Eravamo molto poveri

di ROSANNA DE MARCHI-

C’era il Patronato scolastico, per i poveri anche il refettorio. 

La scuola che io ho conosciuto durava fino alla quinta elementare, ma non tutti riuscivano a completarla. Mia madre mi diceva che prima era fino alla sesta, e per lei era un vanto aver fatto tutte e sei le classi. Io ho ripetuto alcune volte e la quarta non l’ho mai fatta.

 I libri scolastici non cambiavano, erano sempre gli stessi per tutti gli anni, per i più poveri interveniva il patronato che li dava gratuitamente, sui libri c’era il timbro del Patronato Scolastico, e al termine degli studi si dovevano riconsegnare per farli utilizzare a chi veniva dopo di noi.

A mezzogiorno, finite le ore scolastiche, si andava al refettorio a mangiare, lì trovavamo anche tante famiglie disagiate, alle quali era dato cibo gratuitamente.

MENSA DEI POVERIAltre famiglie andavano presso i frati cappuccini, qui usciva all’aperto un frate, frà Antonio, portando un grande calderone d’alluminio pieno di minestra, poi, con un grosso mestolo anch’esso della stessa lega, riempiva di minestra i recipienti di latta, o di coccio, che le persone avevano portato da casa.

 Altre famiglie si rivolgevano presso le suore del Buon Pastore, distribuivano anch’esse da mangiare. Queste minestre servite dai frati o dalle suore erano definite “pacchia” o “sbobba”.

Da non pensare che tutti questi disagi venissero a causa della guerra, questo accadeva già prima. La gente era molto sofferente.

Esisteva il libretto dei poveri: quando una persona si ammalava, un familiare portava un foglietto del suddetto libretto, con il nome cognome indirizzo dell’ammalato, in farmacia, e qui era lasciata la chiamata per il medico condotto, che all’epoca era il dott. Marzetti.

Tutti i giorni passava dalla farmacia; quando trovava “la chiamata”, andava presso l’abitazione del richiedente e visitava la persona senza farla pagare.

Le medicine prescritte non erano come quelle di adesso, in genere erano prodotti galenici ed erano preparate dai farmacisti o dai frati.

Essi, secondo il bisogno, preparavano una cartina con dentro il prodotto che necessitava alla malattia. Questo preparato il malato lo avvolgeva in un’ostia, poi lo bagnava con un po’ d’acqua, dopodiché lo inghiottiva, aiutato ovviamente da un bicchiere d’acqua.

 Tra i frati molto famoso era Padre Daddario che prima stava nel convento a piazza della Morte, poi si trasferì dai frati Cappuccini.

Andava per le campagne o in montagna a raccogliere le erbe migliori nei periodi giusti e confezionava le misture che poi venivano usate come decotti, impiastri, o altro.

Sin da piccoli eravamo figli della Lupa

Lo Stato seguiva noi bambini sin dall’infanzia e all’inizio della scuola eravamo iscritti come figli della lupa.

 Eravamo iniziati all’amor di Patria, avevamo la divisa con i pantaloni grigioverde, le fasce bianche incrociate sul petto con la M di Mussolini.  In terza elementare si passava a essere Balilla, portavamo sempre i pantaloni grigioverde, la camicia nera, il fez, una cintura nera intorno alla vita, non avevamo più le fasce bianche, ma un fazzoletto azzurro che si legava intorno il collo e il distintivo con l’impronta del fascio; questo lo portavamo sia noi maschi, sia le femmine.

Le ragazze erano chiamate le Piccole Italiane, poi noi maschi diventavamo Balilla moschettieri; portavamo i calzoni alla zuava, la camicia sempre nera e le scarpe alte a stivaletto, che però non era facile avere, tanto che le andavamo a cercare presso i presidi militari o la milizia fascista.

[da un racconto di Francesco Morelli memoria storica di Viterbo, scritto da Rosanna De Marchi, nel libro: 17 GENNAIO 1944”in quell’attimo anche gli angeli si miseri a piangere”]

 

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