Giustizia: riforma o rivoluzione?

Riceviamo da Claudio Santella e pubblichiamo: “Un quotidiano a tiratura nazionale, circa tre lustri or sono, con un titolo a caratteri cubitali, ed in prima pagina, affermava, a proposito di giustizia, che già “nel 1975 c’era chi denunciava lo strapotere delle toghe”. L’autore dell’articolo, Francesco Perfetti, una firma non da poco, riferiva di un “rapporto sullo strapotere giudiziario” che già all’epoca “denunciava l’esistenza, dietro le quinte, di un disegno concertato, di un attentato alla democrazia, di un vero golpe strisciante avente per obiettivo quello di strangolare le libertà comuni attraverso la costituzione di un corpo di giudici che mancano al dovere dell’imparzialità ed abdicano alle funzioni istituzionali diventando soltanto gestori di un potere arbitrario”. “Fermi a 36 anni fa”, sentenziava l’articolista. (1)

Noi non abbiamo la penna di Francesco Perfetti, nè la presunzione di averla, e rimandiamo alla lettura dell’articolo quanti abbiano la voglia di approfondire l’argomento di cui è materia, tuttavia, pur nei nostri limiti, facendo affidamento agli insegnamenti di autorevoli giuristi e riportandone il pensiero, ci permettiamo di dire che una siffatta situazione risale a molto prima del 1975;(2).

Il problema della politicizzazione della magistratura ha, in realtà, radici molto più lontane, radici che, se la memoria non ci inganna, affondano nel terreno del 1700, allorquando si sentì la necessità di contenere il potere straripante del ceto dei giuristi da parte del potere politico. L’appiglio fu trovato nelle idee filosofiche portate avanti dall’illuminismo settecentesco che, in materia, vedeva al centro del sistema la legge. La preminenza nell’ambito delle fonti del diritto attribuita alla legge aveva una ragione politica: superare il potere che il ceto dei giuristi, tramite l’interpretazione del diritto, esercitava in luogo del potere politico. L’idea del regno della legge poneva al centro del sistema la sovranità del popolo attraverso gli organi legislativi rappresentativi. Per di più quella del legislatore era volontà razionale volta ad adeguare il diritto positivo alle esigenze del tempo che si viveva, e questo adeguamento si attuava attraverso lo strumento legislativo, che veniva applicato dal giudice senza snaturamenti interpretativi.

La necessità di contenere il potere straripante del ceto dei giuristi da parte del potere politico permane tuttora: v’è il principio di riserva di legge, figlio primogenito della concezione illuminista del diritto, ma corollario del sistema illuministico, però, era ed è che le leggi dovevano e debbono essere poche, chiare ed intellegibili a tutti.

La realtà odierna, invece, è di inflazione legislativa attraverso il primato del diritto positivo con una delle conseguenze, non sappiamo se e quanto non volute, che è la crisi della certezza del diritto: la qual cosa restituisce al ceto dei giuristi quel potere straripante nell’interpretazione delle norme che travalica il campo di pertinenza del potere giudiziario per invadere il potere politico; quali siano, poi, i confini del potere politico rimane un quesito al quale nessuno si cimenta per dare una risposta.

Di fatto si ha una situazione che possiamo definire pittoresca in cui ogni potere travalica o pretende di travalicare quelle che sono i suoi limiti e contestualmente denuncia il superamento dei rispettivi confini da parte dell’altro potere: proprio il contrario del criterio genetico della tripartizione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

E qui è il punto: in ogni forma di società ogni singolo soggetto, in qualsiasi forma concepito, deve conformare la sua azione all’ordinamento sociale, perché è evidente che la realizzazione dell’ordinamento nel concreto postula che vi sia ordine nelle relazioni soggettive. Incombe, in buona sostanza, un dovere di cooperazione e di obbedienza su ciascuno dei consociati, siano esse persone fisiche o giuridiche, entità singole o pluralità, e soprattutto incombe la necessità che il difetto di cooperazione non può e non deve comportare la dissoluzione dell’ordine sociale.

Va da sé che, non esistendo un ordinamento estraneo all’azione dell’uomo, ma esistendo un ordine che tende a realizzare le attività dell’uomo, conseguenza primaria è che ognuno dirigerà la propria azione a quelle norme, cui sentirà, nella sua coscienza, doveroso conformarsi. Quanto più, poi, questo comportamento individuale si adeguerà, tanto più si realizzerà in concreto l’ordine di cui la norma è criterio astratto; quando invece questa adesione verrà meno, quando vi sarà rifiuto di cooperazione, si verificherà la crisi dell’ordinamento.

Vero è che un ordinamento, giuridico o sociale che sia, è tale perché ha in se stesso la possibilità di realizzarsi anche senza il comportamento di adesione spontanea, ma è anche vero che la crisi di un ordinamento potrà essere risolta o meno con l’intervento del giudice, a seconda che il rifiuto di adesione spontanea investa norme particolari o norme fondamentali, ed ancora, che il rifiuto sia del singolo o dell’intera comunità, oppure di gran parte di essa. Infatti quando il rifiuto investe una norma fondamentale dell’ordinamento e sia manifestazione di opposizione e di resistenza dell’intera comunità o della maggioranza di essa, non v’è forza d’autorità che possa garantire la conservazione ed il rispetto della norma contestata.

In tale ipotesi o l’ordinamento deve offrire ai cittadini la possibilità di mettere in moto abbastanza rapidamente, sia pure attraverso la mediazione del sistema rappresentativo, gli strumenti di adeguamento della legislazione, altrimenti quel rifiuto dei cittadini diventa ipotesi rivoluzionaria, occasione per la distruzione violenta del sistema.

Porta aperta alle riforme, dunque, ma a riforme mirate, ponderate ed attuate in conformità alle esigenze sociali e non a riforme affrettate e/o faziose, perché certamente non forieri di prosperità qualora non siano sentite dalla coscienza dei cittadini.

Una autorevole dottrina avverte che l’uomo non può accettare la regola sociale solo perché accettata ed imposta da una forza superiore, egli “ne ricerca una giustificazione che non può essere data dalla semplice frequenza della sua osservanza e dalla efficienza della forza che ne assicura una effettiva sanzione; vuole ricondurla a un ordine la cui giustificazione si ritrova in una concezione e in una credenza che segni il giusto e l’ingiusto”(3). Riteniamo questi ammonimenti validi per qualsiasi potere, sia esso legislativo, esecutivo o giudiziario che sia, e validi sia per la maggioranza che per l’opposizione, perché il sentimento popolare può tollerare o sopportare qualche eccezione, ma non sopporterà nè tollererà una serie di imposizioni che intimamente non accetta, da qualunque parte provengano, e non è detto che il suo rifiuto sia incruento: vari e diversi avvenimenti storici ne sono testimoni. (Claudio Santella)(1033)

(1) Il Tempo, 19 aprile 2011-

(2) M.Nunziata: Lezioni di diritto penale, Napoli 2006 – C.Punzi: Il processo civile, sistema e problematiche, vol.I, Torino 2010-

(3) (T.Ascarelli : Problemi giuridici, vol I, Milano 1959 – S.Cotta: Giustificazione ed obbligatorietà delle norme, Milano 1981-

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