Gradoli: un ninfeo da scoprire e l’ imponente Palazzo Farnese

di DANIELA PROIETTI –

VITERBO – A vederla dall’alto, sembra grande. In realtà Gradoli al turista che la visita per la prima volta, appare come un paesino minuscolo arroccato, una volta ancora sulle colline, poste a nord ovest, che attorniano il Lago di Bolsena.

In genere, per raggiungerla, si sceglie di percorrere la strada che costeggia il lago. Parte del litorale, difatti, appartiene al comune stesso, ed è punteggiato di locali e piccoli lidi. Dal Monte Bisenzio, che fa parte del territorio della vicina Valentano, sino al confine con il comune di San Lorenzo Nuovo, il borgo con cui chiuderemo la serie di racconti di questa sezione, è possibile immergersi nelle calme acque del lago cui fa da sfondo una cornice ancora selvaggia.

Ma Gradoli, offre punti di vista molto variegati, proprio a causa della conformazione del suo territorio, che rimanda, appunto, all’origine del suo nome “gradus”, cioè passo, gradino, scalino, un po’ come la gradinata su cui sono state edificate le abitazioni.

Idee e teorie contrastano, invece, sulla sua fondazione. La presenza di alcune tombe etrusco-romane, scoperte in loc. Villa Gianni, a circa tre km dal centro abitato, starebbero a testimoniare l’esistenza dell’abitato già in quell’epoca. Nella zona del lago, inoltre, è stato trovato un ninfeo di epoca romana, non visitabile e in attesa di restauro. La scoperta ha destato grande scalpore: nonostante ciò non sono stati ancora elargiti fondi volti a finanziarne il recupero, ed è stato deciso di rinterrarlo a scopo conservativo.

Lo storico Serafino Calindri, vissuto nel XVIII sec. sosteneva che il paese fosse stato fondato dalle genti fuggite dalla città etrusca di Tiro, situata  in loc. Civita all’interno del territorio di Grotte di Castro, durante le invasioni longobarde nell’VIII sec.

Al  contrario, altri studiosi ritengono probabile che abbia avuto origine nell’alto medioevo, dopo la distruzione di Bisenzio, al pari di altre cittadine della Tuscia che, anch’esse, hanno un nome di derivazione latina.

Si narra, difatti, che gli invasori longobardi ridussero la popolazione in schiavitù, tanto che si vide costretta a fuggire andando a popolare i territori circostanti, fondando nuovi centri abitati.

In quello che viene riconosciuto come il periodo più buio della storia dell’uomo, nelle terre che ora accolgono il paese che abbiamo scelto di visitare, venne edificato un castello  dalla struttura imponente. Si dice che si potesse accedere ad esso soltanto per mezzo di una ripida scala (gradus) da cui, secondo alcuni altri storici che si occupano di toponomastica deriverebbe, appunto, il nome di Gradoli.

Le prime notizie ufficiali e documentate, si hanno nel 1113: in un atto viene per la prima volta nominato il Castrum Gradolorum, proprietà donata al Papato dalla Grancontessa, Matilde di Canossa.

Per circa cent’anni, a cavallo tra il XII e il XIII, gli Orvietani dominarono il territorio che tornò poi sotto il controllo dello Stato Pontificio. Nei secoli che seguirono fu feudo della famiglia Orsini e poi dei Farnese che lì costruirono il grandioso palazzo che stupisce chiunque si rechi in visita al piccolo borgo dell’alta Tuscia.

Questi ultimi ne furono signori per oltre due secoli, fino alla distruzione della città di Castro nel 1649, per ordine di Papa Innocenzo X, anno in cui passò nuovamente sotto il potere del papa, fino al 1871, quando entrò a far parte del Regno d’Italia.

Siamo giunti al paese in una giornata piuttosto calda della fine di questo bellissimo mese d’agosto, dopo aver superato il cimitero monumentale che guarda al lago. Il centro era affollato di persone e, alcune di loro, soprattutto anziane, sedevano ai tavoli dei bar o sulle panchine.

Abbiamo colto qualche sguardo incuriosito, forse non siamo riusciti a celare il motivo della nostra visita, tanto era l’interesse che l’alta costruzione farnesiana aveva suscitato nei nostri occhi insaziabili di bellezza, arte, storia e cultura.

Ci siamo così diretti verso l’ingresso, salendo le stradine leggermente in salita che non riescono a vedere il sole, oscurato dalle forti mura.

Il palazzo è denotato da possenti contrafforti che gli conferiscono l’aspetto di una fortezza, e questo è ciò che abbiamo creduto fin quando non abbiamo scoperto la sua origine che non era certo difensiva.

La piazza antistante la costruzione, che ospita il Comune e il Museo del Costume Farnesiano (per info bibliotecadigradoli@libero.it, tel 0761/456082), guarda a mezzogiorno: il sole fa sì che l’intonaco chiaro della facciata rinascimentale risplenda grazie al potere dei suoi potenti raggi.

Entrando nel palazzo si notano immediatamente gli alti soffitti e una tipica scala che si dirige verso il primo piano e la bellissima sala consiliare cui saremo giunti poco dopo, accompagnati dalla gentilissima Sara Guerrini, la responsabile della biblioteca e del museo, che ci ha guidati alla scoperta di un altro capitolo delle vicende della famiglia Farnese di cui, via via, stiamo facendo esperienza.

Come più volte è stato ricordato, la Tuscia ospita edifici, oserei dire, impensabili.

La storia del palazzo inizia nel 1517, quando il futuro Papa Paolo III, al tempo ancora Cardinale Alessandro Farnese, incaricò l’architetto Antonio da Sangallo il Giovane di costruire una dimora signorile come era in uso nel Rinascimento.

Il palazzo, altro non era che il dono per le nozze di Pierluigi Farnese (nato dal Cardinal Alessandro) con Gerolama Orsini di Pitigliano, da cui nacquero cinque figli.

Sembra che i Farnese, nel momento in cui si stabilirono nel territorio di Gradoli, avessero stipulato un patto con gli abitanti, promettendo di non abbattere ciò che restava dell’antica rocca medioevale.

In realtà mantennero la promessa soltanto a metà, dato che il palazzo venne costruito ex novo, utilizzando, però, le pietre dell’antico castello, tanto che per lungo tempo venne chiamato proprio “il castello”.

Sara ha ricostruito in pochi minuti quella che è stata l’origine del borgo e di come i Farnese abbiano voluto affermare la propria ascesa al potere per mezzo delle costruzioni che disseminarono nei territori circostanti. Il palazzo che ci ha ospitati, nato come punto di rappresentanza e sfoggio della potenza della famiglia, risulta essere il primo di forma e aspetto rinascimentale dell’Alta Tuscia.

La nostra preziosa guida ci ha svelato la funzione dei possenti speroni che si notano all’esterno. Alla fine dei lavori, nel 1526, non erano presenti, e la costruzione si fregiava di linee pulite in stile umanistico comuni ad altri palazzi. A causa di problemi di stabilità, la facciata nord sembrava volersi staccare da quella contrapposta ad essa, fu così necessario irrobustire la struttura per mezzo di tali elementi di fortificazione.

Al primo piano si trova la splendida Sala Ducale, oggi Sala consiliare. Interamente affrescata e con soffitto a cassettoni decorato, in linea con lo stile dell’epoca, era utilizzata dalla famiglia per feste e banchetti.

Il motivo principale delle pareti, è rappresentato dalle “grottesche”, un particolare tipo di decorazione raffigurante scene fantastiche e inusuali che erano state appena scoperte nel rinvenimento della Domus Aurea Neroniana. Gli archeologi del tempo (fine ‘400), pensando di trovarsi di fronte ad una grotta diedero alle pitture il nome con cui oggi le conosciamo.

Dopo la distruzione della città di Castro e la successiva mancanza di controllo da parte della famiglia che lo aveva fatto innalzare, il palazzo decadde fino ad essere utilizzato come granaio. Successivamente venne acquisito dai Padri Filippini che lo tennero fino all’inizio del XX secolo, cedendolo, poi, nel 1922, al Comune che ne fece una scuola. Il Salone Ducale, che sotto i Padri Filippini era un teatro, fu adibito a palestra.

 Il piano sovrastante, detto piano nobile, è il luogo in cui è situato il Salone della Loggia, oggi prima sala del Museo del Costume Farnesiano, una ricca esposizione di costumi tipici degli anni che vanno dal 1400 al 1600, riproduzioni fedeli all’iconografia farnesiana.

In questo vano, che prima era scevro della parete nord, i signori andavano a rilassarsi e a godere dell’aria fresca proveniente dal settentrione. Nella parete contrapposta sono stati affrescati gli edifici simbolo che si trovano nei paesi attorno al lago, in modo da avere una visione a 360 gradi (reale e iconografica) del paesaggio.

Dalle finestre aperte sulla facciata sud, nei giorni in cui la visione è nitida, è possibile scorgere gli edifici del capoluogo, Viterbo, distante circa 45 km. In alcuni punti delle pareti notiamo delle parti disadorne. Ci viene spiegato che i Padri Filippini fecero rimuovere  figure discinte perché reputate di cattivo gusto e, quindi, sconvenienti.

All’interno delle sale è un vero e proprio trionfo della moda, ed è tutto da scoprire, assieme alle tante curiosità in esse contenute, come le braghette, le calzamaglie suolate, l’abbigliamento intimo e da bambini.

Curiosamente i piccoli erano  vestiti tutti allo stesso modo fino ai tre anni, per poi differenziare i propri abiti a seconda del ruolo che avrebbero avuto della vita. Era possibile, così, trovarsi di fronte a piccole suore, capitani, notai o cavalieri.

In una teca in vetro, è conservata una pelliccetta che le signore usavano tenere appoggiata alla propria spalla. L’elemento non aveva soltanto una funzione decorativa. Al tempo, si pensava che il sudore prodotto potesse fungere da protezione per il derma, e quindi l’igiene era veramente scarsa anche tra gli appartenenti alle classi sociali più elevate. Non era raro che tra i capelli alloggiassero dei parassiti. La speranza che potessero preferire la pelliccetta ai capelli spingeva, pertanto, le signore ad indossarla.

Altra curiosità, sempre esposta, sono i “calcagnini”, calzature dall’altissima suola, circa 20 cm, indossate da allegre signore che  per camminare in sicurezza necessitavano di ben due accompagnatori. Non mancano, poi, copricapo, gorgiere, guanti e fazzoletti da naso e odorosi, nati allo scopo di proteggere le narici dai pungenti effluvi causati dalla mancanza di igiene che preponderava nella maggioranza della popolazione.

Nella realizzazione delle opere interne al palazzo, non è chiaro chi siano stati gli artisti guidati dalla mano esperta di Antonio da Sangallo il Giovane. Analizzando alcuni particolari, si teorizza che  siano appartenuti alla bottega romana di Raffaello, e tra i nomi papabili, riconosciamo quelli di Marco Antonio Raimondi e Agostino Veneziano.

Alle dieci e mezza, e i rintocchi del campanile si sono fatti  sentire forti. Ci siamo affacciati ad una delle finestre e ci siamo trovati dirimpetto alle enormi campane della chiesa adiacente al palazzo: la Collegiata di Santa Maria Maddalena, risalente al XII secolo e ampliata nel 1440. Fu distrutta da un incendio alla fine del XVII secolo e fu ricostruita seguendo lo stile barocco che al tempo imperava. Venne consacrata nel 1705 da Marco Antonio Barbarigo, vescovo di Montefiascone.

Usciamo dal palazzo, senza prima scoprire un’altra piccola curiosità che si dice appartenga a queste stanze: un  modo di dire piuttosto diffuso, sebbene volgare, che evitiamo, per ovvi motivi, di scrivere.

Ebbene, sembra che nelle soffitte del palazzo siano stati rinvenuti dei disegni di falli spezzati, attribuibili alla servitù che, stanca dei soprusi dei padroni, lì andava a rifugiarsi e per “sfogo” disegnava degli organi riproduttivi rotti.

Siamo usciti e ci siamo ritrovati su quello che un tempo era un cortile privato e l’ingresso cui si accedeva anche per mezzo di cavalli.

Siamo scesi per le vie del paese e ci siamo immersi  tra i 1300 abitanti, chiedendo quale fosse il piatto tipico e il vino che lo potesse accompagnare. Domanda scontata, data la fama che precede l’ottimo Aleatico, un rosso liquoroso e dolce che ben si sposa con i tozzetti, o con i cantucci toscani.

Per il piatto non avremmo avuto neanche bisogno di domandare, se soltanto avessimo fatto attenzione al cartello, posto al di fuori del negozio di alimentari situato di fronte alla bella fontana a fuso in peperino tanto simile a quelle viterbesi, che riporta la scritta “Fagioli del Purgatorio”.

E proprio il Pranzo del Purgatorio è ciò che segna la vera anima del paese, rivelando una storia che si perde nei secoli.

Tra la fine del 1600 e l’inizio del secolo successivo, anche se alcune altre fonti ne indicherebbero l’origine nel XVI sec., a Gradoli nasce l’Opera Pia per le anime del Purgatorio. Lo scopo era di aiuto e sostentamento alle famiglie bisognose.

Naturalmente la confraternita, al tempo religiosa,  era aperta soltanto agli uomini, così come oggi, eccezion fatta per il pranzo che si tiene nella giornata del mercoledì delle ceneri, cui possono partecipare anche le appartenenti al gentil sesso.

La Fratellanza del Purgatorio, come ci viene riferito da Sara, ha tutt’ora un’organizzazione di tipo militaresco, con tanto di statuto, presidente e capitani. L’assegnazione delle cariche avviene dopo regolari elezioni.

L’organizzazione del pranzo è una grande festa, un appuntamento che coinvolge il paese intero e vede la partecipazione di quasi 2000 persone. Ovviamente durante l’anno corrente, il 2020, non si è potuto svolgere a causa dei motivi legati alla diffusione del Coronavirus.

Il menù è a base di pesce e fagioli, e  gli organizzatori iniziano a cucinare attorno alle 2 di notte, anche allo scopo di poter servire i numerosissimi ospiti contemporaneamente. Il ricavato del pranzo, tolte le spese per il cibo, viene devoluto in beneficienza.

Abbiamo lasciato l’abitato di Gradoli dopo aver conosciuto Lucia all’interno dell’ufficio della Pro Loco che, oltre a fornire informazioni utili per una visita al paese e al magnifico palazzo, funge da punto rivendita degli ottimi prodotti locali (per info 0761 456810).

Come è diventata nostra tradizione, ci siamo fermati presso il forno del paese e abbiamo acquistato della calda e fragrante pizza bianca, con l’intenzione di consumarla in un posto tranquillo.

Siamo scesi con la macchina verso il litorale lacustre, disseminato di locali e bei tratti di spiaggia libera.

Faceva caldo, abbiamo deciso di bagnarci nelle calmissime acque del lago, tiepide, che tanto assomigliano a quelle contenute nel ventre materno. Poi siamo usciti, siamo andati a sdraiarci al sole, stanchi ma felici della nostra lunga giornata in terra di Tuscia.

“Forse la verità dipende da una passeggiata intorno a un lago.”

Wallace Stevens

 

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