di FRANCESCO MATTIOLI-
Ho sempre avuto esperienza diretta del lavoro dei giornalisti; sono stato allievo di Gianni Statera (padre e fratello giornalisti, il fondatore della Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza, la prima e la più autorevole in Italia, già agli albori degli anni ’80), ho avuto come colleghi di insegnamento Maurizio Costanzo, Andrea Vianello, Francesco Giorgino e sono stato membro della commissione accademica che conferì la laurea ad honorem in scienze della comunicazione ad Walter Cronkite, uno delle maggiori figure del giornalismo nordamericano. Ma se è per questo, ho anche seguito da vicino il lavoro di molti dei più autorevoli giornalisti viterbesi, da Alessandro Vismara – un gigante della professione – ad Arnaldo Sassi, a Fausto Pace, a Federico Usai, senza citare i/le più giovani, animati/e da sacro e apprezzabile furore professionale.
Non vuole essere, questa, un’ appendice al mio curriculum vite et studiorum; ne ho fatto cenno per dire che la frequentazione di questi professionisti mi ha ulteriormente convinto della delicatezza del loro ruolo. L’informazione giornalistica oggi attraversa un mondo complicato; complesso, lo è stato sempre, forse, ma complicato lo è oggi perché l’informazione ormai viaggia senza binari, con strade mal disegnate e, soprattutto, trova interlocutori e avversari agguerriti e capaci di stravolgere il suo ruolo e la sua credibilità. Libertà e licenza talvolta si confondono. Se il principio immortalato da John B. Bogart già nel 1882 (se un cane morde un uomo non è una notizia, se un uomo morde il cane è una notizia) e ribadito tra gli altri dal padre degli studi sui mass media Marshall Mc Luhan è alla base della professione giornalistica, e se questa è legata alla necessità di creare una audience sempre più vasta, è chiaro che il limite tra libertà e licenza di pensiero rischia di diventare molto confuso. Il giornalista potrebbe vantare una sorta di “licenza di uccidere” in nome della libertà di stampa che ne farebbe una mina vagante nel campo non solo dell’informazione, ma anche della politica e -aspetto tutt’altro che secondario – della “costruzione sociale di senso” che regola ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è buono e ciò che è cattivo, insomma i valori base di riferimento della convivenza umana. Ne abbiamo un segno evidente sui social dove operano due soggetti estremamente problematici, per certi versi pericolosi: l’Intelligenza artificiale, che può stravolgere il vero mediante il vero-simile, e uno shaming che spara ad alzo zero spesso a partire da condizioni di estrema ignoranza pur di raccattare followers.
Qualcuno obietterà che c’è la deontologia professionale a soccorrere; oggi non basta, almeno se il giornalismo, come tante altre dimensioni della comunicazione, dalla politica allo spettacolo al commercio alla cultura, diventa la foresta hobbesiana dell’homo homini lupus dove conta più sgomitare e sopraffare dei concorrenti che cercare equità e verità.
E’ su queste basi che desidero richiamare l’attenzione sul caso di tal giornalista italiano Vincenzo Lorusso (none omen…) che ha esibito alla portavoce di Putin un elenco di firmatari italiani che ripudiano le parole del Presidente Mattarella, vòlte ad equiparare la politica putiniana a quella del nazismo. Autoritarismo dittatoriale ed espansionismo territoriale di Putin starebbero a dimostrare che il paragone tiene; ma anche se volessimo soprassedere a tali dettagli, viene da chiedersi quale sia l’attendibilità di tale referendum, visto che pare sia stato sottoscritto da ventimila persone, tra italiani filorussi e russi residenti in Italia. Come dire lo 0,04 dell’elettorato italiano. Ha fatto bene la portavoce di Putin Marija Zacharova a tergersi una lacrima di fronte a tale espressione di solidarietà. Altro che commozione, piuttosto delusione: pare che siano di più perfino quelli che ignorano dove si trovi la Russia…
La libertà è un bene prezioso e va preservato anche, se non soprattutto, quando ci sembra camminare contro i nostri valori consolidati e condivisi. Ma è altrettanto vero che occorre combattere quotidianamente affinché siano i nostri valori a prevalere, affinando il senso critico, accompagnandolo al buon senso, alla competenza professionale, all’equilibrio; ripudiando ogni impressionismo autoreferenziale, ogni mania di protagonismo.
Allora, anche l’adagio di Bogart rischia di diventare un’arma a doppio taglio per il giornalista; perché potrebbe indurlo a cavalcare più la stranezza che la verità, a fermarsi alla notizia – o alla notiziabilità – che a lavorare di cesello sull’informazione allargandone le prospettive e i vari significati sociali. Statera e Costanzo, nei primi anni ’80, ammonivano noi giovani sociologi ad essere provocatori durante i talk show televisivi a cui eravamo invitati: “se dite normalità non provocate attenzione, non fate audience e non vi chiameranno più”. Questo può essere relativamente importante per il sociologo accademico, che comunque ha un suo scenario disciplinare, ma di certo rischia di diventare, nel giornalismo, una gara a chi grida più forte, non a chi dice le cose come stanno. “Questi i fatti” esclamava Cronkite nelle sue cronache televisive; ma resta la domanda: valgono i fatti, o valgono di più i modi, le strategie, le sottolineature o le omissioni nel comunicarli? La risposta del sociologo, ma oggi anche del fisico quantistico, può essere sconcertante: vale ciò che viene negoziato, concordato e condiviso a maggioranza o sulla base di riscontri che sono validi solo fino a prova contraria e sempre perfettibili (Popper); così la realtà non esiste di per sé, è come noi la definiamo, la leggiamo collettivamente, la comunchiamo.
E non si tratta di arido, o becero, relativismo. Per dirla con Mannheim, si tratta piuttosto di relazionismo, di interdipendenze. In tal caso, la necessità del dialogo, dello scambio critico di informazioni è fondamentale; e in questo processo dinamico la responsabilità personale dell’informatore, sia esso sociologo, fisico, giornalista, è sostantiva.