Festa della Mamma, diritti non uguali per tutte. Per le lavoratrici domestiche esiste solo la maternità obbligatoria

Come ricordato nel PNRR (Missione 5, Coesione e inclusione), la conciliazione tra lavoro e maternità è ancora uno dei punti dolenti del sistema italiano: il fatto che molte donne si trovino costrette a scegliere tra lavoro e famiglia determina una perdita consistente di capitale umano e di opportunità di crescita. Nel 2020, ad esempio, sono state quasi 33 mila le neo mamme che hanno lasciato il lavoro .
Per le lavoratrici domestiche i problemi sono ancora maggiori: innanzitutto esiste una “barriera di accesso” alla maternità, a differenza delle altre lavoratrici dipendenti che possono usufruire della maternità senza particolari vincoli, le lavoratrici domestiche devono aver accumulato un numero minimo di contributi . Ciò significa che la maternità non è immediatamente fruibile dal primo giorno di lavoro, ma dopo aver maturato una certa anzianità: la normativa prevede di aver maturato almeno 26 contributi settimanali negli ultimi 12 mesi o 52 contributi settimanali negli ultimi 24 mesi.
Ne risulta che essere una lavoratrice domestica non sembra conciliarsi con il diventare “mamma”. Infatti, i dati INPS evidenziano come nel 2020 tra le 750 mila donne assunte dalle famiglie italiane come colf, badanti e baby sitter, solo 6 mila siano in maternità (0,8%) . Si tratta di un’incidenza molto bassa, specie se confrontata con i dati delle altre lavoratrici dipendenti del settore privato (3,9%). Inoltre, il numero è diminuito negli ultimi cinque anni: se nel 2015 le lavoratrici domestiche in maternità erano 10.763, nel 2020 sono scese a 6.185, con una perdita netta di oltre 4 mila “mamme domestiche”.

Inoltre, per il lavoro domestico è prevista solo la maternità obbligatoria (5 mesi) e non il congedo parentale (facoltativo): la maternità obbligatoria è completamente a carico dell’INPS (e non del datore di lavoro) ed è pari all’80% della retribuzione giornaliera convenzionale settimanale per le lavoratrici domestiche. Non è quindi previsto il congedo parentale; inoltre una neo mamma domestica, non ha diritto ai permessi per allattamento, né al congedo per la malattia del figlio.

Non sono le uniche differenze tra lavoratrici domestiche e le altre lavoratrici dipendenti. Le lavoratrici domestiche non possono essere licenziate fino al 3° mese dopo il parto, mentre normalmente esiste l’assoluto divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al compimento del primo anno di età del bambino. Inoltre le dimissioni della lavoratrice domestica durante il periodo della gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino, non devono essere convalidate dal servizio ispettivo della Direzione Provinciale del Lavoro (come invece accade per le lavoratrici dipendenti, v. art. 55 del TU).

Probabilmente la bassa incidenza di donne in maternità nel settore domestico non dipende solo dalle problematiche normative. Uno dei fattori che determina la bassa incidenza della maternità è sicuramente l’età media avanzata tra le donne del settore. Tra le lavoratrici domestiche iscritte all’INPS, infatti, l’età media è di circa 50 anni, mentre le altre dipendenti che stiamo analizzando hanno un’età media intorno ai 42 anni.

Fino al primo anno di vita del bambino o entro un anno dall’ingresso in famiglia del minore adottato o in affidamento, la lavoratrice e il lavoratore dipendente hanno diritto a due ore al giorno di riposo, se l’orario di lavoro è di almeno sei ore giornaliere, e a un’ora, se l’orario è inferiore a sei. Indennità è pari alla retribuzione

L’età media è calcolata sui valori delle dipendenti e dipendenti domestiche utilizzando il valore medio di ciascuna classe d’età (es. 32 per la classe 30-34); per la classe “fino a 24” è utilizzato il valore 20, per la classe “50 e oltre” è utilizzato il valore 58.

In base ai dati INPS, è possibile valutare l’impatto economico della “maternità” delle lavoratrici domestiche e, di conseguenza, ipotizzare l’impatto di un’eventuale equiparazione dei diritti a quelli delle altre lavoratrici dipendenti.

Nel 2020, per sostenere la maternità delle oltre 6 mila “mamme” l’INPS ha speso circa 42 milioni di euro, con un valore medio di 6.773 euro pro-capite (variabile in base alla contribuzione della lavoratrice).

Proviamo ora a stimare a quanto ammonterebbe l’estensione alle lavoratrici domestiche dei diritti di maternità facoltativa (congedo parentale) e permessi per allattamento, ora non previsti. Ipotizziamo che dopo i 3 mesi di maternità obbligatoria dopo il parto (considerando di aver usufruito dei 2 mesi di maternità prima del parto), si usufruisca dei 6 mesi di congedo facoltativo al 30% della retribuzione e per i restanti 3 mesi dei permessi di allattamento. Viene ipotizzato il costo massimo possibile, nel caso in cui il congedo parentale sia usufruito da tutte le 6.185 mamme domestiche, per la massima durata del congedo e che, successivamente, esse rientrino al lavoro utilizzando i permessi per allattamento per i restanti 3 mesi fino all’anno del bambino.

Grazie ai dati INPS sull’effettivo costo della maternità delle lavoratrici domestiche (in base art 22 D.Lgs 151/2001 corrisponde all’ 80% della retribuzione) riusciamo a stimare la retribuzione annua lorda delle neo mamme. Nel periodo di congedo parentale l’INPS eroga una indennità pari al 30% della retribuzione per 6 mesi, è possibile quindi stimare un aggravio per le casse dell’INPS per la maternità facoltativa delle 6.185 domestiche di circa 23,5 milioni.

Sempre considerando gli indennizzi ricevuti per la maternità obbligatoria delle neo mamme e utilizzando (in base al CCNL del lavoro domestico) come coefficiente giornaliero 26 giorni è stato possibile stimare il costo orario delle neo mamme ed il conseguente costo dell’INPS per sostenere le 2 ore di allattamento giornaliero fino al compimento dell’anno del bambino. La stima del costo totale per l’allattamento è pari a 10 milioni.

Ne deriva dunque una spesa complessiva di 75,5 milioni di euro (i 42,0 attuali, più 35,5 aggiuntivi) necessaria all’INPS per garantire anche alle lavoratrici domestiche tutti i diritti legati alla maternità già riconosciuti alle altre dipendenti.

Secondo Lorenzo Gasparrini, Segretario Generale di DOMINA, “A tutte le donne lavoratrici devono essere riconosciuti gli stessi diritti di maternità e genitorialità. Conciliare lavoro e maternità è sempre difficile in Italia, ogni anno molte neo mamme devono rinunciare al lavoro per potersi occupare dei figli. Alle lavoratrici domestiche viene riconosciuta solo la maternità obbligatoria; dopo 3 mesi dal parto possono essere licenziate, non hanno il concedo parentale, né i riposi per allattamento o la malattia del figlio. Dare gli stessi diritti di maternità a queste che donne che si occupano della nostra casa e dei nostri anziani è una questione di giustizia, in linea con il principio di equità tra i settori sancito dalla Convenzione ILO n. 189/2011 sul lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici.”

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