Festival della Tuscia: intervista a Massimo Spada

di CINZIA DICHIARA –

VITERBO – L’edizione 2024 del Festival della Tuscia, il cartellone del quale ha presentato nomi rilevanti nel panorama del concertismo, ha appena chiuso i battenti. Incontriamo il suo direttore artistico, il pianista Massimo Spada, per sentire dalla sua stessa voce quali sono gli esiti dei concerti e degli incontri culturali svoltisi nella provincia presso luoghi d’arte, chiese, palazzi, castelli, e per conoscere più da vicino questo artista dal volto ormai familiare. Persona cortese, sorridente ed entusiasta, accetta di rilasciare l’intervista subito appena finito l’ultimo concerto. Bastava vederlo insieme ai suoi amici pianisti di fama internazionale, Filippo Gorini e Aleksandr Malofeev, per intuire la cordialità e l’amicizia che lo legano a questi artisti coi quali ha inteso condividere giornate ed esperienze nella veste di interprete e di organizzatore della terza edizione.

  • Buonasera, maestro Spada, il suo profilo di pianista e direttore artistico rivela una duplice anima. Iniziamo dalla sua attività concertistica. Lei si esibisce come solista e in formazioni da camera: quali sono fino a oggi le collaborazioni più felici con i colleghi e quali le formazioni da camera che preferisce?

La mia formazione solistica e cameristica affonda le radici in percorsi di studio da solista e camerista presso l’Accademia di Santa Cecilia e presso l’Accademia di Imola ‘Incontri col Maestro. Dopo tali esperienze ho cominciato a mettere a fuoco la mia preparazione; frattanto l’attività cameristica ha preso il sopravvento. Sicuramente la collaborazione più bella è quella con Beatrice Rana, con la quale abbiamo fondato un duo stabile, varando ogni anno un progetto diverso: dalle Danze Sinfoniche di Rachmaninoff che abbiamo eseguito in versione coreografica con la compagnia di ballo di Daniele Cipriani, a concerti con un repertorio che include brani come il Sacre du Printemps di Stravinskij e la Sonata per due pianoforti e percussioni di Bartok. Un lavoro di famiglia, molto intimo, nel quale occorre essere in grande sintonia con l’altro.

  • Facendo un passo indietro rispetto alla sua maturità di pianista affermato, a proposito del suo studio con Boris Petrušanskij e Riccardo Risaliti e della sua frequentazione di alte scuole di perfezionamento, come ne reputa l’esperienza? In che cosa questa le ha giovato ai fini del miglioramento del suo modo di suonare?

Nella mia crescita ognuno ha avuto una funzione distinta: Pieralberto Biondi, figura di spicco della didattica pianistica romana e mio maestro principale quando ero ragazzo, ha costruito la casa. Chi l’ha arredata è stato il maestro Petrušanskij, che vi ha disposto impianti elettrici, idraulici, mobili, quadri, suppellettili. Però, chi me ne ha consegnato le chiavi è stato il maestro Lupo. Con lui ho appreso a non temere l’esecuzione in pubblico, in precedenza molto stressante per me. Dopo l’esperienza sotto la sua guida in Accademia, il mio approccio al palcoscenico è totalmente cambiato. Lupo è riuscito in qualcosa di profondamente psicologico e acutamente didattico: mi ha trasmesso la serenità di fronte alla sala.

  • Circa l’attività didattica, oggi molto diversificata, come svolge il suo insegnamento di Pianoforte al Conservatorio di Perugia e su quali piani d’interesse questo si dispiega?

La docenza è un’attività di formazione a tutto tondo che mira a preparare i ragazzi al mondo del concertismo e dei concorsi, un’attività dunque molto pratica, concreta. Occorre saper considerare ciò che è utile al percorso individuale degli allievi, tutti differenti nella risposta alle sollecitazioni didattiche, fornendo loro la possibilità di uscire dal corso di studio con un’ampiezza di repertorio e di vedute che li renda capaci di apprezzare qualsiasi proposta nuova. L’ambito del concertismo è molto cambiato e ora conta molto essere aperti alla musica contemporanea e a musica che non sia conosciuta.

  • Il maestro in tempi mitici era anche un maestro di vita, un esempio a cui guardare, è ancora così?

Certamente il ruolo non si esaurisce nel segnare le diteggiature, correggere brani sbagliati o impartire mega-lezioni di stile, ma soprattutto tende a organizzare il lavoro personale dell’allievo e a pianificare le sue mosse nel futuro, in un’età decisiva in vista di una carriera. Il compito del docente è di una grande responsabilità.

  • Rispetto ai cambiamenti intervenuti, oggi i giovani iniziano subito a fare esperienze musicali diverse in stretta concomitanza con il percorso di base, anche semplicemente attraverso i corsi estivi. Trova utile che, prima ancora di essersi formati con lo stesso maestro, conoscano presto altre scuole, metodi e interpretazioni? Ritiene positivo tale dinamismo oppure pensa sia bene che si aprano ad altri insegnamenti solo successivamente?

Domanda complessa e attuale. Ritengo che sia assolutamente necessaria una guida centrale, abbastanza predominante in uno sviluppo iniziale, soprattutto per i primi cinque anni. Poi, io stesso sono favorevole a mandare gli allievi a farsi ascoltare nei corsi estivi, ma cum grano salis. Non amo queste macedonie di brevissime masterclass in sovrapposizione frequente. Tuttavia ciò ha una sua utilità nel mondo dei concorsi, poiché agevola la conoscenza del metro di approccio e di giudizio, dunque i ragazzi che intendano cimentarsi in concorsi importanti imparano a conoscere chi hanno di fronte quando c’è una giuria. Essere preparati frequentando alcuni ambienti musicali li aiuta a capire e a misurarsi.

  • A confronto con la sua formazione in conservatorio, che cosa è cambiato, in sintesi?

Tutto. Appartengo all’ultima generazione che ha frequentato i corsi del famoso vecchio ordinamento. Oggi qualcosa non funziona. Il problema principale è che si è voluta equiparare una materia di studio artigianale, assolutamente da bottega, come quella dell’apprendimento strumentale, a una materia altamente scientifica che postula una preparazione molteplice su vari fronti teorici.

È giusto preparare anche su basi teoriche e affrontare la miriade di argomenti interconnessi ma per suonare bene occorrono hic et nunc sette, otto ore di studio al giorno, mentre lo studente è sollecitato di continuo a seguire altri corsi durante la settimana. Forse si è provveduto a istituire cattedre, talora anche discutibili, e non si è pensato alle esigenze di studio degli allievi. La frequenza dei corsi necessari è sacrosanta, ma a tal fine bastava intervenire su quelli già esistenti, aggiungere e correggere ciò che vi era di datato, mantenendo l’impostazione generale.

  • La sua onestà intellettuale e la sua sincerità d’opinione confermano un’impostazione di pensiero che tra i molti musicisti di livello sembra coincidere pressoché all’unanimità. Restando ancora nel confronto col passato per capire meglio l’oggi, come sono adesso i ragazzi nella preparazione, nello studio? A che punto siamo, praticamente, con la didattica?

Fin da ragazzo mi fu insegnato dal caro amico Paolo Fazioli che andare a sentire concerti almeno una volta al mese è parte importante della formazione musicale. E così feci. Ero abbastanza inesperto; mio padre mi accompagnava sempre. Oggi invece, nonostante le numerose agevolazioni e promozioni a loro dedicate, i ragazzi non frequentano le sale da concerto.

  • Non pensa che spetti ai docenti saperli indirizzare?

Farli andare con continuità, anche laddove caldamente invitati, è difficile. C’è stanchezza, pigrizia, insicurezza, sotto la matrice comune del mondo dei social che astrae e rende soli i ragazzi portandoli a non collaborare in comunità con gli altri. Il concerto è qualcosa di comune, di condiviso: un bagno di socialità. Se non si è abituati, non se ne avverte il bisogno, avendo inoltre a facile portata lo stesso prodotto su youtube!

  • Quindi a suo parere continueremo a veder prevalere nelle platee delle sale da concerto le chiome incanutite di appassionati e cultori anziani?

Forse no. Il Festival della Tuscia mi ha dato per alcune serate notevoli soddisfazioni. È dalle realtà più piccole, come questa, che si deve operare per favorire l’afflusso di pubblico.

  • Non c’è un ricambio?

Paradossalmente, nel pubblico, la fascia di mezz’età è mancante.

Ha già tirato le somme di questa edizione del festival. Com’è nata l’iniziativa?

Da un’idea di Vittorio Sgarbi di unire la provincia viterbese, molto vasta e sfaccettata: tanti piccoli comuni che possano marciare insieme coordinati per un periodo circoscritto, sotto l’egida dell’arte e della bellezza.

Sono veramente molto soddisfatto. Un’enorme partecipazione di pubblico persino in serate funestate da spiacevoli eventi climatici. Un’enorme spinta a continuare e a far sì che la Tuscia sia un posto non solo bello ma anche ricco di stimoli culturali. Con il festival intendiamo dare la possibilità di poter sentire concerti di artisti che generalmente suonano, da Parigi a New-York, soltanto nelle più prestigiose sale del mondo. È sufficiente venire nella Tuscia.

A che punto è giunto con questa edizione?

Sto già lavorando all’edizione del 2025!

  • Come riesce ad assemblare un cartellone? E il Festival ‘I tramonti di Tinia’?

Il Festival della Tuscia si basa su progetti portati avanti sotto un comune denominatore (quest’anno era la nozione di Tempo nella Musica, ndr). Il suo programma nasce sicuramente da alcuni nomi che presentano determinati brani, nei quali cerco di trovare un fil rouge, una suggestione comune, per accostare intorno ad essi tutti gli altri. Quello dei Tramonti di Tinia è invece un festival didattico, ovvero un serie di incontri basati su un’idea costruttiva: far collaborare alcuni giovani artisti con artisti affermati. E dunque ha intenti didattici nell’unione tra esperti ed esordienti.

  • Rispetto al problema dell’interpretazione musicale, nel rendere un autore, un’opera, i musicisti attualmente sono ritenuti più attenti al virtuosismo tecnico, al progresso dell’abilità strumentale che a una espressività poetica avvincente. Quali sono le coordinate che lei segue nel suo personale tracciato estetico e nella sua costruzione di un’esecuzione? Che cosa pensa e come si colloca in quanto artista?

La mia posizione rispetto a questo tema si evince già dalla scelta degli artisti invitati e dall’esito sul pubblico. La poesia, la dolcezza del pianista Aleksandr Malofeev, in una confessione intima al di là di qualunque barriera; il recital del violinista Stephen Waarts, un inno alla costruzione architettonica, peraltro basata su un unico strumento…

  • … e la finezza di sentimenti di Beatrice Rana, con quei temi che sembrano sgorgare dall’anima! Questo il fine principale del fare musica…

Certamente. Appartengo alla vecchia scuola, ne sono un alfiere. Sono anche per l’innovazione, ma non a tutti i costi. Non accetto compromessi e non cerco il successo tout- court. Mi interessa proporre realtà vere, mai cose che appaiono soltanto.

Condividi con:
LEGGI TUTTE LE NOTIZIE