Don Giovanni! Chi era costui?

di CINZIA DICHIARA-

“Il mito di Don Giovanni forse non esisterebbe nemmeno senza l’opera di Mozart.” Da tale assunto, in prefazione alla Lettura del Don Giovanni, per Einaudi, del grande musicologo Massimo Mila (1910-1988), si evince che è la trasposizione melodrammatica del dramma giocoso K 527, compreso nella trilogia italiana del duo Mozart -Da Ponte, a consacrare a gloria imperitura l’inquietante figura dell’empio punito.

Enorme mito della civiltà dell’Occidente e peso massimo del repertorio operistico, in sostanza, il genio satanico di Don Giovanni è personaggio il più maledetto che la storia del teatro conosca. Lo sanno bene l’artista che deve cimentarsi nella parte affrontando la cinica spavalderia del nobiluomo senza scrupoli, e il direttore d’orchestra che cerca di far scorrere brividi in chi ascolti tra dinamiche sonore finissime e colpi di scena ottenuti in punta di forchetta così come richiede la semplice ricercatezza del tessuto orchestrale mozartiano, nonché il regista che complessivamente deve riportarne alla luce lo spirito di personaggio impossibile, e, alla fine, misterioso.

La tensione pervadente da thriller dipende inoltre dalla capacità dell’orchestra e della regia di generare tensione, fino a quando l’impenitente seduttore spagnolo e il Commendatore-Convitato di Pietra, suo giudice implacabile, assurgono all’apoteosi del dramma trovandosi faccia a faccia nella sfida definitiva. Il nobile padre di Donna Anna, ricomparendo fantasma sotto le sembianze della statua di pietra, invitato a cena dal sacrilego hidalgo, era stato ucciso per mano di Don Giovanni per essere intervenuto in difesa della figlia insidiata dall’impostore. Divenendone d’ufficio il persecutore e la coscienza, fino al conseguimento del riscatto supremo della colpa, con la caduta del farabutto nelle fiamme dell’inferno.

Ma Don Giovanni, eroe dal sorriso canzonatorio e beffardo in realtà è un uomo solo contro tutti, inseguito da una pletora di personaggi, tra donne sedotte, ingannate e tradite e uomini in cerca di indennizzo e di vendetta, anche se le vicende in questo intreccio terribile sono molto più articolate e ambigue rispetto a ogni apparente certezza. Sappiamo bene come Mozart assecondato dalla scrittura sottile di Da Ponte sia maestro dell’allusione e dell’ambiguità e qui ne fa esercizio virtuoso.

Il leggendario tombeur de femmes, provenuto da lontano, non sappiamo neanche da dove visto che l’origine della sua tipologia resta abbastanza incerta, si radica nel medioevo cristiano. In seguito, Tirso de Molina (1579-1648) volle consegnarla alla posterità, forgiando nel Burlador de Sevilla y convidado de piedra una figura che sarebbe divenuta immortale nonostante la scelta mortifera del corrotto cavaliere di disubbidire fino all’ultimo, condannandosi all’eterno tormento. Eppure, la sua efferata insensatezza erotica seduce enormemente, finendo col metterci in modo straordinario di fronte agli interrogativi più misteriosi dell’essere. Ecco perché neanche i filosofi sono indenni dalla sua allure funesta, e così si spiega la fascinazione da lui esercitata persino su un pensatore esistenzialista come Søren Kierkegaard (1813-1855).

Nella prefazione al suo Il Don Giovanni, la musica di Mozart e l’eros, caposaldo irrinunciabile dell’interpretazione del personaggio, il pensatore danese erige un trono a Mozart, ponendolo nel posto d’onore fra tutti i grandi, e proclamando il suo Don Giovanni ‘opera fra tutte le opere’. Quindi, nella sua graduatoria dell’amore, elegge Don Giovanni a emblema dell’ultimo stadio amoroso, quello della seduzione sensuale, il terzo dopo lo stadio simboleggiato da Cherubino (il bel paggio nipote del Conte d’Almaviva nelle Nozze di Figaro), emblema dell’amore immaturo e inconsapevole, e dopo lo stadio riferito a Papageno (l’uccellatore piumato de Die Zuberflöte), emblema dell’amore realmente vissuto.

Inoltre, tale ne è la consistenza che nella figura di Don Giovanni il filosofo di Copenhagen definisce anche un passaggio fondamentale del suo pensiero, quello della dimensione della ‘vita estetica’, alternativa alla ‘vita etica’, un’esistenza mossa dalla ricerca delle emozioni e del godimento, pertanto condannata alla noia. Un po’ come Roland Barthes (1915-1980) in Frammenti di un discorso amoroso teorizza la caduta nel disagio esistenziale e nell’angoscia quando accada che si rincorra l’amore in ogni incontro e dunque venga a mancare uno specifico oggetto d’amore, cosa che conduce inevitabilmente a una fame mai saziata e alla dispersione dell’individuo.

Tale appare Don Giovanni, in qualità di campione d’amorose imprese, ma non si pensi che egli ponga nella prestanza o nelle qualità fisiche la sua arte di soggiogare. La forza attrattiva non gli proviene da elementi esteriori ma, piuttosto, è nel suo spirito indomabile, nel suo essere puro istinto e desiderio voluttuoso. Il cantante che impersoni Don Giovanni pertanto deve essere imperioso e prepotente nell’emanare e imporre una vitalità che è sprigionata dall’intimo. Eroe negativo per eccellenza, egli è un gigante, un portento, un agglomerato di tutte le tematiche umane, nessuna esclusa, qui la sua grandezza insuperabile e insopprimibile. E, ogni volta, nel riproporne in scena le sembianze, stuoli di artisti, uno ad uno, raccogliendone la sfida, tentano di rispondere a irrisolvibili ed angoscianti quesiti.

Il dilemma della conclusione, tuttavia, si gioca in definitiva fra due soli individui, colossi enormi ai quali è demandato il compito arduo della riproposizione del rapporto tra l’uomo e le leggi morali, allorquando lo scontro estremo, dopo tanti tafferugli e imbrogli, pone faccia a faccia due immensi contrappesi: la giustizia e la morte. Laddove la giustizia è incarnata, anzi pietrificata, nel personaggio del Commendatore, e la morte, in tutta la sua gravità terrifica, è concentrata nel dissoluto punito, di per sé interiormente portatore di morte. È il dongiovannismo stesso che secondo Giovanni Macchia, autore di uno studio irrinunciabile su Don Giovanni, “nasce dal gusto della morte”. Eros e thanatos, nella reiterazione del misfatto da parte del burlador, votato alla condanna maniacale del collezionismo seriale femminile.

Quale icona del diavolo, e il medievista Jacques Le Goff (1924-2014) considera  il diavolo “la grande creazione del cristianesimo durante il medioevo”, simile a un rapace uccello da preda che neanche il monstrum della Chimera potrebbe eguagliare quanto ad ambiguità costituzionale, il conio spagnolo del Burlador de Sevilla è un soggetto ripreso più volte, pensiamo al capolavoro in prosa di Molière (1622-1673) ma anche alla tragicommedia Don Giovanni Tenorio Carlo Goldoni (1707-1793), e passato dal grand siècle attraverso la versione classicheggiante de L’empio punito, sua prima trasposizione lirica ad opera di Alessandro Melani (1639-1703) e Giovanni Filippo Apolloni (1635-1688), oltre a diverse altre declinazioni, fino a Il Convitato di Pietra di Giuseppe Gazzaniga (1743-1818) e Giovanni Bertati (1735-1808), melodramma rappresentato a Venezia pochi mesi prima di giungere alla massima consacrazione, usque ad aeternum, con Mozart e Da Ponte, a Praga nel 1787.

Da allora, e nonostante il suo destino alla dannazione eterna, egli resta indenne dalla damnatio memoriae, dando origine a un serie di personaggi destinata a prospera fioritura soprattutto nel romanzo epistolare, quella degli avventurieri libertini identificabili secondo Giovanni Macchia (1912-2001) nel Lovelace della Clarissa Harlowe di Samuel Richardson (1689-1761) altresì nel Visconte di Valmont delle Liaisons dangereuses di Chloderlos de Laclos (1741-1803), e, inutile sottolinearlo, di Casanova.

Come araba fenice che seguita a rigenerarsi nel tempo, il losco figuro si assicura una continua replica del modello attraverso ennesime versioni autoriali, e se ne annoverano a centinaia, considerata la citazione nei Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (1821- 1867), che lo ritrae nel suo ingresso all’inferno, ma anche la sua ripresa sotto il cielo russo, in una delle Piccole Tragedie di Aleksandr Puškin (1799- 1837, il poemetto drammatico Il convitato di pietra. L’invito a morte di Don Giovanni, dopo essere passato per la fantasiosa idealizzazione romantica dei Pezzi fantastici alla maniera di Caillot, firmati da Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822). E compare ancora in Una notte di Don Giovanni di Gustave Flaubert (1821-1880), il quale non meno di altri fu irretito dal soggetto, tanto da indicare il dramma giocoso K 527 di Mozart, in una delle sue missive alla scrittrice Louise Colet, tra le tre cose più belle che Dio abbia creato insieme all’Amleto e al mare.

Ma non basta, l’accanito collezionista seriale viene attraversato anche dalla ricerca psichica pirandelliana de L’uomo di tutte le donne, per procedere incessantemente nel racconto Colui che non poté amare di Giovanni Papini (1881-1956), autore altresì de Il Diavolo, libro proibito poiché considerato blasfemo; fino al film, tra le numerose trasposizioni cinematografiche, di Carlos Saura (1932-2023) Io, don Giovanni.

Impossibile elencare tutti i suoi ritratti artistici, nonché la saggistica che lo riguarda e i fiumi d’inchiostro versati sul suo indicibile destino, e scrivere su di lui è quasi lo stesso che avventurarsi nel mare magnum degli scritti riguardanti Mozart, del quale, in fondo, per una certa convenzione, il satanasso è considerato una personificazione. Eppure il libertino Mozart aveva un Dio al quale porgere ossequio e umana sottomissione con la sua arte. Ecco perché oltre a creare la grandezza del Don Giovanni, ci ha lasciato la sublimità metafisica del Requiem K 626. Ciò fa una differenza tra i due.

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