Il ritardo del Lazio nelle alternative alla detenzione

In cima alle preoccupazioni dei detenuti, prima ancora delle classiche domande sull’assistenza sanitaria e sui trasferimenti, c’è la speranza della libertà, o almeno di un suo parziale recupero, nelle forme delle misure alternative alla detenzione. E ne hanno ben donde.

Secondo i dati forniti dall’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna competente per le Regioni Lazio, Abruzzo e Molise, al 31 maggio 2023 erano in esecuzione, nel territorio regionale, 4.624 misure penali non detentive, distinte tra 2.497 tradizionali misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà) dal carcere o dalla libertà, a fine pena o per pene minori, 321 misure di sicurezza (libertà vigilata), 290 sanzioni di comunità (lavori di pubblica utilità previsti dal codice della strada e dalla legislazione sugli stupefacenti), 2 sanzioni sostitutive (libertà controllata) e 1.514 misure di comunità (messa alla prova processuale).

Raffrontando i dati regionali con quelli nazionali emergono alcune significative differenze che meritano di essere evidenziate. Il complesso delle misure penali non detentive (ivi comprese quelle processuali della messa alla prova) a livello nazionale raggiunge la ragguardevole cifra di 81.108, a fronte di 57.230 detenuti. Le misure penali esterne costituiscono dunque il 59% delle misure penali in esecuzione, a testimonianza di una inversione di tendenza secondo cui la pena detentiva è diventata “minoritaria” nel campo dell’esecuzione penale (anche se, purtroppo, non attraverso la sua riduzione quantitativa, ma per la enorme crescita delle misure esterne).

Nel Lazio, invece, essendo in pari data 6.068 le persone detenute, le misure penali esterne costituivano il 43% del totale delle misure penali in esecuzione. Se al complesso delle misure penali esterne sottraiamo quelle di messa alla prova processuale, e tra i detenuti consideriamo solo quelli in esecuzione di una pena ormai definitivamente inflitta, il confronto conferma (al ribasso) le differenze: in Italia il 57% dei condannati in via definitiva è in esecuzione penale esterna, mentre nel Lazio solo il 41,28% dei condannati è in alternativa al carcere.

Certamente nel raffronto con la media nazionale pesa il contesto territoriale, le opportunità (abitative, occupazionali, di volontariato) che regioni più ricche offrono al reinserimento dei detenuti o alle alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena, ma questo non esime gli attori istituzionali locali dalle proprie responsabilità: la Regione e gli Enti locali da una efficace programmazione dei servizi sociali e di inclusione a beneficio delle persone condannate, l’Amministrazione penitenziaria e gli uffici dell’esecuzione penale esterna da una sollecita definizione dei programmi trattamentali per l’esecuzione penale esterna, la magistratura di sorveglianza da una interpretazione della legislazione ispirata al principio del carcere come extrema ratio, e quindi delle misure penali di comunità come prima scelta, dalla libertà così come alla fine della pena.

Ogni pena che si conclude in carcere – con il sacco dell’immondizia condominiale che i detenuti si portano dietro, varcandone il portone a fine pena – è una sconfitta dello Stato, di tutte le istituzioni che non sono state capaci di costruire efficaci percorsi di reinserimento sociale, mettendo in conto la probabile recidiva che ne verrà. Ricordiamocene.

 Stefano Anastasìa

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