Canepina, il piccolo mondo ai piedi dei Cimini

di DANIELA PROIETTI-

VITERBO-  Il suo territorio di alta collina, posto sul versante sud del Monte Cimino, confina con il capoluogo viterbese, da cui dista poco più di dieci chilometri. Eppure, per andare a Canepina, il cui nome si rifà alla coltivazione della canapa, attività svolta nel territorio durante periodo medioevale, sembra quasi di compiere un viaggio affatto breve: la strada, che si diparte dalla zona sud di Viterbo, scorre davanti alle Caserme della Scuola Allievi Sottufficiali e risale in direzione di Roma. A destra e a sinistra, poche case, i cui privilegiati proprietari hanno la fortuna di godere di un panorama sconfinato, che arriva sino alla costa del Mar Tirreno, al Monte Argentario e al profilo dei monti che cingono gli ultimi paesi del Lazio al confine con la Toscana. In pochi minuti si raggiungono i fitti castagneti dei Cimini, attraversati da numerosi sentieri percorsi giornalmente e nonostante i capricci del tempo da quanti amano passeggiare nella natura. Questi scenari incantati sono stati spesso protagonisti di uscite o di feste di fine anno con le classi che ho avuto durante la mia, oramai piuttosto, lunga carriera.

Moltissimi anni fa, portammo i bambini a respirare l’aria fredda di fine ottobre e a raccogliere le castagne. Erano piccini, e avevano l’aspetto di tanti folletti felici e, con le loro grida, animavano l’ampia radura in cui avevamo scelto di fermarci. Conservo alcune foto di quella giornata: tra queste una in cui una decina di bambini sono seduti ad uno dei tavoli in legno, usati durante la bella stagione per fare dei pic nic. La mia figlia maggiore, era tra loro. Guance rosate evidenziate da un baschetto bianco e biondi riccioli che le scendevano sulle spalle. Il volto disteso, come è normale che sia a quell’età, e un sorriso composto e contenuto che ancora l’accompagna.

Dopo alcune curve si giunge al bivio per Soriano, poi si inizia a scendere e la vista si allarga di nuovo sui campi. L’abitato di Canepina, fino a poco meno di una ventina di anni fa, era costantemente attraversato dal flusso di automezzi che si muoveva verso il sud della provincia viterbese.

Per alcuni mesi mi sono spostata giornalmente verso Civita Castellana ed ero solita scendere lungo l’arteria che la divide a metà, per poi dirigermi verso i vicini Vallerano e l’ adiacente Vignanello. Successivamente è stata costruita una bretella d’asfalto che, per mezzo di un lungo ponte, solca la vallata e limita il traffico all’interno dei paesi della zona.

Quasi all’ingresso del borgo di Canepina, all’interno di un antico convento, risalente al XVII secolo, in cui risiedevano i frati Carmelitani, è collocato il Museo Delle Tradizioni Popolari di Canepina, da anni meta ambita per i viaggi d’istruzione delle classi della scuola primaria e secondaria di primo grado. E’ noto che durante i lavori di ristrutturazione del grande edificio, riemersero macchie di colore che fecero pensare alla presenza di affreschi: nonostante alcune leggerezze commesse da chi svolse le operazioni, vennero alla luce pitture murali databili al secondo e terzo decennio del 1600, realizzate da artisti della scuola di Giuseppe Sebastiani da Macerata, che operava nel vicino Palazzo Farnese di Caprarola.

Aggirarsi nel chiostro e nelle sale di quello che oggi è un interessante e ricco museo, cala il visitatore in un mondo che, oramai, quasi più non ci appartiene.

L’ho visitato l’ultima volta sei anni fa, con i ragazzi della terza classe del ciclo precedente. Inutile dire quanto siano stati attratti dagli attrezzi dei contadini, da quelli del calzolaio, dagli antichi abiti e dalle tenute del cacciatore. Ma il momento in cui i loro occhi non riuscivano proprio a staccarsi da quanto ci circondasse, è stato quando ci siamo introdotti in un’aula ricostruita alla maniera d’inizio ‘900.

Non eravamo ancora in tempo di Covid, e vedere quei banchi fissi e perfettamente allineati, incuriosì molto i miei alunni, abituati a ruotare nei vari posti e a sedere in tavoli sistemati ora a ferro di cavallo, ora a gruppi, ora in file. La cattedra poi, così inusuale, posta al di sopra di una pedana in legno, in posizione dominante, e con al di dietro un’austera sedia. Sicuramente anche gli insegnanti, i “signori maestri” del tempo, quasi sempre uomini , erano delle figure austere. Me li immagino rigidi, forse condizionata dai racconti che me ne faceva mio padre. Inflessibili e di certo poco sensibili al benessere dei piccoli scolari, tanto che la dispersione scolastica, caldeggiata anche dal bisogno delle famiglie di avere prima possibile braccia destinate al lavoro, era decisamente accentuata.

Nelle classi, non tutti gli scolari erano uguali per il maestro. Questa, almeno, è la percezione che ricevevano gli alunni di tanti decenni fa, specialmente durante la guerra. Ma c’era la povertà, la fame. E c’era chi aveva la possibilità di portare agli insegnanti qualche prodotto della terra, o un cartoccio di uova, oppure qualche quarto di carne, merce rara e pregiata. Quelli erano gli studenti prediletti. Di certo non era la regola, ma una pratica diffusa.

Alle pareti della stanza, delle carte geografiche che rappresentano l’Italia, dove la Valle d’Aosta non era ancora una regione a sé e gli Abruzzi erano indicati ancora assieme al Molise.

L’odore dei materiali e la piccola stufa in ghisa, che offriva un gradito tepore nelle fredde giornate invernali, quando le abitazioni erano prive del riscaldamento di cui oggi godiamo, ci calò in una realtà a noi sconosciuta e che, probabilmente, è lontana dai bambini non meno di tre generazioni.

La via che porta al centro del paese, è in discesa. Sul lato destro, in un ampio piazzale in cui ricordo di aver visto delle bancarelle durante una delle fiere del paese, abbiamo parcheggiato la nostra automobile. All’ingresso di quello che ci sembrava un piccolo parco ricavato sul fianco di una collinetta, un’insegna sta ad indicare la Chiesa di Santa Corona, patrona del paese, e di cui molte abitanti portano il nome.

L’edificio sacro, è il più antico del comune e sembra esistesse già alla fine del XIII secolo, quando Papa Onorio IV la concesse al Monastero capitolino di San Silvestro in Capite, assieme ad alcuni territori ad essa confinanti.

Lasciata a se stessa per lungo tempo, negli ultimi anni è stata restaurata, abbellita e restituita al culto dei fedeli. Ridiscesi dalla collina, siamo arrivati nella piazza principale e abbiamo raggiunto il nucleo abitativo più antico. Gli uffici del Comune si trovano proprio su Piazza Garibaldi e occupano uno degli edifici che fece costruire nella Tuscia la famiglia Farnese.

Alessandro, fratello della bella Giulia Farnese, salito al trono di Pietro col nome di Paolo III, ordinò di edificare questo edificio, dalle dimensioni molto più contenute degli altri, per il figlio Pierluigi. Il palazzo rappresentava la sede di amministrazione dei beni presenti nel vasto territorio circostante. Successivamente il palazzetto venne ampliato secondo lo stile imperante nel XVI secolo.

Alcuni anni fa, durante una delle giornate dedicate alla Sagra delle Castagne, salimmo al castello insieme ai nostri figli: eravamo alla ricerca del braciere su cui, scoppiettando, il gustoso frutto autunnale guadagna una crosta croccante e un cuore burroso.

Abbiamo risalito, un po’ a fatica, le ripide vie che conducono al punto più alto del paese, quello che, prima di noi tante generazioni e, per primi, i Di Vico alla metà dell’XI secolo, debbono aver calpestato.

L’importante famiglia romana di Prefetti, fece costruire un castello su di un’altura circondato da un dirupo considerato inaccessibile per tener d’occhio la Piana del Tevere, visibile dalla torre d’Oriente, da cui temevano arrivassero i più feroci attacchi. La famiglia, che occupava una dimora presso quello che prese poi il suo nome, ma che al tempo era conosciuto come Lacus Ciminus, fece di questo castello un presidio militare.

Nei dintorni di quella che oggi è Canepina, ai margini della spaventosa Selva Cimina, pastori e contadini vivevano alla mercé delle legioni che lì si muovevano, assoggettati anche ai soprusi di chi operava al servizio dei Di Vico, degli Orsini, degli Anguillara e dei Colonna. Stanchi e impauriti, chiesero la protezione ai comandanti del castello che permisero loro di costruire case in legno lungo il pendio posteriore al Castrum: nacque, così, la prima comunità.

Il castello venne poi acquistato da Papa Adriano IV , passando sotto il patrimonio di San Pietro. Il terreno, particolarmente ricco di acque, favorì la coltivazione della canapa (e di qui il nome Canapina, che si trasformò, a causa di un errore di trascrizione, nell’odierna Canepina). La particolare composizione della terra, composta perlopiù da materiale sassoso, rendeva la canapa eccezionalmente bianca, tanto da essere contesa su una moltitudine di mercati e desiderata dalle più sofisticate nobildonne romane.

Alla fine del XII secolo, il castello passò sotto il controllo della città di Viterbo e poi, successivamente, di nuovo alla Santa Sede. Il paese è descritto anche nei Commentarii redatti da Papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, che ne descrive le strette case, densamente popolate come alveari.

La storia del borgo prosegue con la famiglia Farnese, di cui si ha testimonianza nel Palazzo del Comune.

Alla fine del 1800 gli Anguillara, allora proprietari del castello, trovandosi in difficoltà economiche, frazionarono gli spazi di una delle sue parti in piccoli appartamenti e li vendettero a privati. La parte restante venne ceduta alla famiglia Rempicci.

Si racconta che sul piazzale d’ingresso vi fosse un ponte levatoio e un pulpito su cui, secondo la tradizione orale, vi predicò San Bernardino da Siena. Anche stavolta abbiamo risalito le tortuose vie del vecchio borgo. Era una calda domenica di settembre, dal cielo grigio e l’aria caldo umida che ci ha nuovamente affaticati. Non c’erano sagre e feste, e non abbiamo incontrato che poche persone e qualche gatto. Accompagnati dal silenzio, ci siamo mossi al di là della torre del castello trovando, davanti a noi, erbe alte e incuria. Strano, però quel senso di abbandono tanto si intonava al luogo, che sembrava esserne parte imprescindibile.

Spesso parliamo di angoli di territorio poco sfruttati turisticamente: sacrosanta verità, ancor più spesso non ricordiamo quanto questi cantucci di terre abbandonati perderebbero il loro fascino ancestrale e la poesia che li racconta.

Mentre ridiscendevamo, abbiamo incontrato una chiesa. Era aperta ma vuota, come quasi sempre accade quando ci si introduce in esse, a meno che non sia l’orario della funzione o ci si trovi nel centro di Roma.

La Chiesa Collegiata di Santa Maria dell’Assunta, sorge in posizione sottostante alla rocca. Dinanzi a sé una piccola balconata che guarda sui tetti.

Dalle notizie che si hanno, è impossibile datarne la costruzione. Si sa, però, che fu restaurata da Antonio da Sangallo il giovane che, alla fine del XV secolo, cercò di riproporre, per desiderio degli abitanti, le forme e i colori della Basilica della Madonna della Quercia.

Alla chiesa è legata la figura del sacerdote don Simone Foglietta, il quale ogni sabato si recava a celebrar messa, compiendo un pellegrinaggio a piedi e percorrendo assieme ai devoti la vicina Strada Romana, presso la frazione viterbese. Sembra che fosse stato accusato da una ragazza di una stimata famiglia di portarne il grembo il figlio. Egli, del tutto estraneo all’accusa, si discolpò. I parenti della giovane lo attesero poco prima della meta finale e lo accoltellarono facendone uscire le viscere. In quel momento gli apparve la Madonna, che lo alzò e lo portò nella basilica a dire la messa come consuetudine. Egli si risanò e visse alcuni anni ancora. A questo evento miracoloso, è dedicata una pittura murale nel chiostro della basilica stessa.

All’interno della chiesa collegiata di Canepina, è conservata, invece, la statua di Santa Corona, patrona del paese, che viene portata in processione nel mese di maggio.

Canepina è anche terra di ottimo cibo e, oltre alle castagne, chi passa di qua, non può fare a meno di assaggiare il “fieno”, la tipica pasta lunga e sottile, spesso condita con sugo di funghi dei Monti Cimini.

Questo sarà, con ogni probabilità il motivo della prossima visita in questo piccolo borgo alle porte del capoluogo.

Lasciamo il paese, e per ritornare a casa scegliamo di passare proprio per quella strada che percorreva ogni sabato Don Simone. Alti castagni, carichi di frutti quasi maturi ci fanno ombra, mentre davanti ai nostri occhi, pian piano si apre il panorama. Arriviamo con lo sguardo oltre l’abitato di Bagnaia, fino al Colle Falisco: a destra e a sinistra i paesi a nord della provincia. Ci troviamo sulla cresta dei monti, con le spalle a ciò che abbiamo ancora da scoprire e gli occhi su quanto ben conosciamo.

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