Federlazio: “Il grande dilemma resta in tutta la sua drammaticità: emergenza epidemiologica e quella economica”

VITERBO- Riceviamo da Federlazio Viterbo e pubblichiamo: “Il grande dilemma resta in tutta la sua drammaticità. Da una parte l’emergenza epidemiologica e le criticità del sistema sanitario sotto pressione; dall’altra quella economica, con le ansie e i timori di non poter sopravvivere al rigore delle nuove misure restrittive.
I contagi aumentano a livello esponenziale, mentre nelle piazze affiorano i primi segnali di un diffuso disagio sociale e la rabbia delle categorie maggiormente coinvolte.
Lo avevamo paventato nei giorni scorsi, auspicando che la parola lockdown non dovesse essere più usata, neppure in una declinazione “soft”.
L’esperienza vissuta dal Paese nei mesi di marzo e aprile, con il suo bagaglio di morti, le sofferenze umane e sociali, la paralisi lavorativa, avrebbe dovuto rappresentare un severo monito per indirizzare scelte ed interventi, e soprattutto prevenire gli errori, i ritardi e lacune registrate nella prima fase dell’epidemia, quando tutti fummo colti di sorpresa, privi di ogni conoscenza sul fenomeno in atto.
Riproporre oggi le soluzioni di allora, significa certificare l’inutilità dei gravosi sacrifici patiti da tutti nella scorsa primavera.
Se torniamo ad imporre chiusure significa che non è stato fatto quel che si doveva nel periodo da marzo ad oggi, approfittando della provvidenziale “pausa estiva” della pandemia: una tregua rassicurante ma, in realtà, solo apparente, in quanto il virus non ha mai cessato di circolare, anche se in modo più lento.
In questi otto mesi si doveva predisporre un valido sistema di tracciamento dei contatti, l’incremento dei tamponi, adeguati piani di gestione dei luoghi di assembramento, l’approvvigionamento delle terapie intensive e degli organici della sanità, il potenziamento della medicina del territorio, fino al rafforzamento del trasporto pubblico locale in concomitanza con la riapertura delle scuole.
Niente o troppo poco di tutto questo è stato fatto e la bilancia è tornata a pendere dalla parte dell’emergenza.
E’ forte la sensazione di qualche toppa messa qua e là, mentre si è perso del tempo prezioso.
Del resto, una seconda e maggiore ondata di infezioni più che un’ipotesi poteva dirsi una certezza.
Tra gli errori commessi c’è quello del mancato confronto preventivo con le categorie produttive, che con la chiusura rischiano danni irreversibili anche sul piano occupazionale.
Questo avrebbe consentito di mettere sul tavolo quanto fatto dalle aziende per poter riaprire a maggio, quando si sottoposero a sanificazioni, verifiche stringenti, adottarono le misure necessarie e si dotarono di attrezzature idonee alla prevenzione ed al contrasto della diffusione del coronavirus.
Possono essere loro a costituire il problema?
Ciò comportò, tra l’altro, cospicui investimenti, finalizzati alla ripresa in sicurezza dell’attività lavorativa.
E’ stato faticoso riavviare il motore e recuperare terreno; ma tutti si sono impegnati duramente perché era il loro lavoro.
Di tutto questo evidentemente non si è tenuto minimamente conto, se lo scenario è di nuovo quello del blocco totale di talune attività e di quello mascherato da parziale per altre.
Lo ripetiamo: non si può fermare oggi chi, già da allora, si era adeguato alle regole della sicurezza.
Si continuano a creare task force, a partorire decreti e provvedimenti, ma alla fine, per assurdo, il peso della nuova emergenza viene scaricato ancora una volta sui piccoli e medi imprenditori, sui lavoratori e le loro famiglie, che rischiano di non vedere più un futuro.
La stessa panacea dello smart working, modalità di lavoro sdoganata dalla emergenza sanitaria, ma destinata a divenire strutturale, pone inevitabilmente alcuni pressanti interrogativi.
Ben vengano innovazioni e modernizzazioni dell’organizzazione del lavoro ma, allo stato attuale, manca una chiara regolamentazione e gestione del sistema.
E’ una pratica certamente poco realizzabile nell’industria manifatturiera, nell’edilizia, nell’impiantistica, nella ceramica, solo per citarne alcune.
Chi stabilisce quali attività possono essere di fatto svolte con tale modalità?
Chi la organizza e la controlla?
E, soprattutto, chi verifica la produttività del sistema “in remoto”, che nel settore pubblico significa operatività ed efficienza delle amministrazioni, servizi alla cittadinanza e alle imprese per poter lavorare, in una fase economica particolarmente critica?
Intorno a questi interrogativi gravitano problemi che una recente indagine effettuata da Promo P.A. Fondazione ha analizzato e posto in risalto.
Partendo dalle lacune più preoccupanti, quali la mancanza di protocolli di sicurezza informatica e i problemi di connessione, la ricerca lancia l’allarme sulla perdita di produttività, stimata nel meno 30%, che ha determinato ritardi nell’emanazione dei bandi d’appalto, nel rilascio di concessioni, di autorizzazioni e licenze, con un impatto negativo sull’economia locale, sommandosi alla già difficile situazione economica.
In sostanza, come denunciano ogni giorno le nostre piccole e medie imprese, lo smart working nella pubblica amministrazione, se non governato, finirà col tradursi in un ulteriore eccesso di burocrazia, quel “mostro”che la Federlazio da sempre combatte.
Un freno sempre tirato, che limita la capacità competitiva delle imprese, che grava su di loro, in termini di costi diretti e indiretti, per le ore necessarie agli adempimenti amministrativi ed alla complessità procedurale, alle consulenze esterne.
Mentre i piccoli e medi imprenditori avrebbero bisogno di rapidità nelle risposte, snellezza dell’iter e certezza normativa”.

 

 

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