di MARIELLA ZADRO-
VITERBO- Il 17 gennaio si ricorda la festa di Sant’Antonio Abate e le piazze dei paesi e i sagrati delle chiese di tutta la penisola, isole comprese, brulicano di animali per la benedizione del Santo protettore, che come San Francesco d’Assisi, si rivolgeva a loro per proteggere il loro operato, soprattutto quelli della tradizione contadina.
Non solo gatti, cani, ma cavalli, buoi, asini, pecore, e tutte le persone che ne usufruiscono nei loro lavori: allevatori, contadini, macellai, canestrai e salumieri.
Lo ha ben rappresentato don Mario Brizi, nella conferenza svoltasi il 14 gennaio presso la sede del CE.DI.DO. (Centro di Documentazione Diocesana) illustrando con il supporto di immagini, la vita, l’iconografia, il folklore e le tradizioni scaturite dalla religiosità popolare.
Inizialmente, per comprendere meglio le scelte di vita che fece il Santo, don Mario ha ripercorso, in una sorta di biografia, i momenti più importanti della sua esistenza molto lunga, infatti era nato il 12 gennaio del 250 d.C. e deceduto a 105 anni il 17 gennaio del 356 d.C.
Antonio nacque nel 250 a Coma (oggi Quemar), nel cuore dell’Egitto, a diciott’anni rimasto orfano, furono determinanti le parole del Vangelo, udite entrando in chiesa: “Se vuoi essere perfetto, va vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi (Mt.19,21)”.
Abbandonò ogni cosa per vivere, dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso. Vita dura nel deserto, sia per il clima e le tentazioni che presentava. Visse in completo romitaggio e parte del suo lavoro era quello di trovare il cibo per i poveri.
Tante le massime spirituali che il Santo ha lasciato per mano di Atanasio:” Quotidianamente ognuno chieda conto a sé stesso delle azioni del giorno e della notte. Se ha peccato, cessi di peccare; se non ha peccato non si vanti, ma perseveri nel bene”.
Molto particolare l’esame di una icona di S. Antonio dove sono rappresentati i suoi attributi e come viene raffigurato dagli artisti.
Normalmente, il Santo viene rappresentato in piedi e come un vecchio monaco dalla barba bianca, indice di saggezza e avvolto in un saio.
Nella mano destra tiene un bastone a forma di “Tau”, cioè croce egiziana, a cui si dava anche il significato di vita futura, con un campanello, segno di riconoscimento del maialino allevato per la carità pubblica.
Con la mano sinistra tiene un libro, dove racchiude la Regola dei monaci.
Ai piedi della figura, la presenza del maialino che ha diversi significati: rappresenta il “male”, un animale domestico o il grasso animale con il quale gli Antoniani curavano il famoso “Fuoco di Sant’Antonio”.
Ultimo elemento la fiamma del fuoco infernale, sempre combattuto dal Santo, oppure si potrebbe riferire alla sua protezione sui malati di ergotismo, (intossicazione causata dall’ingestione di segale, in grani o in farina contaminata dal fungo Claviceps purpurea) da non confondere con l’Herpes Zoster.
Tutta la seconda parte della conferenza è stata dedicata all’illustrazione dei riti e feste popolari, che si svolgeranno in tutti i paesi della provincia di Viterbo, da domani 16 gennaio fino alla domenica 19, per ricordare ed onorare il Santo, che appartiene alla religiosità popolare, attiva creativa, dove il popolo è protagonista coinvolto in momenti di vita comunitaria.
L’accezione del “focarone”, la “galoppata” con i cavalli, la benedizione degli animali, la “questua”, la preparazione di cibo con le carni del maiale, i dolci a forma di “cavalluccio” momenti di vita popolare, nei proverbi e nei detti:“ S. Antonio con la barba bianca, se non piove, la neve non manca”; “S. Antonio di gennaio porta grano nel granaio e mezza paglia nel pagliaio”;“Andare di porta in porta, come il “porco” di Sant’Antonio”.