Grotte di Castro: una struggente cartolina dal passato

di DANIELA PROIETTI –

Grotte di Castro ti sorprende. Si svela dopo una strada tortuosa ed attorniata da campi e boschi. Chissà com’era nei primi anni ’40, quando offrì riparo agli “sfollati” viterbesi che fuggivano dal terrore della guerra. Mia nonna era una di loro. Lasciò Viterbo assieme a due bambine piccolissime, mia madre e la sua sorella maggiore, e trascorse alcuni mesi ospite di alcuni benefattori.

Nel corso della sua vita  ha nominato il piccolo paesino al limitare della Tuscia moltissime volte. Forse avrebbe desiderato rivederlo, accertarsi che non fossero cambiate troppe cose e, magari, se ce l’avessimo accompagnata, avrebbe riconosciuto quegli angoli che credo siano rimasti piuttosto simili ad oramai quasi ottant’anni fa.

Siamo giunti nell’antico borgo in una calda giornata di luglio. Il sole stava risalendo il cielo, ma aveva compiuto appena la metà del suo cammino verso lo Zenith. Il lago, che avevamo da poco lasciato, era come un panno in velluto pervinca troppo grande per la superficie che era stato chiamato a ricoprire: delle minuscole onde, difatti, ne interrompevano l’uniformità.

La spiaggetta che ne segna la circonferenza e che si stende al di sotto del Monte Bisenzio, era poco popolata. Alcuni villeggianti,  che si preparavano a trascorrere una rilassante giornata sulle rive di quello che è uno dei nostri tesori, il Lago di Bolsena, erano intenti nel sistemare lettini, asciugamani, tavoli e sedie.

Numerosi piccoli locali, assicurano i servizi di ristorazione e assistenza bagnanti.

In posizione speculare rispetto ad essi, molte stradine, quasi tutte sterrate, salgono verso la carreggiata che collega alcuni centri presenti nel territorio a settentrione del lago.

Un bivio, che segue una bellissima vigna con i filari abbelliti da piante di rosa, segna la via che abbiamo percorso.

Sulla strada, sul lato sinistro, si apre la Necropoli delle Centocamere, la cui denominazione fa riferimento alle numerose strutture funerarie collegate tra loro da un complesso sistema di fori e cunicoli realizzati in seguito da persone non autorizzate per muoversi con fluidità da una tomba all’altra. Tali ambienti, scavati nella roccia tufacea che caratterizza il territorio, sono disposti su tre ordini e contano oltre cinquanta tombe con deposizioni plurime. Situata di fronte alla piccola pianura che comprendeva Civita, ultima città dell’orvietano, terra di confine fino ai tempi del Ducato di Castro, rappresenta il secondo, ma soltanto per motivi cronologici, nucleo della necropoli di Grotte di Castro dopo il più antico di Vigna la Piazza. Le tombe sembrano risalire al VII secolo a.C.

Durante gli scavi è stato scoperto, in maniera del tutto inaspettata, un tratto dell’antico sentiero che gli Etruschi erano soliti percorrere durante i funerali. Anche adesso  il percorso nel bosco di Centocamere è piuttosto impervio, i nostri lontani antenati, allo scopo di oltrepassare i punti più difficili, intagliavano nel tufo una serie di gradini, di cui è testimonianza una delle stanze funerarie. All’interno delle stesse, secoli dopo, in epoca medioevale, vennero realizzati i “colombai”,  luoghi adibiti all’allevamento di volatili.

Dopo un’opera di risistemazione, sono state aperte  al pubblico (per info e prenotazioni:
Tel. 0763797173 / 0763796983 museo@novacastrum.it bibliotecagrotte@libero.it   o sito del comune di Grotte di Castro  https://www.comune.grottedicastro.vt.it/ . Il biglietto unico d’ingresso al museo e alle necropoli, ha un costo di 5 euro).

Una folta vegetazione, nonostante ci trovassimo nella stagione calda, ci ha guidati fino all’abitato. Il paese, arroccato su uno sperone tufaceo, materiale con il quale sono state edificate le abitazioni, ha mantenuto le caratteristiche del borgo antico. La sua visione è decisamente suggestiva e l’immagine che restituisce evoca un passato che non è riuscito a trasformarsi in presente.

Abbiamo parcheggiato la nostra automobile sulla piazza in cui è ubicato il Palazzo Comunale,  eretto su progetto dell’architetto manierista  Jacopo Barozzi, detto il Vignola, nel XVI secolo. La particolarità dell’edificio  è una bella scala doppia, a due rampe, posta sulla facciata.

Ci siamo spostati verso la parte centrale di Grotte di Castro, superando un piccolo tunnel, e ci si è rivelata la vivacità di una cittadina di poco più di 2500 abitanti.

C’era il mercato. La via principale era intervallata da numerose bancarelle di frutta e verdura, di vestiario, di tessuti da staccare. C’era il furgoncino che vendeva la sublime porchetta di Ariccia, che infondeva per le vie il suo pungente e penetrante profumo e che ha portato il pensiero alla fragranza del pane fresco in cui vengono dolcemente alloggiate le tenere carni e sul quale si sparge il loro succo saporito, in grado di far sì che si spezzino anche le più rigide promesse.

La prima riflessione che ci siamo trovati a fare è quanto Grotte di Castro abbia confermato le peculiarità del piccolo centro e quanto sia ancora vivo lo spirito dei suoi abitanti. Girando per la provincia, troppe volte ci è capitato di osservare con rassegnata malinconia lo spopolamento di alcuni borghi e il loro essere semideserti.

La vivacità che abbiamo avuto modo di constatare, visitando il comune in questione, è stata per noi una sorpresa, e quel clima positivo ci ha invogliati a conoscerne la storia, tanto che abbiamo sentito la necessità di fare quattro chiacchiere con i residenti.

“Grotte di Castro, durante il Periodo Etrusco, assunse una notevole importanza. Ad est di quello che è l’odierno paese, si trova un’altura vulcanica che conserva nel proprio nome la memoria dell’antico centro “Civita”, che godette di buona fama nei secoli VIII e VII a.C., questo è possibile desumerlo dal ritrovamento delle vaste necropoli. Civita, subì le conseguenze dell’espansionismo romano ma nonostante questo sopravvisse, sebbene in tono minore. L’abitato rimase deserto nel VII secolo d.C.

In quel periodo, il territorio venne invaso e devastato durante gli assalti dei Longobardi: i superstiti della Civita, si trasferirono così nella vicina e sicura rupe su cui è attualmente alloggiato il paese e, durante il primo periodo, si adattarono a vivere in grotte scavate nella roccia tufacea, di qui il nome “Castrum Cryptarum”. Il nome attuale, Grotte, apparve soltanto alla fine dell’ XI secolo, e precisamente nel 1077,  sull’atto di donazione, con il quale cedette parte dei territori della Tuscia,  che la Contessa Matilde di Canossa fece alla Chiesa.

Oltre un secolo dopo, il paese venne sottoposto alla vicina Orvieto, che mise in atto un’opera di fortificazione nel sistema difensivo, cingendolo con mura.

Grotte, attraversò secoli di battaglie prima di entrare a far parte, nel XVI secolo, sotto Pier Luigi Farnese, del Ducato di Castro.

Furono anni di pace e serenità ma, nel 1649, la città di Castro venne distrutta per volere di Innocenzo X. Da quel momento Grotte tornò sotto il dominio diretto dello Stato Pontificio, da cui uscì nel momento in cui fu sancita l’Unità d’Italia.”

Questa, in breve, è la spina dorsale temporale di quello che è oggi questo comune all’estremo nord di Viterbo, amministrato dal 2009 dal Sindaco Piero Camilli, ex presidente della U.S. Viterbese 1908 che, durante il periodo della sua presidenza, assunse il nome di Viterbese Castrense.

Passeggiare per le contrade del paese, è nutrire gli occhi di scorci incantevoli e romantici, che celano nomi altrettanto  pittoreschi e ispirati a fiori, o a personaggi del passato come quello della famiglia dei Pazzi, i cui membri animarono  in Firenze la celebre “congiura”  e che, avendo la peggio, subirono, oltre alla somma pena di essere impiccati alle finestre di Palazzo Vecchio, l’onta della cancellazione dalla città di ogni simbolo o iscrizione che riportasse il loro nome.

Mentre scendevamo verso la parte bassa del paese, siamo stati attratti da un forte odore acidulo proveniente da un locale a piano terra. La porta, semiaperta, ha svelato un’utilitaria bianca. A giudicare dalla targa avrebbe dovuto avere circa 42 anni, in realtà crediamo sia più vecchia, visto che nel 1978, la Fiat non produceva più la 500, quella magnifica vettura che alla fine degli anni ’50 cambiò le abitudini delle famiglie italiane. Abbiamo scattato una foto a quella magnifica cartolina del tempo che fu, e ci siamo fermati a scambiare qualche parola con il suo proprietario, che è stato ben felice di raccontarci qualche aneddoto e singolarità sul proprio paese natio.

Avevamo fretta di congedarci dal “signore della 500” : non gli abbiamo chiesto il nome, era intento nell’arte di travasare l’aceto di cui ci era giunto il sentore alcuni minuti prima, e non volevamo sottrarre la sua attenzione al lavoro che stava svolgendo.

Dalle sue parole abbiamo saputo che le case che ci trovavamo ad ammirare erano prive di fondamenta e poggiate sulla roccia. Ci ha mostrato la bellezza di Palazzo Cordelli e il Vicolo dei Pazzi, segnalato da una targa floreale. Ci ha parlato della tragica fine della città di Castro e di come i Farnese, signori assoluti della zona, non avessero mai avuto alcuna proprietà nel borgo.

Siamo venuti a conoscenza dell’uccisione di tre garibaldini che, secondo il racconto del nostro interlocutore, fece classificare da Nino Bixio, durante una seduta in Senato,  i suoi antichi concittadini come “bastardi” “quei bastardi del Castrum Cryptarum”, mai si seppe chi furono “non si sa chi” (sempre secondo quello che fu uno dei maggiori protagonisti del Risorgimento). Da ciò che si narra questo vile atto costò la non menzione del comune sulle carte fino ad alcuni decenni fa.

Abbiamo continuato il nostro cammino verso la chiesa principale, la Basilica  Minore di Santa Maria del Suffragio.

L’ultimo lembo dello sperone su cui si erge Grotte di Castro, ospita la bella chiesa seicentesca, separata dalla piazza da una bassa scalinata che è, ovviamente, nello stile dell’epoca: il Barocco.

Per conoscere a fondo la storia della basilica, pensavamo di dover far ricorso a internet o ai cartelli contenenti spiegazioni che, solitamente, si trovano all’interno degli edifici sacri ma, per nostra fortuna, abbiamo incontrato un signore molto cortese che ci ha accompagnati alla scoperta delle vicende che hanno percorso il paese nel corso dei secoli.

“Peppe il Capoccia”, un nome ereditato dal padre e grottano doc, così ci si è presentato.

Il signor Peppe ci ha guidati tra papi e signori, guerrieri e santi,  famiglie potenti e genti umili. Ha citato Dante, Pascoli e Trilussa. Ha declamato menzioni latine e strofe appartenenti ai più noti poemi. Ha illustrato la vita di personaggi storici e letterari, dando la sua interpretazione al loro modo di agire e di stare al mondo. Non ha mancato di essere galante, dedicandomi, mi sia concesso riportarlo, dei magnifici versi che hanno omaggiato la bellezza e la grazia che appartengono al genere femminile.

Ci ha narrato, come soltanto un profondo e appassionato conoscitore avrebbe saputo fare, l’origine del paese e il perché del suo nome, passando dai saccheggi romani di quello che fu un centro etrusco, alle successive invasioni dei Longobardi che “scesero ad invadere le nostre belle e  ricche contrade” come affermò Francesco Petrarca. E così, i pochi superstiti (che vivevano nella collina a sud del centro laziale, e che non andarono verso la zona di San Lorenzo Nuovo) che scamparono alle violenze, dopo aver attraversato quella strettoia ad imbuto che assunse il nome di “Valle degli urli” , si stabilirono in quelle cripte che altro non erano che tombe etrusche, e lì vissero per secoli.

Un solo papa ha visitato Grotte di Castro in oltre 2000 anni di Cristianità: Papa Pio II Piccolomini. Senese, nel 1462 si ritrovò a passare per caso. Da Roma si stava dirigendo a Pienza. Aveva assistito ad una gara di barche in cui si sfidavano i paesi rivieraschi (secondo le cronache la squadra grottana ebbe la peggio) ed aveva fatto visita, il 24 giugno, nella giornata in cui si santifica San Giovanni Battista, ai  frati minori che si trovavano sull’Isola Bisentina.  Papa Pio II, nei suoi Commentarii, scritti in un raffinatissimo latino, cita “gli Oppidani, che vivono ancora nelle grotte scavate nel tufo”.

Al nome del paese, non era ancora stata data la specifica “di Castro”, che fu aggiunta il 30 ottobre del 1537 con la bolla di Papa Paolo III Farnese, nato a Canino.

Il signor Peppe ci ha svelato che sotto il pavimento della basilica, oltre ad esserci un labirinto di piccoli ambienti, che costituivano il cimitero (fino al 1870, data in cui venne scavata una fossa comune fuori il paese, sostituita 10 anni dopo dal nuovo cimitero), esiste un museo, ora chiuso, in cui sono contenuti paramenti sacri, pergamene antiche, reliquari e oggetti appartenenti a Pio IX. Vi è anche un la mummia di una giovane, probabilmente di buona famiglia, perfettamente conservata e vestita in eleganti abiti.

Ma il cuore della chiesa è costituito dalla statua lignea della Madonna del Suffragio, scolpita da un autore sconosciuto nel 1616 e coperta da una tenda dal 1728, anno in cui venne incoronata.  La Vergine viene scoperta soltanto in rare occasioni, sebbene dall’8 marzo del 2020, a causa della presenza del virus in cui ci stiamo imbattendo, è rivelata al pubblico.

Il culto della Madonna, venne introdotto da un cappuccino di Ronciglione  che andò a predicare in paese e, facendo proselitismo, indusse gli abitanti alla devozione mariana.

Si racconta che la statua venne trasportata sul lago e i cittadini, smaniosi di accoglierla, si affrettarono a vederla. Un gran numero di persone si ammassò e, malauguratamente, molte di loro caddero dal dirupo. Per intercessione della Madonna, nessuno riportò ferite. Maria, da quel giorno, è venerata e celebrata con una lenta discesa dal sito in cui è allocata.

Peppe il Capoccia, ci saluta e, ansioso di mostrarci una volta ancora le ricchezze del luogo che lo ha visto nascere e farsi maturo, ci chiama dal suo balconcino che guarda allo splendore del Lago di Bolsena e dei maestosi paesaggi che lo incorniciano.

Siamo saliti per vicoli e ci siamo recati alla Biblioteca Comunale, dove attendeva la gentilissima signora Maria Flavia che ci ha illustrato l’importanza del centro etrusco e ci ha svelato l’unicità delle sepolture a circolo, uniche nella zona. Per cercarla, eravamo passati dal  Museo Civita, che occupa l’imponente Palazzo Vignola, eretto nel XVI secolo, che ospita la particolare scala elicoidale.

Si era fatto tardi, abbiamo salutato e rivolto un sincero ringraziamento a chi ci ha ospitati ed informati. Abbiamo cercato un posto per mangiare. Il nostro è stato un pasto a base di Pici all’Ajone e patate di Grotte, prodotto doc.

Abbiamo trascorso un tempo limitato in questa terra antica, ma abbiamo attraversato secoli di storia, quella storia che, sempre, ci fa essere orgogliosi di essere nati nella Tuscia.

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