Gabriele Pieranunzi, primo violino dell’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli

di CINZIA DICHIARA-

NAPOLI- È tra i pochi eletti che hanno suonato il violino Guarneri del Gesù denominato ‘Il Cannone’, appartenuto a Niccolò Paganini e custodito a Genova, essendo stato premiato due volte, nel 1988 e nel 1994, al celebre Concorso violinistico del capoluogo ligure. E, a onor del vero, Gabriele Pieranunzi di premi ne ha vinti diversi, tutti importanti, alcuni prestigiosi, basti pensare al piazzamento al quarto posto nel Concorso ‘Tibor Varga’ di Sion, competizione che attira nel cantone svizzero-francese del Valais violinisti tra i migliori in circolazione, nonché al secondo premio nell’altrettanto importate Concorso ‘Giovanni Battista Viotti’ di Vercelli, nel 1986. Inoltre ha suonato con artisti di riferimento nell’arte dell’interpretazione, da Alfons Kontarsky ad Alain Meunier, da Rainer Kussmaul a Bruno Canino, ed è stato diretto da illustri direttori come Jeffrey Tate, Vladimir Fedoseyev, Aldo Ceccato, esibendosi sempre con orchestre celebri. Naturalmente vanta anche incisioni rimarchevoli, per le etichette Decca-Universal e Concerto Classics. Suona un violino Ferdinando Gagliano del 1762, appartenuto alla gloriosa Gioconda De Vito e affidatogli dalla Fondazione Pro Canale che gestisce una collezione di strumenti storici ad arco dati in uso a valenti musicisti, e da ben venticinque anni ricopre il ruolo di primo violino presso l’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli.

  • Come nasce, maestro, la sua esperienza di violinista?

Piuttosto presto, tra i sei e sette anni di età, su input di mio padre e di mio fratello Enrico (il noto pianista  jazz, nda) che avevano intuito le mie doti musicali. Cosicché, pensando alle possibilità di lavoro, nell’ipotesi di un futuro nella musica si decise per il violino.

  • E quand’è che ha capito di essere un violinista?

Praticamente dall’inizio. Già da bambino mi piaceva studiare due o tre ore al giorno. Addirittura negoziavo con mia madre i compiti per la scuola con lo studio del violino. Avrebbe dovuto essere il contrario poiché fare i compiti è più semplice che suonare il violino, ma in realtà mi divertivo veramente a suonare; per me era qualcosa da risolvere, come un cruciverba; se all’inizio un brano presentava delle difficoltà, io mi divertivo a cercare di uscirne, in una sfida con me stesso.

  • I premi importanti hanno decretato la sua piena affermazione

Sì, ho vinto prima il quarto, e poi il terzo premio al Paganini, quando erano moltissimi anni in cui nessun italiano andava in finale. Nonostante non abbia vinto un primo premio, essere in finale per due volte consecutive è stato un risultato importante che mi è valso l’ingresso a pieno titolo nella professione, intorno ai diciotto, vent’anni di età.

  • Nella sua storia professionale si inscrivono nomi rilevanti come quello di Alfons Kontarsky

La mia collaborazione col pianista tedesco conta diversi concerti. Nel lontano 1999 suonammo in quartetto con Francesco Fiore e Rocco Filippini a Roma, presso l’Oratorio del Caravita, per la stagione del Gonfalone.

  • A Roma ricordo un concerto in duo

Suonammo in duo per la prima volta a Roma nel 1995 o 96, al Teatro Valle, per l’Accademia di Santa Cecilia.

  • Ricordo anche di averla incontrata all’Académie de Musique de Sion da Tibor Varga, il violinista rumeno fondatore della scuola di alto perfezionamento nonché del concorso violinistico internazionale

Un padreterno di violinista

  • Allora poco noto in Italia

Anche adesso, in verità. Ne ho un ottimo ricordo. Il concorso ‘Tibor Varga’ in quegli anni era mostruosamente difficile per qualità e quantità dei partecipanti, vicino a grandissimi concorsi come il ‘Sibelius’ o il ‘Regina Elisabetta’ di Bruxelles.       Nel 1993 vi partecipai e ottenni il quarto premio.

  • Lei ha studiato sempre con grandi maestri

Sì, alcuni dei maestri più importanti dell’epoca. Adesso non ne è rimasto quasi nessuno, tranne Salvatore Accardo.

  • Come vede il panorama didattico attuale?

Meno bene di un tempo, innanzitutto per essere entrato nell’età in cui si comincia a ritenere migliore il mondo passato, ma, seriamente, non dico che non vi siano grandi didatti poiché, come ve ne sono stati un tempo, così ve ne sono oggi tra le nuove leve. Tuttavia ho la sensazione che in precedenza vi fosse una grande docenza che mirava allo sviluppo didattico-pedagogico dell’allievo e, solo in seguito, al suo ingresso nel circuito del mercato; il risultato artistico era primario rispetto a qualsiasi altro, ed era ben distinto da quello dell’industria musicale. Adesso, invece, l’unico fattore di interesse sembra essere il mercato: i partecipanti a concorsi internazionali di livello sono molto agguerriti tecnicamente, mentre l’aspetto poetico sembra interessare sempre meno, e, laddove compaia, ce ne sorprendiamo quasi.

Nel momento storico presente, inoltre, il mercato musicale è determinato anche dalla geografia e dall’economia. Ad esempio, la maggioranza dei premiati ai concorsi internazionali proviene dalla Corea. Dapprima i giapponesi, poi i cinesi, ora i coreani. Considerato che grandi aziende come la Hyundai, o la Samsung e altre sponsorizzano gli studenti inviandoli a studiare in Europa, è naturale che l’investimento debba dare dei risultati. Probabilmente la geografia dei concorsi cambierà ancora. Infine, anche il fattore numerico incide: secondo una notizia diffusa dal magazine ‘Internazionale’ che raccoglie le principali testate del pianeta, in Cina ci sono trentacinque milioni di studenti di pianoforte, praticamente come se tutti gli abitanti da Roma a Catania sapessero suonare il pianoforte; dunque è facile che possano surclassarci.

Gli orientali si fanno valere, sono molto approfonditi nella nostra cultura

Purtroppo l’occidente sembra crogiolarsi sul proprio passato come su un vecchio baluardo, ma non viene sostenuto dagli occidentali stessi. Siamo nel mondo del Politacally Correct eppure tutto è uncorrect, basti considerare che da quando esiste la legge sulla privacy non c’è più la privacy: paradossi assurdi della nostra epoca.

  • La sua esperienza formativa è piuttosto straordinaria. Da Franco Gulli a Stefan Gheorghiu che cosa le hanno trasmesso i suoi maestri e che cosa a sua volta trasmette agli allievi?

L’insegnamento fondamentale che abbia ricevuto è la continua ricerca a migliorarmi come strumentista e musicista: tutto il resto arriva di conseguenza. Avere come primo obiettivo la qualità della preparazione è il principio primo che cerco di trasmettere ai giovani che seguo, facendo comprendere loro che occorre puntare sul proprio livello artistico, sacrificarsi, crescere musicalmente e anche abituarsi a perdere, in modo da imparare come vincere. Per i ragazzi di oggi il mondo va in frantumi di fronte a un insuccesso, invece essi devono capire che le sconfitte fanno parte della vita così come le vittorie, e che spesso queste ultime sono più rare delle sconfitte.

  • La sua carriera?

Oggi suonano in molti, e molti sono i bravi violinisti. Inoltre, con la globalizzazione, il mondo è divenuto infinitamente più piccolo rispetto agli anni in cui io e quelli della mia generazione affrontavamo i concorsi.

Per circa quindici anni ho svolto un’attività concertistica rilevante, sia solistica sia da camera. Nell’attività cameristica ho avuto in sorte di collaborare con musicisti come lo stesso Alfons Kontarsky, poi Rocco Filippini, Bruno Canino, Rainer Kussmaul, leggendaria spalla dei Berliner Philarmoniker. Anche nell’attività solistica ho collaborato con direttori di rilievo quali Jeffrey Tate, o Vladimir Ivanovič Fedoseev, direttore storico dell’Orchestra della Radio di Mosca. Nel complesso, un’attività concertistica di piena soddisfazione.

  • Com’è pervenuto al ruolo di primo violino al Teatro San Carlo?

Di ritorno a casa, appena finito di suonare il secondo concerto di Paganini diretto da Gianandrea Noseda con la City of Birmingham Symphony Orchestra, che allora era ancora l’orchestra di Simon Rattle dunque un’orchestra fra le migliori al mondo, mi giunse una chiamata col prefisso di Napoli: era il Teatro San Carlo. Fui chiamato per fare la spalla in un balletto e non avendo mai ricoperto questo ruolo lo dissi molto onestamente. Mi fu replicato che tuttavia erano ben noti a tutti la mia carriera, i premi vinti, le attestazioni di successo e, inoltre, che il mio nome era stato proposto dalla pianista Laura De Fusco, con la quale collaboravo. Ci pensai due o tre giorni quindi accettai, nella convinzione di restare a Napoli per una settimana, o una decina di giorni al massimo. Invece presero a invitarmi per altre produzioni e io cominciavo a trovarmi bene, il ruolo mi piaceva, anche perché reputavo l’attività solistica molto stressante e sapevo che lavorare in un’orchestra permette un maggiore respiro, potendo restare più a lungo in uno stesso luogo. L’attività solistica l’ho sempre desiderata, una parte di me dapprincipio ha ambito fortemente ad essa, ma sempre con la consapevolezza di non voler andare troppo avanti poiché alla lunga non sarebbe stata una vita possibile.

Quando la direzione artistica mi propose il ruolo senza neanche dover sostenere un concorso, peraltro sono stato l’ultimo strumentista ad arco nominato per chiara fama in Italia, mi dissi che era bene assicurarsi un assetto di vita stabile. Avevo perduto i miei genitori e avevo trentaquattro anni, inoltre fui molto lusingato di essere stato invitato grazie alla consistenza del mio curriculum. In aggiunta, prevedevo che l’attività concertistica, anche di alto livello, sarebbe diventata più difficile, e infatti attualmente è complicato districarsi nel mercato. Avevo intuito che alla lunga la musica sarebbe entrata in un momento di grande crisi. Speravo di avere torto, ma non mi sembra che stiamo vivendo uno dei periodi più floridi. In realtà, quando mi chiedono se farò studiare mio figlio rispondo categoricamente che non ci penso affatto.

  • La sua vita di primo violino?

Nella mentalità odierna perdura un equivoco di fondo, poiché si ritiene comunemente che ruolo di primo violino sia un ruolo di comando, mentre, in realtà, è un ruolo di mediazione tra il direttore che ci si trova di fronte e i colleghi, nonché la direzione artistica.

Effettivamente era un ruolo di comando fino a trenta, trentacinque anni fa: senza alcun intento polemico da parte mia, a uno sguardo obiettivo, allora c’erano soltanto il sovrintendente e il primo violino. Oggi gli organigrammi si sono davvero ampliati, la burocrazia si è molto estesa, non esiste più una filiera verticale. Vige un’organizzazione ‘orizzontale’ e quindi occorre mediare tra situazioni disparate e relazionarsi con diverse figure di riferimento: sovrintendente, direttore artistico, segretario artistico, responsabile dell’orchestra, responsabile della programmazione ecc. Il primo violino è la figura che deve saper mediare con tutte queste altre.

  • Il rapporto col direttore d’orchestra?

L’interazione dipende sempre dal direttore. Ormai le orchestre sono tutte abbastanza di livello e i musicisti ‘annusano’ subito chi hanno davanti, se un artista di livello o un bluff. L’empatia scatta immediata, oppure non nasce.

In qualità di primo violino cerco sempre di fare il mio dovere, sia che abbia davanti un direttore molto empatico e molto artista, sia che mi debba confrontare con un direttore meno comunicativo e meno artista. E cerco di farlo nel migliore dei modi. Poi, chiaramente, quando capita un grande artista che sia anche un grande direttore, capisco che mi trovo in presenza di un padreterno.

Quella del direttore è una professione talmente atipica! Quando qualcuno mi dice di essere andato ad ascoltare un grande direttore, preciso che è andato a vedere quel direttore e ad ascoltare l’orchestra.  Un direttore che sappia entrare in contatto con l’orchestra deve possedere capacità direttoriali e intellettive elevate, essere come Bernstein, come Celibidache, che non erano solo direttori ma filosofi, uomini di pensiero. Scandire la croce dei quattro quarti è nelle possibilità di molti e dirigere è semplicemente un mezzo, mentre essere direttore vuol dire creare un canale di comunicazione, saper entrare negli altri, essere un pensatore, una creatura con una mente superiore che non si limita a curare il piano tecnico dell’insieme strumentale ma riesce a creare l’insieme dal punto di vista mentale e spirituale.

Nelle registrazioni di Furtwangler, ad esempio, e, in generale, nelle orchestre di una volta, si scorge questo modo di pensare. Magari un accordo non cadeva perfettamente sincrono ma cadeva insieme dal punto di vista dell’anima, e questo è molto più del combaciare verticalmente in modo asettico.

  • Come vive i suoi momenti di assolo, in questo magnifico teatro storico?

Avendo fatto molta attività solistica e da camera, e attività in orchestra in egual misura, posso affermare che il ‘solo’ d’orchestra è la cosa più difficile, poiché si deve dare il massimo in pochissimo tempo. Nel tenere un concerto si ha del tempo per adattarsi e per reagire invece il ‘solo’ d’orchestra, relativamente breve, non consente alcun margine. È un po’ come il rigore nel calcio, si ha quella possibilità in quel momento, non c’è un altro momento.  Inoltre vi è un aspetto anche ironico: la figura del primo violino è amata e odiata. Nel momento del ‘solo’ si percepisce una tensione nella quale si aspetta il fallo. Anche l’invidia che un primo violino può sentirsi addosso penso scaturisca da un processo inconscio, non voglio credere che sia consapevole, però purtroppo esiste.

Ricordo questa affermazione di Jeffrey Tate: «La figura della spalla è già detestata di suo, perché farsi detestare ulteriormente?»

Un avvertimento terribile ma veritiero nel suo sarcasmo. Vi sono molti primi violini di spalla che entrano un po’ prima del direttore e fanno la promenade, prendono l’applauso e si siedono per fare il loro lavoro. Io non lo faccio per principio; sono il primo ad entrare, prima di chiunque altro.

Il violinista Vittorio Emanuele, spalla dell’orchestra della Rai di Roma o di Santa Cecilia intorno agli anni ‘30 o ‘40, descriveva il ruolo del primo violino mediante una metafora prosaica, piuttosto spinta ma efficace: «Il primo violino è come qualcuno celato dietro un cespuglio e a un certo punto gli tolgono il cespuglio.»

In effetti nel ‘solo’ campeggiano diverse sfaccettature: vi sono ‘solo’ importanti nel quali l’orchestra interviene abbastanza e dunque ci si sente piuttosto al calduccio delle coperte; poi alcuni ‘solo’, ad esempio di Strauss, nei quali si ha un sostegno, e in altri no; vi sono anche dei ‘solo’ di tipo intermittente, ad esempio Shéhérazade comprende dieci o undici ‘solo’ che richiedono un carattere completamente diverso:  lì si è soli per davvero come un cane in autostrada, l’arpa lascia le ultime note e tutto sta al violino. Quindi vi sono ‘solo’ in cui c’è prima il canto e a seguire l’intervento del primo violino, pertanto occorre sapersi ricongiungere alla nota che lascia il cantante, mentre, in alcuni ‘solo’ dei balletti, davvero l’accompagnamento è ridotto al minimo.

Nei miei interventi cerco sempre di assumere la postura adeguata a un concerto solistico, con la medesima intenzione, pur nella brevità. A seconda dei ‘solo’ che eseguo mi rivolgo verso il pubblico o verso l’orchestra, oppure guardo il direttore, insomma cerco la posizione congrua per essere il più sereno possibile.

  • Una grande esperienza, aspetti dei quali non sempre si parla…

Si tende molto a semplificare ma non posso negare che fra l’attività solistica, quella da camera, l’orchestra e l’insegnamento a volte mi sembra di avere nel cervello quattro file diversi, una gran fatica!

  • Dunque il primo violino, così come nei ‘solo’, può essere solo in orchestra. Il suo rapporto con gli orchestrali e con la città di Napoli?

In una posizione di rilievo si può essere amati o odiati. Io sono per natura un carattere che generalmente preferisce stare due passi indietro e non urtare la suscettibilità altrui, e ho ottimi rapporti con i colleghi. A settembre saranno venticinque anni che sono qui e considero il bilancio più che positivo. La stragrande maggioranza dei colleghi è una famiglia: litighi, discuti, fai pace, vai a prendere un caffè, come in una dinamica familiare.

  • Lei si è costruito una sua famiglia

Lavoro nel teatro più bello del mondo, ancora quando supero l’ingresso mi emoziono. Ogni qualvolta inizi a suonare e c’è la mezza sala con le candele spente in me accade qualcosa, e finché sarà così lavorerò con piacere ma non nascondo che il mio sogno era di tornare a casa, a Roma, banalmente per una questione di radici e di percorso fatto. Invece, la vita, con i suoi imprevisti e sorprese, mi ha portato a innamorarmi di una collega che lavora in teatro come violinista anch’essa. Siamo insieme dal 2011 e ci siamo stabiliti a Napoli. Poi, nel 2018, è nato Mattia.

  • La sua genitorialità nella società attuale?

Cerco di comportarmi nel modo più naturale, desiderando che il bambino faccia il bambino il più possibile, in una società molto competitiva, nella quale a cinque anni pare che i piccoli debbano fare chissà che cosa e non gli si dà neanche il tempo di annoiarsi. I genitori vorrebbero anticipare tutto, ad esempio chiedono che i figli imparino a leggere fin dall’asilo, come se dovessero sempre arrivare prima per un diffuso senso di competitività. Per me un bambino deve giocare.

Per quanto riguarda la musica vedremo se avrà interesse, altrimenti usciremo dal cliché tipicamente italico che il figlio del musicista debba essere musicista, che il figlio dell’avocato diventi a sua volta avvocato. Farà ciò che vorrà fare, ciò per cui sarà portato per le sue doti naturali. Che debba conoscere la musica poi è un altro discorso e già lo portiamo al coro del Teatro San Carlo per i bimbi dai quattro ai sei anni. Gran tenerezza, tutti quei piccoli che cantano insieme!

 La musica farà parte della sua vita ma non sarà obbligato.

  • Il rapporto col suo illustre fratello jazzista, una differenza d’età di vent’anni…

Proprio le differenze tra noi, sia quella del rispettivo genere musicale, lui jazz, io classico, sia quella d’età, non hanno facilitato il rapporto, ovviamente molto più agevole adesso, ciascuno di noi con la propria maturità. Negli ultimi dodici anni abbiamo anche ripreso a suonare insieme con un programma per violino, clarinetto e pianoforte, in trio con Alessandro Carbonare prima, e con Gabriele Mirabassi poi.

Ci vediamo poco poiché abbiamo vite in cui si corre dannatamente, ma per fortuna ci incontriamo ogni tanto per vedere le partite della Roma, un buon motivo per trovarci tra una corsa e l’altra!

Quando ero un ragazzino Enrico mi ha sempre accompagnato in tutti i concorsi, ma se un jazzista e un musicista classico si fossero messi a suonare in duo trent’anni fa, sarebbero stati additati a pubblico ludibrio e visti come sobillatori mentre oggi tutto è globalizzato nell’unione di generi e quello musicale è un settore talmente in difficoltà che si cerca anche di aiutarsi, noi e i jazzisti. Del resto ho sempre ritenuto che la musica di qualsiasi genere, classica, leggera, pop, rock, sia soltanto buona o cattiva. Dovremmo essere tutti una grande famiglia. Pensiamo alla medicina: vi sono molte branche di specializzazione e ogni branca può connettersi con l’altra.

– Com’è la sua vita nella musica?

Sembrerà un’idea banale ma la mia vita è completamente immersa nella musica, la mia mente è sempre proiettata su di essa. Continuo a studiare, anche se il tempo per lo studio di quattro o cinque ore al giorno non c’è più. Soprattutto penso alla musica sotto vari punti di vista e angolazioni, con un pensiero costante. Del resto non mi sembra di avere scampo: concerti, ‘solo’ in orchestra, gruppi da camera, ho sempre da pensare alla musica.

  • Prima di accomiatarci, lei è in un’età nella quale ha realizzato molto e al contempo è abbastanza giovane da poter ancora fare molto. Forse è presto, ma se volesse fare un bilancio?

Oddio, non è molto presto poiché ho iniziato a sette anni e a luglio ne compio cinquantacinque, dunque sono quarantotto anni che suono. Il bilancio è positivo. Certo, si può sempre fare di più, ma in tempi in cui sembra che tutto non basti mai, penso che invece si sarebbe potuto anche fare tanto di meno. Confesso che il mio obiettivo futuro è di rallentare per potermi dedicare a quel che mi piace, senza togliere niente alla musica. Desidero molto dedicarmi al mio pargoletto. Adesso comincia ad essere spassoso, a ragionare, a interfacciarsi ed è un marmocchio divertente. E poi sono stanco di questa corsa continua non si sa verso quale obiettivo.

Talvolta mi premio dopo un concerto di quattro ore e vado a bere una birra, prendo quei minuti per me, come l’ora e mezzo per vedermi una partita. Quando sono in teatro, le cinque ore di prove facilmente diventano otto, poiché ci sono varie cose da risolvere, tutte risolvibilissime: il problema è che ci si sente tutti importanti in questo momento storico, tutti si pensa di essere decisivi per qualcosa, in realtà non lo siamo per niente.

Il lavoro può essere anche una via di fuga dalla realtà, dal timore di dover lasciare questo mondo prima o poi, però, anche nella fuga, a un certo punto bisogna fermarsi a osservare ciò che c’è intorno.

  • Quale senso vuole imprimere a ciò che fa?

Il senso più importante per me è essere riconosciuto come persona seria, e così, nel modo più semplice, vorrei essere ricordato tra molti anni: una persona che ha svolto il proprio lavoro con la maggiore professionalità possibile. Non ambisco a essere noto come grande violinista ma come figura che ha vissuto la cultura del lavorare onestamente. Questo vorrei lasciare anche a Napoli, allorquando andrò in pensione.

  • L’onestà sembra oggi un principio in ribasso rispetto ad altri parametri …

Ehh… Sarà un problema educare mio figlio! – sorride, avendo tutta l’aria di saper come fare.

Ci salutiamo con molta cordialità e una volta di più Pieranunzi appare quale artista maturo, limpido nel suo credo, lucido e abbastanza pragmatico, talora disincantato. Affatto incline ai salamelecchi e lontano da qualsiasi atteggiamento istrionico, anche di fronte alle sfide della vita sembra mantenere la dirittura di quel bambino descrittoci, che amava affrontare le difficoltà dei pezzi da imparare e trovarne la soluzione. Un uomo sincero, poco propenso a pavoneggiarsi nel suo ruolo, ma, anzi, dialogante, disposto all’intesa e aperto verso il prossimo, colleghi e amici. Soprattutto, fermo nel proseguire per la sua strada, in un cammino che ha tracciato con fede, passo passo, all’insegna di coordinate quali l’impegno edificante, la dedizione a un ruolo, la coerenza esistenziale, la ricerca di bellezza.

 

Foto di Grazia Lissi

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