale. / Uomini pieni di maschere / avvampano sul litorale” (Giorgio Caproni).

Inoltre, saldamente fedele alla sua missione e alle tradizioni, il fuoco accende Bagnaia e infine rientra tristememente nei camini delle nostre case, a richiedere e ricevere nutrimento, come un bimbo dalla madre; intona gioioso la sua melodia ed affida alla sua luce il compito d’illuminare dimensioni che lo sguardo umano potrà, compiacendosene, soltanto intuire: “Case come questa sono ricoveri/o poco più per gente di passaggio, / ma se la madre di famiglia nutre / il fuoco, aggiunge rovere sottile, / la casa di fortuna non più alta / del noce che le dà un po’ d’ombra, scarsa / a contenere il poco che contengono / di più destini quattro mura, basta / a fonderli in uno quanto è lunga / questa vita, quanto spazia la speranza di un’altra”. (Mario Luzi).
E la fiamma diventa triste nel Natale di Giuseppe Ungaretti, dopo la guerra,
[…] Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Già. La guerra ricorda che “Chi combatte il fuoco col fuoco di solito finisce in cenere”.

È strano il percorso che poi la Quaresima ci fa compiere: normalmente si va dal fuoco alla cenere! E’ questa la realtà che noi conosciamo. Un fuoco che arde, consuma, scalda… ma poi lentamente non rimane che un mucchietto di cenere che altrettanto lentamente perde il suo calore.
Dopo il fuoco e il Carnevale, dalle ceneri di penitenza della Quaresima, noi torniamo invece alla luce.

Print Friendly, PDF & Email
Condividi con:
LEGGI TUTTE LE NOTIZIE