Festa della libertà di stampa

di FRANCESCO MATTIOLI-

Si è da poco festeggiata la giornata internazionale della libertà di stampa. Mi piace offrire questa riflessione alla stampa viterbese.

Può darsi che trent’anni ad insegnare in una Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza non siano sufficienti a capire di giornalismo, ma nel frattempo ho avuto grandi maestri, che ho conosciuto di persona e spero non mi abbiano fornito nozioni vane sull’argomento.

Comincerei con Walter Cronkite, uno dei massimi giornalisti americani, premio Pulitzer. L’ho conosciuto nel 2001. Il suo insegnamento è stato questo: attenersi ai fatti, e quando i fatti li devi interpretare, cercare di essere obiettivi senza diventare inutilmente faziosi. Seguirei con Maurizio Costanzo, collega di insegnamento negli anni ‘90: il giornalista deve interessare il lettore, coinvolgerlo e farlo partecipe, ma deve soprattutto farlo crescere, maturare criticamente; e allo stesso tempo – si vede che con Mediaset aveva fatto tesoro di certi meccanismi – essendo il giornale anche una “impresa”, deva essere come un supermercato, cioè deve vendere prodotti per tutte le tasche, quelli costosi di alta qualità e quelli meno costosi e più abbordabili. Un altro maestro, Gianni Statera, trent’anni di sociologia assieme: sociologo sì, ma cresciuto a pane e giornalismo: diceva che puoi anche essere di parte, ma fallo con stile, con cultura, non ti abbassare al chiacchiericcio da condominio. Ancora, un collega, un nome televisivo: Francesco Giorgino, vent’anni di amicizia. Di lui ho sempre apprezzato la pacatezza con cui ha fatto valere la forza del sapere, piuttosto che quella della faziosità. Termino con un gigante del giornalismo viterbese, Alessandro Vismara, anni Settanta. Diceva che fare giornalismo locale significa parlare a tutti e far parlare tutti, ma tenendo sempre diritta la barra dell’equilibrio e della verità.

No so se tutto questo è giornalismo; chi legge potrebbe averne un’idea diversa, oppure gli verrebbe voglia di integrarlo con qualche ulteriore interpretazione; ma questo è il giornalismo che ho apprezzato, quello con cui mi sono confrontato e con cui ho collaborato. E’ chiaro: a leggere certi giornali, a seguire certi programmi televisivi si vede che c’è anche altro giornalismo: polemico a prescindere, aggressivo, mordace, partigiano, scandalistico, talvolta consapevolmente amorale. Potrei riprendere la famosa battuta di Humphrey Bogart-Ed Hutcheson nel film “L’ultima minaccia”: “E’ la stampa, bellezza”, e tu non puoi farci niente, niente!”. Una battuta che cinicamente giustificherebbe qualsiasi cinismo giornalistico.

Ma una battuta alla quale si opponeva Vismara, quando mi faceva notare che c’è chi possiede signorilità ed equilibrio e chi non ce l’ha, nel giornalismo come nei modi di rapportarsi con la gente, ed è un pregio – citava Manzoni – “che se non ce l’hai non te lo puoi dare”.

C’é poi anche il giornalismo di partito: che sia ufficiale, di tendenza ideologica o di mera opportunità commerciale. Che è legittimo, beninteso, ma è un’altra cosa, per lo più un manifesto elettorale permanente.

Come sta il giornalismo viterbese, allora? A mio sommesso avviso, come ogni cosa di questo mondo, ha i suoi pregi e le sue cadute. Ma per lo meno è attivo, spumeggiante, spesso piacevolmente “diverso” da quell’idea che talvolta ci facciamo di una cultura locale retriva, pigra, terribilmente provinciale.

Personalmente, preferisco il giornalismo che vola alto, che alterna cronaca e riflessione. Che quindi non si ferma solo alla cronaca o si fa mero cahier de doléances del cittadino che protesta. Demagogicamente parlando, questa seconda opzione fa cassetta; ma fa anche cultura? Difficile a dirsi. E tuttavia non va neppure quel giornalismo che non prende posizione, che non indaga, non denuncia, che vola talmente alto da perder cognizione del terreno che sorvola, e così sorvola anche sui “fatti” che contano. Insomma, anche per il giornalismo ci vuole professionalità, preparazione, etica, perché è un mestiere difficile e complesso. Non è per tutti, non si improvvisa, non basta essere curiosi o avere una vocazione polemista, ci vuole il retroterra culturale; occorre sapere, e volere, fare informazione.

Il vero problema peraltro sta nel definire meglio cosa si intende per informazione. L’informazione è un modo per arricchire la conoscenza e, soprattutto, per dirimere il dubbio. E’ informazione il colore del semaforo, la suadente voce di Siri, il manuale del perfetto elettricista, Wikipedia, Televideo e la cronaca giornalistica locale, la poesia di Leopardi, una multa per divieto di sosta, il Teorema di Turing sull’Intelligenza Artificiale.

Ma nell’immaginario collettivo l’informazione per eccellenza è il giornale, quale che sia il supporto tecnologico su cui si muove. Nella costruzione sociale di senso che caratterizza la vita collettiva di una società, i mass media – e l’informazione giornalistica in particolare – giocano un ruolo fondamentale. Se ne accorsero personaggi come Horkheimer, Adorno, Fromm, Riesman, McLuhan, Shils, Eco, Morin, Luhmann, ciascuno di essi entusiasta o allarmato dagli sviluppi della comunicazione di massa e dai destini della stampa, non solo presso i regimi totalitari, ridotta a passaveline di stato, ma anche nelle società libere. Oggi, in quella che il Censis definisce biomedialità, perché ciascun individuo si forma un proprio repertorio di fonti, divenendo, come direbbe Youtube, broadcaster di se stesso, sembra verificarsi un singolare processo di disintermediazione digitale. Così le fonti di informazione perdono i loro contorni, la loro identità, spesso la loro credibilità. Di fronte a tutto ciò il giornale è ancora una fonte privilegiata di costruzione di senso, e oggi in specie nella sua forma digitale che si presta meglio alle metodologie di raccolta individuale delle informazioni.

Il giornalista insomma si rende conto di avere in mano un’arma, o un’arpa; l’una che può uccidere, l’altra che può armonizzare i ritmi della vita sociale e far progredire il senso critico, la cultura e il sapere della collettività. E’ per questo che egli spesso parla di deontologia professionale, legata al diritto/dovere di cronaca, al pensiero libero ma mai bugiardo, al rispetto del lettore, del collaboratore o dell’esperto, all’apertura alle varie forme del sapere senza prefabbricarsi le verità, quindi rifuggendo da qualsivoglia delirio di onnipotenza, soprattutto a fronte di una società complessa e incerta nella quale ogni verità, e oggi persino quella scientifica, è convenzionale e provvisoria.

Ai giornalisti viterbesi un augurio di buon lavoro. Anzi, meglio: un grazie per il loro lavoro.

 

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