“La Divina Commedia ovvero la coscienza dell’infinito”

Riproponiamo ai nostri lettori, in occasione della giornata di oggi del Dantedì, l’articolo di Biagio Lauritano su Dante Alighieri.

La Divina Commedia è la storia di un viaggio immaginario, compiuto nell’aldilà da un uomo vivo per conoscere la condizione degli uomini dopo la morte. È Dante quell’uomo ed è anche lui il narratore di quel viaggio, in un lungo poema suddiviso in tre cantiche, una per ogni regno ultraterreno: l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Nel suo cammino dalla Terra al cielo Dante incontra le anime dei morti; lo scopo del viaggio è acquisire e trasmettere quella conoscenza che conduce alla salvezza eterna. Fare esperienza dello stato delle anime dopo la morte e del sistema di punizioni e premi stabilito dalla giustizia divina induce Dante a pentirsi dei propri peccati e a imboccare la retta via; la sua vicenda, narrata agli uomini per mezzo del poema, ha il fine di indicare loro la salvezza eterna. Alla base della Divina Commedia c’è la convinzione che gli uomini siano liberi di scegliere tra il bene e il male e che ogni azione compiuta sulla Terra sia decisiva per la salvezza eterna; le scelte individuali durante la vita sono fondamentali perché dall’autodeterminazione di sé dipende il proprio destino nel mondo ultraterreno. Secondo questa visione ognuno è responsabile di ciò che fa; perciò le anime che Dante incontra durante il suo viaggio appaiono così cariche di realtà nonostante già comprese nella dimensione dell’eterno, cioè esse sono per sempre, dopo la morte, quello che hanno scelto di essere quando erano vive. Per quanto riguarda il bene e il male l’identità di ogni uomo si manifesta nella sua duplice veste di apparire ed essere ovvero di credere e di volere, ed allora la cognizione del futuro diventa tutt’uno con le azioni del presente che suggeriscono al soggetto che le compie un confuso stato di grazia e questo paradossalmente anche in caso di azioni riprovevoli. In effetti l’illuminazione dell’intelletto c’è per capire le conseguenze del proprio agire, ma siamo di fronte a frammenti di coscienza che non rendono il soggetto consapevole della realtà delle proprie azioni ovvero di una realtà dei fatti post mortem. L’uomo è cosciente del proprio essere solo perché, secondo lui, il proprio passato e il proprio presente sono tutt’uno per proiettarci nel futuro, ma quando quest’ultimo non rientra nei piani di Dio allora noi non riusciamo a comunicare nemmeno con noi stessi. Ed è a questo punto che operiamo una scelta ovvero optiamo per qualcosa che noi stessi non riusciamo ad identificare. Solo Dio ha la piena coscienza delle nostre azioni, ma quando noi scegliamo il male abbiamo un disegno limitato delle nostre azioni che prendono il posto della fede. Diventiamo cioè realisti, ma appartenenti ad una realtà contingente che è quotidianità arida, fine a se stessa e che non ci permette di proiettarci verso Dio; in questo modo noi non riusciamo a diventare parte integrante della sua volontà cioè non ci leghiamo alla coscienza dell’infinito. Questa si mostra a noi solo quando dialoghiamo con noi stessi perché suggerisce alla nostra mente quello che siamo e saremo al cospetto di Dio in virtù delle nostre intenzioni. A rendere oggettiva questa condizione interviene il momento della scelta, che una volta fatta, ci mette al corrente delle intenzioni di Dio; in altre parole diveniamo partecipi, seppur per un istante, dell’infinita sapienza dell’Altissimo. In tutto ciò la nostra immaginazione non cessa di produrre nella nostra mente momenti che se sottovalutati, ovvero non sottoposti al vaglio dell’intelletto, possono condurci al peccato: è questo il momento della tentazione. Ma dentro di noi sappiamo riconoscere la verità, a prezzo però di rinunciare a una nostra parte, quella parte egoista che vorremmo fosse l’unica a sancire il nostro successo personale. Ecco che allora si aprono davanti a noi nuovi scenari: l’uomo stanco del proprio egoismo rinuncia al proprio sfrenato desiderio di libertas e si affida unicamente alla volontà di Dio. In questo modo però non finiscono i problemi; la trappola del successo personale è sempre in agguato e siamo perciò costretti a combattere contro l’accidia come accade a Francesco Petrarca. Questi vuole liberarsi delle proprie catene, ma il suo dissidio interiore rimane irrisolto e una distensione del proprio animo arriva solo con i Trionfi. Chi dice che la ricerca del bene debba essere solo una rinuncia ai momenti più felici della vita terrena? Se fosse così noi saremmo nel determinismo metafisico cioè ogni avvenimento sarebbe sempre lo stesso e tutto si ripeterebbe all’infinito. La ricerca del bene non deve essere quindi sterile, deve essere dettata da quelle esigenze quotidiane che recano amore per il prossimo che diventa tale solo accettando noi stessi per quelli che siamo e non dimenticando che facciamo parte di un disegno divino che ci rende liberi di agire come vogliamo. Solo se diventiamo coscienti di questo, possiamo veramente comunicare tra noi per costruire il nostro avvenire, un avvenire che giungerà fino alla fine dei tempi. Sebbene sia costretto dall’esilio a rinunciare al proprio desiderio di libertas e nutra un personale disprezzo nei confronti dei suoi contemporanei, corrotti dalla volontà di affermazione personale in un contesto di particolarismo politico, Dante intende operare un riscatto personale e collettivo attraverso la ricerca della felicità. Quella felicità che ai tempi del Convivio egli aveva già indicato nella conoscenza e che nel De Monarchia rappresenta la pace sulla Terra garantita dall’imperatore, nella Divina Commedia consiste in un modello di comportamento individuale, nella capacità di vivere secondo i valori cristiani, di riconoscere il fine delle proprie azioni in Dio arrivando così alla salvezza eterna. Dante ha però ben presente la debolezza della natura umana, sa che gli uomini sono esposti al male ed attratti dai piaceri terreni; tuttavia nel sistema della giustizia divina descritto nel poema non conta tanto la gravità dei peccati compiuti, quanto la capacità degli uomini di rinnegarli in tempo, chiedendo perdono a Dio. La convinzione di Dante che sia possibile raggiungere la felicità sulla Terra e dopo la morte si fonda sulla fiducia nella natura dell’uomo, che Dio ha voluto creare a sua immagine e che ha inclinato al bene senza però privarlo della capacità di determinare il proprio destino. Non importa in quale epoca ci troviamo perché la lezione di Dante è sempre presente; infatti ogni testo letterario successivo alla Divina Commedia conserva tracce di essa, anche quelli che sembrano allontanarsene. Per esempio nelle novelle del Decamerone le azioni dei personaggi sono inserite in una realtà quotidiana che non trascura la loro disposizione a voler far luce sulle numerose peripezie che vengono affrontate ed anche se il caso, la fortuna e la forza dell’ingegno umano sembrano alla fine trionfare, tutto è inscritto in un percorso che paradossalmente sembra guardare indietro nel tempo verso cioè la Divina Commedia. In effetti noi non avremmo potuto avere il Decamerone se prima non ci fosse stata la Divina Commedia cioè la lezione di Dante ha raggiunto una sua possibile e specifica espressione ai suoi tempi vista la crisi dei valori della civiltà comunale, ma proviamo ad immaginare una società diversa, quella mercantile dei tempi di Giovanni Boccaccio: i vizi e le virtù sono ancora una volta presenti e proiettati nella dimensione della possibilità per l’uomo di scegliere il proprio destino ed anche se Dio sembra assente, è invece presente in ogni piccola azione dell’uomo, ne sono specchio i suoi sentimenti e la sua voglia di andare sempre avanti. Oggi sono cambiati gli orizzonti culturali degli uomini, ma il loro interesse per la Divina Commedia nasce dalla capacità di Dante di chiamarli in causa, di interrogarli sul loro modo di stare al mondo, sul bene, sul male, sulla felicità, non in modo astratto, ma con esempi concreti che è ancora possibile individuare in quegli uomini vissuti tra Duecento e Trecento quali rappresentanti dei vizi e delle virtù degli uomini odierni. Se è vero che la Divina Commedia offre un’impressione di realtà, non è possibile fermarsi al significato letterale del poema, in effetti tutti gli elementi del poema rimandano ad un significato ulteriore. A tal proposito dobbiamo dire che Dante è un uomo del suo tempo: con la cultura medievale egli condivide infatti l’idea che l’universo sia un sistema di segni creato da Dio e che tutto ciò che appare sulla Terra contenga un significato nascosto da interpretare. Questa concezione a vedere in ogni particolare un messaggio nascosto non riguarda soltanto la realtà, ma si applica anche alla lettura dei testi sacri: già nell’Alto Medioevo la convinzione che Dio, per rendere più comprensibili i misteri della fede, parlasse agli uomini attraverso gli eventi raccontati nella Bibbia aveva indotto gli interpreti delle Sacre Scritture a sottoporle a una lettura allegorica. I fatti narrati nell’Antico Testamento venivano dunque letti come prefigurazioni del Nuovo Testamento, cioè come annunci della venuta di Cristo, e il Nuovo Testamento era considerato la realizzazione di quegli annunci. Questo tipo di lettura era definito “allegoria dei teologi” perché interpretava i fatti storici reali raccontati nei libri sacri come anticipazione di altrettanti fatti storici reali. Alla lettura allegorica non erano sottoposte soltanto le Sacre Scritture, ma anche i testi della letteratura profana: era diffusa, per esempio, nel Medioevo la convinzione che il poeta latino Virgilio avesse preannunciato, nell’ecloga IV, la venuta di Cristo e fosse perciò, nonostante pagano, un ignaro profeta della fede cristiana. Nell’epistola a Cangrande della Scala, Dante riporta l’esempio biblico della liberazione degli Ebrei dall’Egitto ad opera di Mosè, interpretata dai teologi come prefigurazione della redenzione dell’umanità dal peccato originale compiuta da Cristo e raccomanda questo metodo interpretativo anche per la Divina Commedia. Dichiarando che al suo poema si può applicare lo stesso metodo interpretativo utilizzato per la Bibbia, Dante fa capire che quanto è raccontato nella Divina Commedia non è invenzione, ma realtà. In base a questo ragionamento i personaggi che egli incontra nell’oltretomba non sono invenzioni, ma persone realmente esistite che conservano le caratteristiche di quando erano in vita; analogamente i significati allegorici di cui sono portatori questi personaggi non ne eliminano la storicità. Dunque se il viaggio di Dante deve essere interpretato, come Dante stesso suggerisce, come le Sacre Scritture ovvero un insieme di fatti reali che allude ad un insieme di altri fatti reali, la Divina Commedia deve essere considerata un’esperienza realmente vissuta. Questo vuol dire che il significato allegorico di cui i personaggi sono portatori non va inteso come significato ultimo secondo la vecchia concezione del simbolismo trascendente, ma rappresenta ciò che Dio mostra a ognuno di noi nel profondo della nostra coscienza quando ci apprestiamo ad agire. Quindi la realtà storica consiste nell’intenzionalità che noi abbiamo di distinguere tra il bene e il male a discapito di previsioni fuorvianti riguardo la nostra morale. Questa per essere autentica deve fondarsi sul presupposto che noi agiamo innanzitutto per il bene comune qui sulla Terra per ottenere poi quella salvezza eterna che non può essere la salvezza di uno solo. Così le previsioni che noi facciamo su come andrà avanti il mondo possono tradursi in interpretazione allegorica cioè farci avvicinare il più possibile al grandioso progetto che Dio ha in serbo per noi: una nuova creazione che consisterà in un’unione cosmica di noi e Dio ovvero la speranza che non moriremo mai”.

 

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