Don Giovanni, dramma giocoso in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart, al Teatro San Carlo di Napoli

DI CINZIA DICHIARA-

VITERBO- Ogni volta, a ogni rappresentazione, la scena del rovinoso precipitare di Don Giovanni nelle fiamme  richiama per analogia l’atmosfera del “Confutatis maledictis” del Requiem K 626, rinnovando il terrore panico dell’aldilà riservato ai malvagi, ‘flammis acribus addictis’, secondo una visione tremenda che soltanto le assurde raffigurazioni fiamminghe di Hieronymus Bosch possono eguagliare in ferocia e il Giudizio di Michelangelo descrivere in magnificenza drammatica. Tutto questo è contenuto, prima che nella scena, nella figura dell’ateo Don Giovanni che sfida le leggi di Dio. Partendo da amore e vanitas, il senso della morte lo avvolge fino alla perdizione eterna, passando per il libertinaggio e l’ingannevole e spietato cinismo mescolati in lui come ingredienti di una ricetta malefica, una pozione di velenosa mandragola dentro la cui radice, secondo il culto romano, era contenuto un demone.

Tutto ciò ha ben presente la coerente e apprezzata lettura del capolavoro centrale della trilogia italiana di Mozart e Da Ponte, che Mario Martone realizza in questi giorni (dal 16 al 27 febbraio 2024) a Napoli, con una ripresa dell’allestimento del 2002 per un cast nuovo e variegato, capeggiato da Andrzej Filończyk nel ruolo del titolo.

Con il suo physique du rôle il baritono polacco si mostra un Don Giovanni abbastanza fiero e cinico quanto occorre, senza voler puntare tutto soltanto sull’aspetto erotico oggi sempre sottolineato e molto insistito dal Theatergeist. Nel barcamenarsi tra le movenze del seduttore e il piglio corrusco dell’angelo ribelle tuttavia sembra doversi impegnare appieno per rendere con una certa robustezza l’opportunistica cattiveria, l’insinuante seduttività e la forza trainante. Dunque il ritratto che ce ne offre appare aderente al modello storico- culturale e alle prerogative stilistiche dello Zeitgeist; un po’ meno all’abisso incandescente di quella hybris priva di limiti. Al carisma pieno e torreggiante del personaggio, che neanche Faust venduto a Mefistofele potrebbe eguagliare in quanto a boria e perversione, avrebbe giovato infatti una vocalità più ricca di armonici e carica di risonanza. In generale, tuttavia, seppure in “Fin c’han dal vino” non tutto scorra liscio nella velocità, l’emissione soddisfa le esigenze sceniche e la musicalità tocca momenti espressivi che sono stati applauditi con calore da un pubblico inizialmente misurato nell’entusiasmo.

Krzysztof Bączyk, un Leporello continuamente mobile sulla scena, accetta la sfida, difficile ed entusiasmante, di fronteggiare il padrone, riuscendovi in parte a causa di una libertà non scritta che lo porta a imprecisioni anche di intonazione, cui sopperisce con la sua duttilità vocale da opera buffa e soprattutto con la versatilità di mimo e attore vivace. All’occorrenza precipita a terra, balza in avanti, corre, si destreggia fra salti e piroette, manifestando qualche segnale dell’affrancamento del sottoposto dal padrone. Riesce così a bilanciare abilmente la malvagità dell’hidalgo, governando una recitazione adeguata nei tempi ed espressivamente convincente, tanto da essere applaudito, nonostante la pronuncia dei recitativi, pericolosamente rapida e poco chiara, che pure non è sfuggita all’attenzione.

Tra i due personaggi femminili drammatici, la magnificenza tragica di Donna Anna postula carattere e sfumature dal tono eroico e nobile, quindi Roberta Mantegna affronta piuttosto decisa l’ardua aria “Or sai chi l’onore”. Fosca, disperata e implorante sfiora l’altezza della tragedia, mostrandosi forte e mai ripiegata soprattutto nell’imporre “Vendetta ti chieggio, la chiede il tuo cor”, mentre l’emissione, pur energica, non è del tutto piena, e la recitazione a momenti, convenzionale. Cosicché la sua carica emotiva è alterna, ma a tratti magnificamente pervasa dall’aura ideale e mistica che avvolge il personaggio. Nell’aria finale “Non mi dir bell’idol mio”, brano sublime nel quale si danno convegno sentimenti ora di soave dolcezza, ora di struggente veemenza e la cui sezione conclusiva è corredata da passaggi di agilità per scalette discendenti e acuti ribattuti, la voce si rivela poco tornita eppure giustamente accorata, piacendo comunque al pubblico.

Donna Elvira di Selene Zanetti propone un’interpretazione in linea col personaggio drammatico della nobildonna proveniente dall’antica capitale spagnola di Burgos, un habitus che ella riveste di solidarietà con le altre donne, secondo il disegno di Martone dichiaratamente attento alla questione femminile, quasi marionette soggiogate da forza superiore poiché totalmente in balìa del vile seduttore. Pur con qualche inflessione incerta nel registro medio- basso, è coinvolgente nell’aria “Ah, fuggì il traditor” e sostiene adeguatamente il pathos degli adirati ritmi puntati per linee discendenti. Nel terzetto “Ah taci, ingiusto core, non palpitare in seno” manca forse di perfetta agilità, tuttavia partecipa con presenza efficace.

La graziosa contadinella Zerlina è una disinvolta e vivace Valentina Naforniţa, che pur se dotata di un volume talora sottile, non perde occasione per rivelarsi dotata di simpatia, maliziosamente civettuola e di buon cuore negli accenti espressivi, in coppia con un Masetto dall’aspetto rustico e bonario, tratteggiato da Pablo Ruiz senza particolare risalto vocale. Entrambi intervengono piacevolmente nella dimensione pastorale dei loro personaggi buffi.

La gentile figura di Don Ottavio, interpretata da Bekhzod Davronon, ha suscitato pareri divisi, compreso qualche buu prolungato tra gli applausi finali, a causa di un’intonazione imperfetta. Melodicamente agile, esibisce un buon timbro, tuttavia forzandolo in vibrati talora difficoltosi e portamenti non sempre consoni, ma ciò non gli impedisce di essere compenetrato nel ruolo, nei bei duetti con Donna Anna, lasciando emergere la dignitosa pregnanza drammatica tenorile, pur rischiando qualche lieve movenza da cicisbeo nella sua condizione sottodimensionata di amante secondario sfruttato ai fini del riscatto. La sua struggente aria “Dalla sua pace la mia dipende” lo mostra in tutta la sentimentalità elegiaca della condizione di innamorato. Ben accetta anche l’interpretazione de “Il mio tesoro intanto”.

Severo e possente comm’il faut, il Commendatore di Antonio Di Matteo, giudice estremo al quale, in “Don Giovanni a cenar teco”, il ribaldo rifiuta il pentimento. Il fantasma, la cui posa statuaria è esaltata da una voce profonda e scura il giusto, vibrante in modo da terrificare il necessario, domina dall’alto degli spalti, in una prospettiva scenica di grandissimo effetto. La posizione sopraelevata e molto distante ne accresce l’incombenza sull’empio punito, sminuendone forse un poco la potenza della voce, percepita da lontano, di cui si apprezzano comunque la scansione del fraseggio e i tenebrosi accenti dell’esito conclusivo.

Sul piano musicale la compagnia di canto è supportata dalla direzione del tedesco Constantin Trinks, alla testa della compagine orchestrale col suo clavicembalo posto al centro del golfo mistico, da cui dirige ed esegue le parti di basso continuo, affrontando il duplice impegno con gesto elegante e piglio studiato. Attento ai particolari, salvo qualche momento di affanno per la complessità delle due mansioni concomitanti, esibisce una direzione piuttosto controllata e anche analitica. Tiene a evidenziare accuratamente i timbri che contrappuntano le voci nelle arie solistiche, valorizzando il gioco mozartiano di finezze dialogiche tra le parti, pur evidenziando meno i toni in chiaroscuro della partitura, uniformata in una regolare linearità, mentre talora intende sveltire un atteggiamento più posato dei solisti per alcune loro scelte di tempo che rischiano di difettare di quello slancio, tra brio e venature di ironia, proprio di Mozart. Così va alla ricerca di un’aerea luminosità che riesce a sprigionare davvero, e a un livello non meno che vertiginoso, soprattutto nel finale, imprimendo un’accelerazione efficacissima all’insieme.

L’orchestra svolge puntualmente il suo consueto incarico d’ordinanza, anche con le varie sezioni presenti in palcoscenico, compreso l’assolo di mandolino che stende un tappeto sotto la serenata “Deh vieni alla finestra”. Altrettanto il coro, diretto da Fabrizio Cassi, che nel primo atto porge con gradevolezza “Giovinette che fate all’amore”.

 Ventidue anni dopo, l’allestimento è stato riveduto e corretto soltanto in alcuni semplici ma efficaci dettagli, introdotti con le sopraggiunte istanze sociali, come il laccio rosso da Zerlina posto ai polsi del suo sposo in “Batti, batti, o bel Masetto” e sventolato a mo’ di vessillo, ondeggiante e brioso ma del tutto provocatorio, per denunciare la violenza sulle donne. Occasione ghiotta creata da Martone, pregevole per la sua delicatezza di sguardo, quale indice di intelligenza creativa e dimostrazione della possibilità di un alludere discreto ma evidente, in perfetta sintonia con l’inclinazione mozartiana.

Il regista fa poi scattare platealmente la denuncia delle sfortunate sedotte dal malandrino: tutte presenti sulla tribuna, completamente soggiogate dal fascino del protagonista, non importa se più o meno consenzienti o indecise come la Zerlina di ‘Vorrei e non vorrei’ nell’invito di “Là di darem la mano”, compiono il gesto inequivocabile di ridurre in carta straccia le pagine del più famoso catalogo di conquiste della storia del teatro, passato di mano in mano tra di loro fino a perdere consistenza e trasformarsi in simbolo di un’impavida ribellione.

Innovazioni, queste, tra gli aspetti migliori della visione registica, per dire del suo autore nata da un indimenticabile Don Giovanni di Peter Brook con Claudio Abbado visto ad Aix en Provence, con i cantanti in una scena vuota. Da qui la decisione di ambientare l’intero svolgimento dell’azione sul cupo impianto scenografico minimalista di Sergio Tramonti: un’impalcatura spoglia a gradoni in legno, senza quinte né fondali, fissa per i due atti, illuminata su misura dalle luci di Pasquale Mari.

Derivante da un’idea di teatro elisabettiano, ma potrebbe evocare anche, come si è detto da più parti, una tribuna popolare, è efficace ai fini dello svolgimento dell’azione quale teatro nel teatro, e risponde alla finalità di affidare ai personaggi il principale compito di creare la scena con la loro presenza, sulla base dell’intento dichiarato da Martone: «Tutto è costruito sull’azione dei cantanti».

Presenti all’inizio in un insieme corale, come spettatori su quella gradinata inclinata, con entrate e uscite per sottrazione fino a lasciare vuoti gli spalti alla comparsa dello spettro del Commendatore, tutti movimentano l’azione con trovate sceniche e gag, in un viavai da Commedia dell’Arte, spingendosi finanche negli spazi metascenici come lunga tradizione teatrale vuole. Scendendo le scalette laterali del palco per correre, sfilare o inseguirsi nei corridoi tra gli spettatori in platea, o uscire da un ingresso laterale davvero a effetto, danno vita a momenti che prendono il pubblico, come l’uscita del feretro del padre di Donna Anna portato a spalla in un toccante quadro da sepolcro del Venerdì Santo. Suggestiva e bellissima altresì l’apparizione della lanterna accesa, agitata dal palco di proscenio.

Tra i costumi, tutti di foggia settecentesca, damascati ed eleganti quelli dei personaggi nobili, paiono molto curati soprattutto i modelli maschili, mentre la mise in velluto nero di Donna Anna  lascia appena intravedere il suo rango aristocratico. L’uniformità dei toni melange sul marrone indosso ai personaggi popolani, gamma coloristica definitivamente storicizzata nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, segue la tendenza a unificare la massa corale, risultando piuttosto opaca.

Sullo spento tono ambientale risaltano considerevolmente alcuni elementi di gusto come lo squarcio di colore provocato dal punto di porpora regale del taffetà che veste Donna Elvira, e ancor più, il bianco sgargiante del Don Giovanni dell’ultima ora, favoloso nel buio della scena finale, col l’evidenza del tappeto orientale rosso, sul quale il gaudente si distende sfrontatamente tra cesti di frutta, coloratissimi cuscini da alcova ed altri piccoli accessori giustapposti a ricreare uno scorcio di ambientazione che suggerisce, come citazione, la composizione del genere della natura morta fiamminga e, per via subliminale, la seduzione sensuale.

Infine, un perfetto raccordo tra regia e scenografia produce la stupenda visione prospettica del Commendatore alla sommità delle gradinate, e del malfattore, che lo fronteggia dabbasso con il candelabro acceso brandito come un’arma: la drammaturgia e la recitazione dei personaggi in quel frangente sono fra le cose più belle e indovinate viste in questo allestimento. Di un potere sovrastante e spiazzante la scena della caduta agli inferi di Don Giovanni sprofondato dalle impalcature che si fracassano spezzandosi (tecnicamente ingoiato da un carrello mobile in discesa verso il basso mimetizzato tra gli spalti). Una cesura che provoca lo shock al quale seguono senso di vuoto e sgomento che paralizzano.

Quando la tragedia si è compiuta e tutti rientrano, fino al compito risolutivo del sestetto “Ah, dove è il perfido” la verve registica riprende, sebbene la scomparsa dell’empio lasci nell’aria il forte gravame del giudizio morale. Infatti l’alone del dramma sembra prevalere sulla ricerca illuministica della felicità, mentre tutti i personaggi si apprestano a riprendere il proprio posto nella vita, riuscendo comunque a consegnare un lascito di bellezza che non si esaurisce con gli applausi.

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