“È giusto reinterpretare un’opera d’arte?”

di MARCO ZAPPA –

VITERBO – È accaduto al teatro di Ferento in questi giorni, dove è andata in scena l’opera di Aristofane “Lisistrata” che ha visto come protagonista Marisa Laurito.
Come in altre circostanze si prova a rendere più digeribile un evento culturale complesso in modo che attraverso vari espedienti, non ultimo un linguaggio attuale, a volte sboccato, sicuramente molto divertente, arricchito da riferimenti al sesso che strappano sempre una risata e quindi l’applauso, tutto il pubblico possa avvicinarsi al mondo dell’arte.
In pratica a volte si gioca al ribasso e chissenefrega se alcuni temi talmente “alti” che diventano eterni, toccati da grandi autori in epoche diverse, come nel caso specifico del commediografo greco, vengono distorti o interpretati secondo la logica del mondo contemporaneo.
Ma non voglio essere frainteso né è mia intenzione togliere nulla alla simpatia istrionica e alla maestria dell’attrice napoletana tanto che sono convinto del suo successo riscontrato nell’occasione, la mia invettiva in realtà parte da molto lontano e si è formata nel corso del tempo.
Trovo sbagliato, magari per un mio limite strutturale, rielaborare le opere del passato in termini di regia o di rilettura dei testi in chiave contemporanea fondendo in una sola azione delle realtà storiche che sono assolutamente diverse, peggio ancora quando si cerca nell’arte la provocazione per la necessità di apparire a tutti i costi anche se in modo stupido o volgare.
È soprattutto il mondo dell’opera lirica ad essere maggiormente brutalizzato da registi ignoranti che non conoscono né l’arte né la storia eppure vengono difesi da una minoranza di “intellettuali” radical-chic che con una recensione ben studiata sulla rubrica Giusta, del giornale Giusto, trasformano un obbrobrio in opera d’arte offendendo occhi e orecchie degli spettatori ignari.
Scempi con rappresentazioni così terrificanti da far rivoltare nella tomba ad esempio i vari Mozart, Verdi o Puccini di turno.
I testi contenuti nei libretti delle opere verdiane, così ottocenteschi che ripropongono perfettamente il modo di esprimersi della gente in quell’epoca mal si conciliano con vestiti, mezzi, acconciature del nostro presente ed è ridicolo sentire un soprano parlare di medioevo con un linguaggio da medioevo vestito con una felpa e jeans alla guida di una Golf anziché tenere in mano le redini di un mulo.
Regie di questo tipo vengono riproposte ormai da quaranta anni e per questo non sono più originali ma stucchevoli esibizioni manieriste, come il pessimo Rigoletto andato in tv recentemente o il Don Giovanni rappresentato in inverno all’opera di Roma, verso il quale posso testimoniare i sonori fischi di un pubblico spazientito, in quanto testimone oculare.
L’opera d’arte è al di fuori del tempo ma rappresenta nella sua struttura il suo tempo, quello della sua creazione: poi certamente, capita spesso di trovare un riscontro fra i temi e gli interessi del passato con quelli attuali perché ragionando per grandi linee l’uomo nelle epoche è rimasto sempre lo stesso.
In queste rappresentazioni sembra quasi che il protagonista ultimo non sia l’opera d’arte in sè, nella sua intima essenza e neanche i testi o la musica, ma il gesto, l’interpretazione, meglio ancora l’idea di chi la mette in scena e cioè il regista che diventa la star della situazione.
Una follia…

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