di CINZIA DICHIARA-
ROMA- Un Simon Boccanegra vocalmente ottimo e scenicamente minimalista ha inaugurato lo scorso 27 novembre la nuova stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma con repliche sino al 5 dicembre.
Sotto la direzione del premio Abbiati 2017 Michele Mariotti, direttore musicale del Costanzi, e con la regia del pluripremiato regista britannico Richard Jones, già apprezzato dal pubblico capitolino ne La dama di picche di Pëtr Il’ič Čajkovskij e in Káťa Kabanová di Leoš Janáček, il Coro dell’Opera diretto da Ciro Visco, il baritono Luca Salsi e il soprano Eleonora Buratto, l’uno nel ruolo del titolo, l’altra nel ruolo di Maria Boccanegra, hanno dato vita a questo dramma sulla storia del primo doge di Genova, insieme con Michele Pertusi egregio interprete del personaggio di Jacopo Fiesco che il basso ha rivestito più volte tra Vienna e l’Italia, e il tenore rumeno Stefan Pop, bravo interprete del personaggio di Gabriele Adorno.
L’allestimento scenografico a cura di Antony McDonald autore anche dei costumi, asseconda l’indirizzo della regia, ispirata, come ha dichiarato lo stesso Jones, a «visioni metafisiche che raccontano la solitudine, la malinconia, la nostalgia, con le luci ben studiate di Adam Silverman, mentre i movimenti mimici sono stati diretti da Sarah Kate Fahie in collaborazione col maestro d’armi Renzo Musumeci Greco.
Simon Boccanegra è un Melodramma in un Prologo e tre Atti, composto da Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), tratto dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García-Gutiérrez, su Libretto di Francesco Maria Piave (Murano, 18 maggio 1810 – Milano, 5 marzo 1876), rappresentato per la prima volta a Venezia, presso il Teatro La Fenice, il 12 marzo 1857, con aggiunte e modifiche di Arrigo Boito (Padova, 24 febbraio 1842 – Milano, 10 giugno 1918) in una seconda versione, ripensamento dopo il fiasco iniziale, data a Milano presso il Teatro alla Scala molti anni dopo, il 24 marzo 1881.
La vicenda è ambientata a Genova e nei dintorni. Il prologo si svolge nel 1339 e i tre atti nel 1363.
Una storia di Intrighi politici, tra bramosia di potere e aspri conflitti di classe, con personaggi dalle passioni irrisolte che attraversano la crisi di un sistema politico del XIV secolo, al centro un uomo giunto e essere da corsaro a doge, diviso tra vita pubblica e privata, tra doveri istituzionali e amore paterno verso la figlia Amelia, avuta da Maria, defunta figlia del suo nemico Jacopo Fiesco, che ha fatto sparire la nipotina, nascondendola.
Nel I Atto è già passato un quarto di secolo da tali avvenimenti, Amelia vissuta in orfanatrofio è ora amata da Gabriele Adorno ma Simon Boccanegra, che nel frattempo ha riconosciuto in lei la propria figlia grazie al medaglione che la giovane indossa al collo col ritratto di Maria, vorrebbe darla in sposa al fido Paolo. Da qui ha inizio una serie di intrighi, sospetti, trame segrete e rivelazioni, accuse e tradimenti con maledizioni, che vedono Simone oggetto di tentativi di uccisione, fino al III Atto, nel Palazzo Ducale, allorquando si compie il clou della vicenda con il fallimento di una rivolta contro il doge. Prima di morire avvelenato da Paolo frattanto condotto al patibolo, questi fa in tempo a invitare la giovane figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno e a benedirne le nozze con Gabriele, proclamandolo nuovo doge di Genova.
Michele Mariotti conosce molto bene questo melodramma che ha diretto per la prima volta ventottenne e al quale è tornato oggi dopo diciassette anni. La sua visione interpretativa del protagonista verdiano è tutta incentrata sul concetto di solitudine del doge, entro il quadro politico di spietati contrasti di classe, lacerato tra la propria natura di uomo di mare che desiderava seguire la primigenia indole corsara e navigare liberamente e il destino di uomo egemone di una repubblica marinara, un uomo solo, mentre il popolo ora lo acclama, ora lo lascia al suo pianto, come nel feroce scontro tra patrizi e plebei, nel violento finale del I Atto, cui mette fine soltanto il suo appello accorato con l’implorazione di ‘pace’ e ‘amore’.
La direzione è in alcuni tratti commovente. Mariotti, inoltre, in questo momento ha appena perso suo padre, fondatore del festival Rossini di Pesaro. E ora si avvia a divenire una gloria italiana nel mondo, essendo regolarmente ospite dei principali teatri, dalla Deutsche Oper Berlin al Festival di Salisburg, dalla Wiener Staatsoper alla Royal Opera House e al MET di New York.
La sua bacchetta, al servizio del concetto di interpretazione, evidenzia due aspetti fondamentali di Verdi: da un lato il sentimento nobile degli ideali e dell’umano sentire, dall’altro la teatralità di tipo ‘risorgimentale’ che ricorre quale carattere di fondo in tutte le opere del compositore, imprinting dello stile al di là dell’ambientazione, che il direttore pesarese ama valorizzare senza alcuna retorica, nei timbri strumentali, in alternanza con sfumature sensibilissime o in impasto sonoro ben amalgamato, nei ritmi, nelle ombreggiature, nelle campate d’insieme, unitamente a una teatralità intrisa di passione ma anche di spiritualità, di vibrante dolcezza o di veemente ribellione, soprattutto di accorata malinconia, di dolore, intimo e soverchiante, col risultato di una toccante autenticità.
La regia, ricca espressivamente sul piano della concezione drammaturgica e invece essenziale e moderna nell’organizzazione scenica, si cala in modo molto efficace in un contesto che occhieggia apertamente alla spazialità di De Chirico con effetto suggestivo, il mare appena evocato da singoli dettagli, scabra la scogliera di massi inerti, il faro elemento totemico tra le tinte scure del paesaggio.
Il cast di conseguenza è abbigliato in modo essenziale e moderno, con particolare rilievo dato ai costumi d’epoca dei membri del Gran consiglio e alla figura del doge, distinto per il suo potere, in un mantello regale con ermellino.
I solisti dimostrano capacità attoriali apprezzabilissime, oltre alla bella e piena vocalità verdiana, stentorea e screziata come il ruolo richiede quella di Salsi, ben tornita e piena quella della Buratto.
Il Duetto di Simone e Fiesco nel finale dell’opera è una celebrazione di alti sentimenti tra due ormai anziani rivali che ritrovano la pace dopo essersi sempre combattuti. Tocca il punto più commovente quando Fiesco pronuncia il suo pentimento, resosi conto dell’inutilità di tanto odio: “Piango, perché mi parla in te del ciel la voce; sento rampogna atroce fin nella tua pietà”, mentre Simone risponde: “Vien, ch’io ti stringa al petto, o padre di Maria; balsamo all’alma mia il tuo perdon sarà”, prima che la sua anima inquieta trovi pace per sempre.
Teatro dell’Opera di Roma, fino al 5 dicembre 2024
Simon Boccanegra, Melodramma in un Prologo e tre Atti
Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Durata: circa 3 ore: 80′ – intervallo 30′ – 60′ minuti
Direttore Michele Mariotti, Regia di Richard Jones, Maestro del Coro Ciro Visco
Scene e costumi Antony McDonald, Luci Adam Silverman, Coreografia per i movimenti mimici Sarah Kate Fahie, Maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
PERSONAGGI INTERPRETI
Simon Boccanegra Luca Salsi / Claudio Sgura 29 nov, 1, 4 dic
Maria Boccanegra (Amelia) Eleonora Buratto/ Maria Motolygina 29 nov, 1, 4 dic
Jacopo Fiesco Michele Pertusi / Riccardo Zanellato 29 nov, 1, 4 dic
Gabriele Adorno Stefan Pop/ Anthony Ciaramitaro 29 nov, 1, 4 dic
Paolo Albiani Gevorg Hakobyan
Pietro Luciano Leoni
Ancella di Amelia Angela Nicoli / Caterina D’Angelo 29 nov, 1, 4 dic
Capitano dei balestrieri Michael Alfonsi / Enrico Porcarelli 29 nov, 1, 4 dic
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Foto, fonte: pagina Facebook del Teatro dell’Opera di Roma