di ROSANNA DE MARCHI –
VITERBO – La vita di una volta era molto difficile.
Da bambini non si andava a giocare per le strade, ma…
La vita era molto dura e anche noi bambini dovevamo in qualche modo contribuire al magro bilancio familiare.
La mattina si andava a scuola, ( per la verità io non ci andavo sempre), come la maggior parte dei miei amici, e il pomeriggio i genitori ci mandavano a imparare i lavori. Chi a fare il calzolaio, chi il falegname, e chi lo scalpellino; erano gli stessi genitori che si rivolgevano agli artigiani, chiamati maestri, chiedendo loro di prenderci a lavorare.
I motivi erano diversi: ci evitavano di stare per la strada a bighellonare e ci davano la reale possibilità di imparare un mestiere. Per ultimo, se il “padrone” era sensibile, ci gratificava il con “pagaccetto”. Anche se consisteva in pochissime lire la settimana, alla fine per noi, “garzoncelli”, così eravamo chiamati, era tutto rimediato.
Tanti i disagi, per scarpe un paio di zoccoli e la fame non ci dava tregua
I miei genitori mi hanno insegnato l’amore per il lavoro, ed io facevo del mio meglio per aiutarli. D’estate per esempio andavo per legna in montagna, con una carriola o un carretto, fatti con le mie mani; andavo a cercare la legna che serviva d’inverno ad accendere la stufa o il caminetto. Nelle case non c’erano i termosifoni e il freddo si faceva sentire.
Sempre d’estate andavo a cogliere la spiga che sfuggiva ai contadini durante la mietitura, poi la portavo ai mulini in cambio di un po’ di farina.
Con altri ragazzini andavamo alla ricerca delle patate, quelle rimaste a terra dopo la cavatura fatta dai contadini; a burchio, cioè dopo la vendemmia, raccoglievamo i grappoli d’uva lasciati sui vitigni, o perché sfatti, o troppo acerbi, insomma, tutto quello che riuscivamo a rimediare, si portava a casa.
La nostra vita era abbastanza disagiata e combattuta.
Il mangiare era il nostro primo pensiero, poi un altro problema da non sottovalutare era coprirsi.
Il cappotto era sempre un vecchio capo, spesso appartenuto al babbo o a un fratello più grande che veniva rivoltato, l’interno si metteva fuori e la parte logora all’interno, tanto non si vedeva.
Chi se lo poteva permettere andava dalla sarta a farsi rimodernare il vestito o il cappotto, altrimenti c’erano la mamma o la nonna, che facevano questi lavori.
I vestiti degli adulti, seppure logori, le mamme li rammendavano e li passavano ai figli più piccoli; con le scarpe era ancora peggio, ma non soltanto nel periodo della guerra, purtroppo anche prima non le avevamo e si portavano gli zoccoli di legno.
Li faceva la ditta Montalboldi che aveva la segheria a Porta Romana, in via delle Fortezze. Questi zoccoli poi, nella parte superiore, si ricoprivano alla meglio con rimanenze di stoffe, avanzi di vecchie borse, persino con le fodere degli elmetti dei militari. In questa specie di scarpe ci si metteva tutto quanto permetteva di soffrire meno possibile il freddo.
Quelle poche scarpe, che riuscivamo ad avere, le tenevamo tanto da conto, e, quando si “sfonnavano”, venivano risuolate. Per cercare di non farle consumare, erano rinforzate con dei chiodi messi tutti intorno alla suola e anche in mezzo ad essa.
A protezione della punta veniva messo un ferretto, così come nel tacco, poi, sempre tutto intorno e nel mezzo di esso c’erano dei chiodi più grossi chiamati acciarini, con una testa più grossa.
Il guaio era che spesso la ruggine faceva staccare qualche chiodo, allora il calzolaio metteva una zeppa di legno nel buco e poi infilava nuovamente il chiodo.
Tutto questo d’inverno, perché d’estate andavamo scalzi.
Tratto da 17 GENNAIO 1944 “ in quell’attimo anche gli angeli si misero a piangere” scritto da Rosanna De Marchi