di FRANCESCO MATTIOLI-
VITERBO- Chi è il fratello del figliol prodigo? E’ quello che ha rigato dritto, che si è fatto – scuserete la volgarità – il mazzo per portare avanti la famiglia secondo le regole, che non ha neppure preteso la luna nei momenti di meritato riposo e di ristoro. E’ però anche quello che vede tornare il fratello che si è preso licenze inimmaginabili e che oggi viene perdonato, premiato, compreso e accettato qualsiasi cosa abbia commesso. “Ho rigato dritto, e non mi hai mai dato un capretto per festeggiare con gli amici, e oggi prendi il vitello grasso per festeggiare il figlio che dopo averne fatte di ogni, viene a ricoverarsi di nuovo in casa”: chi non è rimasto perplesso di fronte a questa parabola. Parabola che certamente ha un suo specifico senso nel quadro della predicazione evangelica e anche su un piano eticamente laico.
Fatto sta che c’è un sacco di gente che oggi si sente frustrata come il fratello del figliol prodigo.
Spesso l’Amministrazione della Giustizia e della Cosa Pubblica sembra inflessibile con le persone comuni, con i fratelli del figliol prodigo, mentre mostra tolleranza per taluni soggetti deviati, e perfino criminali. Quello ammazza e violenta, ma siccome è minorenne (eppure guida una vettura, fa sesso da un pezzo, fa vita notturna, magari fa il teppistello, lo spaccone e il piccolo spacciatore) la punizione dovrà essere ricostruttiva, e in nome di Beccaria, dopo meno di dieci anni è libero, alla faccia dei parenti inconsolati della vittima. Poi c’è quello che ha subito una condanna, me siccome è un “invisibile”, sol per questo il sistema non ha tempo per lui e lo lascia libero di gironzolare senza meta.. E c’è lo stalker seriale che viene solo “ammonito” a stare alla larga, finché non commette un femminicidio. Oppure l’omicida stradale sbronzo o fatto che se ne sta ai domiciliari (cioè in casa propria…) in attesa che la giustizia faccia il suo lento e precario corso (dieci anni, ma no, via, ha patteggiato: facciamo cinque…) mentre la sua vittima se ne sta tumulata al cimitero. In certi salotti buoni si giunge a sostenere che il rom ha nella sua “natura culturale” il furto e deve essere compreso (sentita in seduta di laurea da un membro della Commissione), e che il soggetto con “evidenti problemi psichiatrici di natura aggressiva” ha il diritto di girare tranquillamente anche se prima o poi li evidenzierà, magari tragicamente. Ma c’è anche dell’altro, e in senso opposto: che dire di quel bagnino che ha salvato una vita e per questo deve pagare una multa? E del cittadino di buona volontà che, avendo riempito una buca o tagliato le erbacce sul marciapiede, viene accusato di danno al bene pubblico? E di chi paga le tasse, fino all’ultimo centesimo, mentre c’è chi le evade da furbetto senza ritegno e spesso senza pena?
Le cose però sono più complicate. In realtà c’é una forte, condivisibile letteratura sociologica che in modo autorevole spiega perché con certe persone sia necessario, umano e legale avere due pesi e due misure: mi riferisco alla costruzione sociale della devianza, alla condizione di marginale, alla teoria dell’etichettamento e del pregiudizio sociale, ecc… Questo va fatto capire innanzitutto al fratello del figliol prodigo. Nel definire le diverse misure adottate dalla società verso gli individui si deve possedere una flessibilità intelligente, che punta a modellare le regole non su una cieca assolutezza, ma sulle circostanze. Il che è segno sì di intelligenza, ma anche di amore, come suggerisce proprio la parabola del figliol prodigo.
Ma il fratello che ha rigato dritto lo capisce? E’ pronto a cogliere il succo della questione? Riesce a comprendere che tutti siamo a rischio d’errore, di sbandamento se solo le cose non vanno come noi ci aspettiamo? Che se c’è un minorenne sbandato che vive la notte tra gli eccessi, deve esserci dietro una famiglia che non funziona? E quindi una società che non tutela nell’uno, né l’altra? Che se c’è un immigrato che viene abbandonato a sé stesso senza uno straccio di prospettiva, finisce facilmente preda di occhiuti avventurieri della manovalanza criminale? Che quando uno occupa una casa l’alternativa per lui potrebbe essere solo il cartone alla stazione? Insomma, che se tu marginalizzi la gente, la gente poi deve arrangiarsi, fino a sgarrare?
In virtù della forte propensione odierna a tutelare la propria individualità e la propria autostima, temo che il fratello del figliol prodigo non sappia cogliere la differenza tra chi sgarra per piacere e chi sgarra per necessità, facendo così di ogni erba un fascio (in tutti sensi…).
Il fatto è che le tante variabili che agiscono all’interno del sistema sociale odierno, che proprio perché ricco di sfumature inevitabilmente diventa complesso e complicato da vivere, finiscono spesso per accavallarsi e per scontrarsi. E per corrompersi. La libertà, per esempio, rischia di diventare licenza; la difesa dell’identità deborda nel suprematismo; il senso di giustizia si può trasformare in giustizialismo; la comprensione e la carità verso chi ha bisogno può generare condiscendenza e permissivismo.
Forse nella nostra società manca la maieutica socratica, quella che spiega certe apparenti contraddizioni con pazienza, con rispetto e comprensione, invitando a riflettere e a capire finché l’individuo non fa sue certe nozioni. E invece, sovente, ecco il Torquemada di turno che, sfregiando il vero concetto di politicamente corretto, conciona da qualche salotto buono di certo progressismo intellettualista e pretende che si accetti la questione senza discutere, ricorrendo al massimalismo, all’intransigenza, alla saccenteria, alla provocazione di chi detiene la “Verità”.
Fatto sta che la condiscendenza di principio verso il figliol prodigo e lo scandalizzarsi per le obiezioni del fratello di costui, finiscono per ingrossare le file dei “benpensanti” di turno. Così, la “sindrome del fratello del figliol prodigo” raduna le sue vittime ai piedi dei capipopolo che proclamano il giustizialismo, il suprematismo, il “buon senso” delle persone “normali” (per dirla in termini vannacciani), la rigorosità dell’ordine costituito. Magari ottenendo l’effetto di trasformare tutta la gente in pecore contente di assaggiare sempre lo stesso foraggio e di restare custodite dentro un recinto, ancha di idee, da cui non si scappa.
Il padre della parabola, che voleva solo amare i suoi figli, rischia di creare mostri. Da un lato, quello che alla fin fine si sente liberato da ogni punizione, in qualche misura premiato e quindi potenzialmente incline ad approfittare di tanta generosità; e dall’altra parte quello che a rigar dritto si avvede che non se ne trae alcun vero vantaggio e quindi o sbanda d’improvviso, o al contrario – visto che è nelle sue abitudini – cerca di ritrovare in un protettore rigoroso il senso della propria autodisciplina.
A ben vedere, sono queste le contraddizioni, le cadute, le esaltazioni, le criticità che rendono la vita di oggi tanto fascinosa e intrigante quanto difficile e talvolta incomprensibile, e sono almeno cinquant’anni che tutto questo sta diventando macroscopico. In una società complessa, dove tutto appare negoziabile, diventa sempre più complicato stabilire regole condivise; e quand’anche queste fossero formalmente definite, l’uso comune si incaricherà di renderle abbondantemente transigenti. Fatevi un giro sui social – ma anche sulle pagine dei giornali e persino nelle aule dei tribunali – e troverete soprattutto una cosa evidente: che può darsi – e dirsi – tutto e il contrario di tutto.
Ecco perché poi, di fronte a tante motivazioni contrastanti, si parla di crescente personalismo, di anaffettività sociale, di ritiro da una vera partecipazione sociale.
E allora, occorre non solo apparecchiare il vitello grasso per il figliol prodigo che si redime, ma accordare con generosa attenzione il capretto al fratello che ne ha diritto. Occorre recuperare il reo alla civiltà, ma occorre anche rispettare le aspettative di giustizia e di equità di chi si è impegnato a rigare dritto. Occorre soprattutto comunicare, parlare, spiegarsi, comprendere, garantire un reciproco rispetto; occorre formulare leggi giuste, equilibrate, condivise, lontane da certe contrapposte demagogie e capaci fra l’altro di assicurare una vera certezza della pena. Una pena che sia sì in grado di recuperare alla società chi sbaglia, ma che sia allo stesso tempo il più possibile riparativa nei confronti della vittima, in specie di fronte ad un omicidio, che non restituirà più una persona amata ai suoi cari.
Possibilmente abbandonando i pulpiti, quale che ne sia il colore.