Dal Lago di Vico a Vetralla, passando per il bosco incantato

di DANIELA PROIETTI-

VITERBO- Le mattine d’inverno, quando tira la tramontana, offrono un cielo limpido e di un colore sfacciatamente azzurro. Gli aliti che spirano dal nord, affatto spiacevoli per noi umani, si trasformano in una fata maligna per le nubi che, d’un tratto, vanno a nascondersi chissà dove. Il re del cielo rimane il protagonista incontrastato della volta celeste, alleggerendo, per mezzo del tocco dei suoi emissari, il brivido provocato dall’aria fredda.

Stamani era una di quelle mattine, e il Lago di Vico risplendeva in tonalità che andavano dal carta da zucchero all’argento. Le linee sinuose, che segnano le sue rive, erano dolcemente lambite dalle acque, non scomposte dai venti.

All’orizzonte, ho ammirato le cime precocemente innevate dell’Appennino, la sagoma del Monte Soratte, che si erge come una cattedrale nel deserto della Valle del Tevere, i monti Venere e Fogliano, la costa tirrenica, e il mare…

Ho raggiunto quel magico luogo con la lancetta del tachimetro che si inchinava verso destra, tanto acuto era il desiderio di ritornare. Ho percorso la fettuccia d’asfalto mirando ora a sud, ora a nord. La mia automobile vibrava per il fondo stradale oramai da rifare. A volte, spostandomi verso destra, ho avuto la percezione che mi stessi muovendo su di un morbido tappeto di foglie variopinte.

Stranamente, non c’era nessuno. Ho parcheggiato sullo sterrato, anch’esso ricoperto dal fogliame autunnale, e mi sono mossa verso la rampa dei deltaplani,   il nome con cui è conosciuta in zona.

A passi veloci, che attecchivano nella fanghiglia, risultato dei tanti giorni di pioggia, ho raggiunto la pedana in legno da cui le enormi farfalle variopinte si lanciano per andare a sorvolare lo specchio lacustre e il territorio meridionale della provincia.

La mia meta, però, era un po’ più a ovest: Vetralla, l’antica Vetus Alia (o Aula).

Mi sono mossa, assieme a chi ha voluto condividere con me questa passeggiata verso uno dei comuni più popolosi della Tuscia, in direzione della frazione di San Martino al Cimino ed abbiamo svoltato, risalendo un po’, verso quella che potrebbe essere tranquillamente annoverata tra le più belle strade del Lazio, la Via Erodiano.

La strada, dall’asfalto oramai malconcio, supera dislivelli e striscia tra i castagneti come una lingua antracite su di un manto dalle mille sfumature aranciate, fino a incontrarsi con la via che porta alla piccola  chiesa di Sant’Angelo, che ho avuto la fortuna di conoscere qualche decennio fa. L’ho anche raggiunta a piedi, partendo da Cura di Vetralla e risalendo la collina. Il convento, cui appartiene la chiesetta, sembra fosse già presente nel VII secolo. L’antico Oratorio di San Michele venne edificato dai Longobardi, la cui conversione dall’arianesimo, che praticavano, avvenne per merito della Regina Teodolinda.

Successivamente divenne un monastero benedettino dipendente dall’Abbazia di Farfa. Passò poi per i Francescani e per quasi tre secoli (dal 1470 al 1744) fu rifugio per gli eremiti. Nella seconda metà del XVIII secolo fu trasformato in Convento dei Passionisti, e in esso sono ospitate le reliquie del Beato Lorenzo Salvi.

La chiesa, settecentesca, è ornata da affreschi realizzati nel 1934 e da un coro in noce del XIX secolo. Il complesso è notevolmente valorizzato da una biblioteca assai fornita.

Una delle caratteristiche che fanno del convento un luogo di profonda devozione, è la presenza di edicole raffiguranti le quattordici stazioni della Via Crucis che si snodano nei tre chilometri di strada immersa in un rigoglioso bosco di faggi, cerri e castagni, che si arrampica dolcemente sul Monte Fogliano, il quale si eleva per circa 950 mt all’interno della Riserva Naturale del Lago di Vico.

Arrivati a valle, e superato il passaggio a livello, abbiamo svoltato verso la strada che conduce all’abitato di Tre Croci. Ne avevo visto tante volte la stazione. Passavo di lì col treno che conduce a Roma e, ogni volta che guardavo quel cartello, mi venivano in mente i miei tre compagni di scuola che risiedevano nella frazione ed avevano scelto di frequentare la scuola media a Viterbo. A quel tempo, erano i primi anni ’80, mi sembrava che compissero un viaggio lunghissimo, specie in confronto a me, che abitavo a 300 metri dalla scuola. Due dei tre li ho incontrati, con gioia, dopo trentacinque anni che non ci vedevamo. Ciascuno il suo percorso, sorprendente e imprevedibile. E’ difficile che il disegno che si fa della propria vita quando si hanno quattordici anni, sia quello che poi si realizzerà nel concreto.

In epoca etrusca, il territorio in cui sorge il piccolo paese, era tagliato dalla via che metteva in collegamento Veio a Volsinii e che giungeva fino a Chiusi. L’antica strada, del tutto inalterata, divenne la nuova Via Cassia, ed aveva una stazione presso il Foro Cassio, di lì poco distante.  Nel 1887, in località Capacqua, attualmente parte integrante della frazione, venne ritrovato un sarcofago realizzato in peperino che ospitava dei preziosi appartenuti ad una giovane donna. Gli ori sono oggi conservati in un museo romano, mentre il sarcofago è andato a comporre una fontana in Via del Bosco.

Abbiamo fatto un rapido giro per il paese e ne abbiamo ammirato la fortunata collocazione, a pochi passi da un bosco in cui spicca  un grande masso lavico, il “sasso grosso” frutto, si ipotizza, delle esplosioni vulcaniche che diedero origine al vicino Lago di Vico e  la piccola chiesa, intitolata a Sant’Antonio Abate, le cui prime notizie risalgono alla fine del XVII secolo.

Siamo ridiscesi verso la strada che collega Tre Croci prima a Tobia e poi a Viterbo, che tante volte ho percorso per raggiungere la mia sede di lavoro e ci siamo diretti verso la Strada Forocassio la quale, come si evince facilmente dal nome, si trova nelle vicinanze del Forum Cassii, il più antico nucleo abitativo del territorio vetrallese.

Si pensa che sia sorto nella metà del II secolo a.C., periodo in cui venne aperta la consolare Cassia. L’abitato si distingueva per la presenza di edifici lussuosi, di cui sono stati rinvenuti mosaici, opere idriche di alto livello, sculture, monete d’oro e d’argento.

Durante il medioevo la Cassia venne inglobata dalla Via Francigena, che collegava l’Europa del Nord a Roma e che veniva percorsa, come accade ancora oggi, dai pellegrini diretti a San Pietro. Presso il territorio del Forum Cassii, venne a costituirsi un piccolo borgo, in cui si evidenziano le caratteristiche dell’epoca, e la Chiesa di Santa Maria.

Una stretta via in discesa, segnata da un cartello che indica, appunto, la “Francigena”, conduce a Vetralla.

Per raggiungere il parcheggio deve essere attraversato un quadrivio. “Da Benedetta”, uno dei tanti ristoranti che rammenta il mio periodo vetrallese, se ne sta lì a ricordarmi gli spensierati pranzi di quanto molto avevo ancora da fare.

Ci siamo così inoltrati verso il centro del paese, fermandoci a far colazione nel bar gelateria posto dinanzi alla scuola primaria che prende il nome dalla piazza stessa: Piazza Guglielmo Marconi.

La piccola Chiesa di Sant’Antonio Abate, che fa parte della Parrocchia dei Santi Giacomo e Filippo, si trova di lato alla piazza. Gli spazi ridotti e gli affreschi, ne fanno un luogo di profondo raccoglimento. La storia la indica come un’edicola di campagna eretta attorno al 1200 e in onore della Madonna del Popolo. Due secoli, dopo fu dedicata al santo cui è ancora intitolata, e nel 1715 divenne chiesa. L’edificio sacro, fino al 1909 è stato ristrutturato diverse volte e contiene al proprio interno alcune opere che in passato sono appartenute ad altre chiese del paese.

Ci siamo diretti verso il cuore del borgo, quello che non ci aspettavamo, fatto di vicoli e case in pietra, scale e spazi verdi. Il silenzio, come sempre accade nei piccoli centri, ti assale. Baciati dai raggi del sole, ci siamo mossi alla scoperta di spazi che ci erano ignoti, ma che tanto rappresentano la terra di Tuscia. I gatti, signori incontrastati dei centri storici, si aggiravano con la sicurezza di chi si sente padrone e sembrava quasi che volessero farci strada. Uno di essi, pacioso come soltanto i nostri piccoli felini sanno essere, dal pelo lungo, con il manto grigio e il petto bianco, ci fissava con i suoi vitrei occhi gialli.

 Il sole ancora alto, ma che stava declinando, vista l’ora, verso il mare, rischiarava le case in tufo della vecchia Vetralla e le porte dell’antica chiesa che poggia il suo lato sulle mura. Poco più avanti un torrione. Di fronte, il bosco.

Abbiamo proseguito la nostra passeggiata, spostandoci senza una meta precisa. Davanti a noi, si è aperta la piazza che ospita il palazzo dell’amministrazione comunale, il Duomo e una particolarissima fontana.

L’edificio venne innalzato nel settecento ed è caratterizzato da un campanile a vela e da un orologio posto al centro.

All’interno della sala consiliare, un busto raffigura il Cardinale Eric Stuart, duca di York che fu protettore della città di Vetralla. Posti sulla scalinata, invece, assieme agli stemmi romani, ci sono anche quelli di Enrico VIII di Tudor, re d’Inghileterra e dell’arcicardinale di York, Christopher Bainbridge.

Nel Duomo di Vetralla, denominato Chiesa di Sant’Andrea e di San Francesco, non siamo potuti entrate, viste le transenne, ree anche di ostruire una completa visione della facciata in peperino.

Sappiamo, però, che venne edificato in seguito alla demolizione dell’antica collegiata e che venne inserito nell’impianto architettonico medioevale. La costruzione di questo edificio e di altri, segnò l’inizio delle grandi opere pubbliche che tra il XVII e il XVIII secolo modificarono la fisionomia della città.

La storia di quella che era una  collegiata e che poi è diventato il Duomo, la chiesa principale, mi ha fatto ripensare a ciò che è stata, invece, la lunga storia del borgo.

Il territorio dell’antica Vetus Alia, venne occupato sin dai tempi degli Etruschi in quanto  situato in una posizione dominante e facilmente fortificabile. Era conosciuta in epoca romana, anche grazie alla stazione di posta presente nel già citato Forum Cassii. Quando il volume della popolazione si ridusse notevolmente, e ciò accadde nel tardo impero, l’insediamento si trasferì nella posizione che occupa attualmente e venne incorporato ai possedimenti papali grazie alla Donazione di Sutri del 728 effettuata da Liutprando re dei Longobardi a favore di Papa Gregorio II. Nel breve periodo che andò dal 1100 al 1134 fu sotto il dominio dei signori di Viterbo.

Papa Eugenio III, a partire dal 1145, risiedé nella cittadina per evitare le violenze e le lotte intestine al potere di Roma. Fu da Vetralla che indisse la Seconda Crociata.

Il comprensorio vetrallese fu lungamente conteso tra i Papi e i signori di Viterbo, tanto che il contenzioso viene ricordato, ogni anno durante la giornata dell’8 maggio, con la cerimonia dello Sposalizio dell’Albero. In quell’occasione, oltre a riaffermare i diritti del comune sul controllo del Monte Fogliano, un antico cerro e una giovane quercia vengono vestiti come fossero degli sposi, nel circondario della Chiesa di Sant’Angelo. Questa cerimonia, il cui inizio è datato 1368, aveva come scopo la rivendicazione del diritto di origine medievale che vedeva i vetrallesi come proprietari della selva del Fogliano e dell’Eremo.

Nel corso dei secoli, il feudo venne assegnato a diverse e importanti famiglie legate al potere papale, come gli Orsini e i di Vico. Nel 1435 Giacomo di Vico, l’ultimo signore, fu rimosso dal Cardinale Giovanni Vitelleschi per essere prima imprigionato nella fortezza di Soriano e poi decapitato. Così Vetralla, nel 1474, passò al cardinale Giovanni Borgia e nel 1529 a Lorenzo Cybo, figlio illegittimo di Papa Innocenzo VIII e di Maddalena de’ Medici, sorella di Lorenzo il Magnifico. Anche il Cardinale Alessandro Farnese, divenuto poi Papa Paolo III, ebbe a che fare, nel 1534, con la città. La storia di Vetralla vide anche episodi legati alla Campagna Garibaldina e alla II Guerra Mondiale.

Ci siamo avvicinati all’antica Chiesa di San Francesco, che guarda la via del mare. Non posso fare a meno di pensare a quando, ancora piccola, la percorrevo con i miei genitori per raggiungere, ogni domenica d’estate, Tarquinia Lido.

Passavamo di fronte alla chiesa poco dopo aver fatto sosta al fontanile in pietra, in cui riempivamo una tanica d’acqua fresca e buona da portare al mare. Mi sembrava una bevanda prelibata, la più preziosa al mondo, come l’ambrosia, il nettare di quegli dei che ci proteggevano dall’alto.

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