di FRANCESCO MATTIOLI-
Quando alla Sapienza conferimmo la laurea honoris causa in Scienze della comunicazione al famoso giornalista americano Walter Cronkite, ebbi la fortuna di scambiare varie considerazioni sul suo mestiere, che lui stesso definiva molto complicato. Il giornalista dovrebbe riferire i fatti, soprattutto i fatti, ripeteva, e io che lo incalzavo: ma i fatti esistono veramente, o sono quelli descritti dal giornalista? E ancora: e i giornalisti del Watergate si limitarono a descrivere dei fatti, o scelsero di andare al di là delle apparenze dei fatti? Lui mi guardò malizioso e osservò bonariamente che noi europei avevamo una strana opinione sui fatti, ma sotto sotto sapeva benissimo che condividevamo la stessa idea, cioè la necessità che il giornalista sapesse guardare ai fatti senza volare chissà dove con la fantasia.
Oggi il buon Walter avrebbe seri grattacapi. Difficile credere che la stampa riesca a offrire i fatti senza rischiare. Vi sono almeno due motivi per dubitarne.
Il primo è costituito dall’esplosione dell’intelligenza artificiale nel mondo della comunicazione di massa. La possibilità di costruire immagini e sequenze del tutto false sta privando il giornalismo dell’opportunità di godere dell’ ”evidenza delle prove”; puoi sostenere che i pinguini volano, che la terra è piatta, che papa Francesco è morto da un pezzo esibendo quelle che una volta erano definite le evidenze inoppugnabili dei fatti, le immagini. Basta farsi un giro sui social, da tik tok a instagram, per rendersi conto che si possono costruire delle fake news persino a prova d’errore.
Così, se un Walter Cronkite di oggi si intestardisse a raccontare dei fatti, e magari a trarne delle conclusioni logiche, razionali, esemplari, ci sarebbe sempre qualcuno che, immagini alla mano (false, ma devi provarlo), negherebbe la loro attendibilità, fino a dimostrare l’esatto contrario. Così, la verità resterebbe impantanata nella famosa, provocatoria domanda che Pilato rivolge a Cristo: “La verità? Che cosa è la verità?”
C’è poi un altro motivo che fa dubitare della fiducia riposta da Cronkite nella verità giornalistica. Ed è il fatto che ciascuno di noi vuole vedere solo ciò che gli fa comodo vedere. Negli ultimi sessant’anni ci sono state almeno tre impostazioni teoriche su questo fenomeno. Negli anni ’60 Joseph Klapper distingue fra tre meccanismi che finiscono per orientare il pubblico dei media verso interpretazioni contrastanti di uno stesso fatto: la percezione, l’esposizione e la memoria selettiva. L’individuo percepisce di un messaggio ciò che gli fa comodo percepire per restare della propria opinione, si espone ai messaggi che sostengono la sua opinione e trascura quelli contrastanti, e ricorda solo ciò che gli fa comodo ricordare. Negli anni ’70-’80 invece si afferma la teoria della dissonanza cognitiva di Leon Festinger: l’individuo riduce la dissonanza fra ciò che crede o vuole credere e ciò che apprende dai media, selezionando quei messaggi che rafforzano le proprie idee o reinterpretandoli in modo da diventare coerenti con le proprie idee e le proprie aspettative cognitive. Nel nuovo millennio si è invece affermata la teoria del confirmation bias, cioè dell’errore di conferma, che dice suppergiù le stesse cose: è la tendenza dell’individuo a cercare, interpretare, ricordare solo le informazioni che confermano le sue credenze in certi valori.
Comunque lo si voglia chiamare, il fenomeno è sempre lo stesso: “io vedo quel che credo”.
Molto diverso dal realista e oggettivista “io credo quel che vedo” di Cronkite. D’altronde, anche la scienza oggi si schiera su posizioni molto più soggettiviste e possibiliste: secondo la fisica quantistica la definizione che diamo dei fenomeni fisici è il risultato di una negoziazione, di una conoscenza convenzionale, mediata dai nostri sensi e dagli accordi cognitivi che stabiliamo in base ad una ricerca scientifica che da solo risultati di natura probabilistica (Principio di indeterminazione di Heisenberg). D’altronde basta trascorrere qualche minuto in un Consiglio comunale o alle Camere, per accorgersi che ciò che è bianco per la maggioranza è nero per l’opposizione o viceversa.
Ecco perché vanno tanto di moda gli opinionisti dei talkshow della tivvù, quelli che scrivono sui giornali e quelli che si esibiscono sui social; perché, dovendo dare solo opinioni, in realtà non hanno mai veramente torto: infatti soccorrono tutti quelli che la pensano come loro e sobillano tutti quelli che invece la vedono al contrario; in ogni caso, facendo audience, che poi ormai è ciò che conta veramente per i media e per loro stessi.
Allora, crolliamo nel più vieto relativismo? Non proprio. Rousseau scrisse che la società è il frutto di un accordo; e di un accordo coatto, inevitabile, pena la dissoluzione della convivenza umana. Mannheim ha scritto che non si tratta di relativismo, ma di relazionismo, cioé della presa di coscienza che la realtà non è né bianca, né nera, ma che le sue componenti influenzandosi vicenda producono sempre delle visioni che in qualche modo si ibridano e devono poter convivere concordando su alcuni punti. E’ come una partita a tennis: si può vincere o perdere giocando con questo o quel giocatore, ma sempre all’interno di regole condivise. E’ così che si determina un fenomeno che non può fermarsi mai, nel bene e nel male: il cambiamento. Sta a noi orientarlo verso quello che, oggi, ci sembra il bene. Ma a questo punto, uno si chiede: quale bene, se non c’è un valore assoluto? In realtà c’è solo un punto di riferimento che è assoluto e travalica gli usi e le ideologie, perfino le religioni: la dignità dell’Essere Umano, che significa anche libertà, uguaglianza, senso di responsabilità, insomma civilitas. Su questo non si può discutere, se ne leggono i segni perfino nel fluire naturale delle cose e se ci vai contro non sei un essere umano, ma un rimasuglio di scarti della Storia.
Francesco Mattioli