Il sogno che porta nella citta’ scomparsa di Castro

di DANIELA PROIETTI-

Ho fatto un sogno. Non avrei mai voluto svegliarmi. Qualcuno mi stava tenendo la mano.

La mia era gelida, sembrava anche più sottile, quasi gracile, per quanto le temperature fossero basse; la sua mano no… era calda, forte, ruvida.

Il vento batteva il pianoro con forza. Non ci aveva abbandonati neanche un attimo, sin dalla nostra partenza.

Ancora una volta, il lago. Stavolta increspato, quasi inquieto, con la schiuma che dipingeva linee ondulate e irregolari sulla vasta superficie. Un’immagine lontana da quella che siamo abituati a vedere durante la bella stagione.

Lo abbiamo oltrepassato, siamo saliti in alto, lasciandocelo alle spalle. Abbiamo virato verso le campagne della Maremma, verso quei colli boscosi all’interno dei quali si nascondevano e dimoravano, oramai abbondantemente oltre un secolo fa, i briganti.

Siamo ridiscesi lungo la strada che guarda ai borghi di Farnese e Ischia di Castro, che tanti ricordi suscitano in noi.

Dopo un po’ di chilometri, nessun segnale di presenza umana a interrompere la quiete di quella gelida e inaspettata giornata di vacanza.

Le ruote della macchina facevano presa sul terreno quasi immacolato. Nessun posto in cui arrestare il motore, soltanto una piccolissima piazzola che ci ha permesso di accostare.

Le spinte del vento hanno accelerato il nostro passo che, già di per sé esprimeva l’impazienza e la bramosia che ci morde ogni qualvolta abbiamo dinanzi un luogo da visitare.

In questo caso la curiosità e il desiderio si facevano ancor più intensi man mano che ci avvicinavamo all’anelata meta.

Stipiti in travertino

Il sito archeologico di Castro, era completamente deserto. Impossibile immaginare una condizione diversa dato l’orario e la giornata feriale.

Non eravamo soli, una presenza innocente e fedele ci accompagnava, andando in avanscoperta per noi.

La stradina sterrata che si insinua in maniera curvilinea e segna il passaggio nel mezzo della lieve vallata, ci ha condotti a quella che venne progettata come città ideale e che fu capitale, per circa un secolo, del Ducato di Castro.

Interamente compresa nel comune di Ischia di Castro, essa sorgeva su uno sperone tufaceo, delimitato e protetto sui due lati da corsi d’acqua: l’Olpeta (affluente del Fiora) e il Fosso delle Monache.

In realtà, potrebbe essere anche definita anche come città che visse due volte e che morì, umiliata e definitivamente, nella metà del XVII secolo.

Abbiamo atteso un po’ prima di entrare, cercando di tornare indietro di quasi mezzo millennio, fino al riconoscimento della nuova città rinascimentale e tralasciando l’epoca in cui vi si insediarono i nostri antenati, gli Etruschi.

Nel 1537, per volere di Papa Paolo III Farnese divenne capitale dell’omonimo Ducato. L’estensione del territorio, andava dalle attuali Grotte di Castro  a Montalto di Castro, per arrivare sino a Marta, escludendo Tuscania.

La città di Castro, vestendo il ruolo di capitale, divenne residenza dell’aristocrazia e di tutta la corte ducale. Va da sé che uno dei migliori architetti del tempo, ingaggiato per molteplici opere che hanno impreziosito di palazzi e monumenti  i nostri centri storici, Antonio  da Sangallo il Giovane, si occupò della sua progettazione e ristrutturazione.

La folta vegetazione è divenuta il tetto sotto il quale abbiamo camminato per un tempo abbastanza lungo, e un tappeto di foglie ha accolto i nostri passi che muovevano verso una lieve salita.

Le vie della città

In un primo momento, una tepida delusione ha avvolto i miei pensieri, nella convinzione che avrei goduto di ben poche visioni.

La città, com’è noto, venne rasa al suolo dalle truppe pontificie di Innocenzo X nel 1649, a seguito della crisi culminante tra la Famiglia Farnese e lo Stato Pontificio.

Il Duca Ranuccio II, che si era opposto alla nomina di Cristoforo Giarda, barnabita, quale nuovo vescovo di Castro, venne accusato dell’uccisione di quest’ultimo in terra di Monterosi, il 19 di luglio del 1649, mentre si spostava verso la nuova sede.

Il papa ordinò così di invadere la capitale del ducato dei Farnese, che capitolò dopo neanche un mese e mezzo.

I patti di resa prevedevano soltanto lo smantellamento delle fortificazioni cittadine ma, nel dicembre dello stesso anno, dopo aver ordinato l’evacuazione della totalità degli abitanti, il capo supremo della Chiesa diede ordine di distruggere totalmente ogni edificio, compresi anche le chiese e i luoghi sacri.

Alcuni elementi di essa vivono ancora, tra queste le campane del Duomo che vennero trasferite, per volere di Donna Olimpia Maidalchini, nella Chiesa di Sant’Agnese in Agone, collocata nella celebre Piazza Navona, a Roma.

Dopo la scomparsa di Castro, la sede della capitale venne trasferita nella vicina Valentano, mentre quella vescovile e l’archivio diocesano ad Acquapendente.

Andando avanti, abbiamo iniziato timidamente a scorgere i primi resti di quella che fu un gioiello dell’architettura, raccontato dal grande letterato Annibal Caro, che fu testimone diretto delle magnificenze della città avendola visitata a seguito dei duchi.  Altre informazioni sono state tratte dai disegni dello stesso architetto che la progettò (essi sono conservati presso gli Uffizi di Firenze) e dalle relazioni che seguirono le visite pastorali compiute dai vescovi di Castro.

Degli stipiti in travertino,  hanno attratto la nostra vista; il bianco del marmo, con cui vennero innalzati i tanti edifici e monumenti dell’Urbe, spiccavano sul manto composto di foglie secche.

Un paio di insegne metalliche indicavano quelli che furono il Duomo di San Savino e la Piazza Maggiore.

L’area in cui insisteva il Duomo, è piuttosto ampia. Abbiamo raggiunto quella che era la parte centrale della chiesa, misurando con gli occhi le estremità della stessa e cercando di percepirne le antiche forme seguendo le linee della navata e del transetto.

L’edificio sacro occupava la Piazza del Vescovado e venne costruito durante il XIII secolo. Dallo studio di alcune planimetrie seicentesche sono stati individuati tutti i tratti architettonici e definiti i materiali presenti e la specificità degli elementi, alcuni dei quali conservati presso il museo di Ischia di Castro.

I resti di Piazza Maggiore

Ci siamo mossi per viottoli, su resti di pavimentazione, fino a giungere alla piazza in cui venne eretto il Palazzo della Zecca.

Castro, batteva moneta.

Lo stabile fu costruito su disegno del Sangallo sul lato nord est della piazza, ed era connotato da grandi dimensioni. Raggiungeva, difatti, quasi i nove metri di lunghezza e i diciassette di altezza. Come modello venne utilizzata la cinquecentesca Zecca di Roma.

Nell’elegante edificio furono coniate monete a partire dal 1537, anno in cui Pier Luigi Farnese, figlio di papa Paolo III, divenne Duca di Castro.  La produzione delle monete fu sospesa, però, dopo soltanto un decennio. Difatti, attorno al 1546, gli interessi della casata si spostarono sul Ducato di Parma e Piacenza, acquisito nello stesso anno.

La moneta di maggior valore era lo Scudo d’oro, seguito dal Paolo, dal Grosso, dal Baiocco, dal Baiocchetto d’argento e dal Quattrino in rame. Sulle monete erano rappresentati diversi simboli e, tra questi, una croce con quattro gigli, un liocorno, lo stemma del Ducato o l’effigie di San Savino, protettore della città.

Ci siamo poi diretti, nel freddo portato dal vento battente, verso Piazza Maggiore, naturalmente la più ampia della città, i cui due lati misuravano sessantacinque e venti metri. Lo stupore ci ha assaliti al pensiero di calpestare la pavimentazione originale, realizzata in mattoncini posti a spina di pesce, la quale, al tempo ricopriva quello che era il centro vitale di Castro.

Abbiamo scoperto che essa godeva di un sistema fognario talmente perfezionato che non poteva essere vantato neanche da una città evoluta come Parigi.

Tra i tanti palazzi che si affacciavano sulla piazza, oltre al già citato della Zecca, il Palazzo Sassuolo, il Palazzo di J. Garonto, il Palazzo del Podestà, l’Hostaria e il Palazzo di Scaramuccia. Anche il pozzo principale era situato in essa, assieme al monumento di Giovanni Serangeli.

Adiacenti all’edificio che ospitava l’Hostaria, vi erano la Casa di Capitan Meo e dieci botteghe, gestite dalla comunità ebraica, chiamata da Pier Luigi Farnese allo scopo di sollevare l’economia della città.

Le botteghe appartenevano a diversi generi, e vi era anche un banco di prestito.

Il portico sotto il quale erano collocate le botteghe, apriva anche a un vero e proprio albergo che ospitò diversi membri della corte ducale e il Papa stesso.

Da quello che era il luogo in cui pullulava la vita, ci siamo spostati verso la zona meno centrale, più distaccata, percorrendo una lunga distanza.

Lungo il nostro cammino abbiamo incontrato quelli che dovevano essere dei magazzini in cui venivano riposti viveri e ziri contenenti olio, praticamente delle anfore scavate direttamente nel terreno.

Abbiamo oltrepassato un ponticello in legno e abbiamo visto, scavate nel tufo, alcune tombe, dalla probabile origine etrusca.

Resti di tombe etrusche

Piuttosto distante, le rovine di un’altra chiesa, anch’essa progettata dal Sangallo: la Chiesa di San Francesco, per la quale è previsto un piano di recupero.

Di lì, abbiamo iniziato la risalita, costeggiando quella che era la difesa naturale della città: il lungo costone roccioso su cui si affaccia.

L’intensità del sogno, in quel momento, si faceva ancora più forte, trasportandomi in un limbo dal quale non sarei voluta mai andarmene.

Il vento, sempre più irato, ci schiaffeggiava, forse consapevole delle pecche dell’animo umano e precursore del velo che, di lì a poco, sarebbe calato a offuscare e imbruttire una certezza fino ad allora lucente.

Nonostante le basse temperature, le membra si erano scaldate per via della lunga e veloce camminata.

Pian piano ci siamo lasciati la città scomparsa alle spalle, raggiungendo la calma della nostra automobile.

Ci siamo messi di nuovo in viaggio, alla ricerca delle splendide cascate appartenenti, stavolta, al comune di Farnese.

Le Cascate del Salambrone

Le Cascate del Salambrone, poste nella rigogliosa Selva del Lamone, offrono una visione che apre il cuore. La zona è particolarmente ricca di acque, tanto che poco distante vi è un altro sito interessantissimo.

Accanto alle cascate, un modesto edificio, probabilmente un mulino ora non più in uso.

Ci siamo fermati su una piccola roccia, che per qualche minuto è stata la nostra poltrona, e abbiamo fatto colazione, mentre l’acqua, fredda e limpidissima, scrosciava rumorosamente.

Sulla strada del ritorno abbiamo deciso di puntare verso Farnese e scaldarci con un buon the nel bar del paese, quello che, in estate, produce uno dei gelati più buoni della provincia.

All’interno del bar, alcuni farnesani, con i quali è stato piacevole scambiare quattro chiacchiere sugli argomenti ricorrenti.

Siamo poi saliti nel Palazzo del Municipio e abbiamo ammirato un bellissimo dipinto raffigurante il borgo.

L’antica Farnese

Ancora una volta, il fascino di questo lembo di terra confinante con la Toscana ci ha conquistati.

Ce lo siamo lasciati alle spalle, percorrendo, al contrario, la strada che ci aveva portato in quel sogno che, purtroppo, era destinato a interrompersi e a riportarci a una realtà che non riesco a farmi piacere.

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