L’antichissima Blera, terra di Etruschi e uomini di chiesa

di DANIELA PROIETTI-

BLERA (Viterbo) – Non posso far altro che pronunciare un ossimoro, quando parlo del magnifico orrido di Blera. Credo sia uno dei luoghi più suggestivi della provincia. La Tuscia mi stupisce ogni volta, nonostante sia quasi mezzo secolo che io la viva.

Abbiamo cercato una strada che da Villa San Giovanni in Tuscia ci conducesse al comune più prossimo. Ci siamo inoltrati nelle campagne alla ricerca di una sterrata; ne abbiamo trovate alcune, recavano la segnaletica tipica dei sentieri per escursionisti, con tanto di distanza e tempo di percorrenza. Il tracciato  fiancheggia la Necropoli del Terrone e, in prossimità dell’abitato di Blera, supera il fosso Ricanale e risale fino in paese giungendo in Via Umberto I, dove  si innesta con la Via Clodia. Non eravamo preparati ad affrontare un sentiero per escursionisti così, abbandonata ogni velleità naturalistica, abbiamo girato lo sterzo della nostra autovettura ed abbiamo imboccato la striscia d’asfalto che porta a quel gioiello posto su di una rupe,  che è l’antichissima Bieda, oggi chiamata Blera.

Il borgo, che conserva tutto il fascino della sua lunghissima storia, è collocato al di sopra di un rilievo che supera di poco il limitare della soglia che separa la pianura dalla collina, 260 mt.

Per raggiungerlo abbiamo percorso la strada provinciale che porta il suo  nome, la Blerana. Una strada secondaria, percorsa soltanto da coloro che debbono raggiungere la zona. Non è, come si usa dire, una via di passaggio, di quelle che si battono per arrivare in centri popolosi. A Blera, devi scegliere di andare, e  noi, quel giorno, avevamo voglia di respirare la sua aria.

Era  quasi mezzogiorno, e il dio che ha scelto di essere colui che regola, quasi  per intero, le mie giornate, si stava avvicinando allo zenit. Le ombre assumevano comunque una dimensione piuttosto allungata, erano i primi giorni dell’anno, e l’inverno era nel suo pieno.

Ci siamo soffermati un po’ a osservare la scuola primaria in cui ho insegnato per qualche tempo, quando il sistema della Pubblica Istruzione aveva stabilito che io fossi trasferita in quella terra un po’ lontana e di certo non ben servita dai collegamenti. Il venerdì avevo qualche ora a Blera. Allora, e credo anche oggi, era giornata di mercato: un mercato che dev’esser stato molto ricco e interessante, almeno a giudicare dal successo che riscuoteva.

Vedevo alcune delle bancarelle dalla finestra della mia aula, grandi tendoni bianchi e banchi variopinti. Un brulichio vivace e composto, per la maggioranza femminile, che presumibilmente approfittava della venuta degli ambulanti per trascorrere una mattinata leggera. Prima di introdurci nella parte più antica, nel cuore di quel paese che si affaccia sulla valle ed è sostenuto dal tufo, abbiamo sbirciato la vallata solcata da un lungo ponte che conta oramai quasi 84 anni. E abbiamo ripercorso la storia del borgo, iniziando dagli albori.

Stava per essere fondata Roma, o forse il solco era già stato segnato, quando nel territorio che ci apprestavamo a visitare, gli Etruschi, nostri padri, decisero di insediarsi. Diverse le città dei morti che stanno a testimoniarne  la presenza del popolo italico. In realtà, nella zona pianeggiante del paese, sono stati rinvenuti dei resti  databili alla tarda Età del Bronzo. Successivamente al  X-IX secolo a.C.  venne occupato lo sperone di roccia tufacea nel punto in cui confluiscono i torrenti Biedano e il Rio Canale. Nonostante sia ritenuto il nome moderno, in realtà, “Blera”, è di origine latina e fu citato in diverse fonti (da Strabone a Plinio il Vecchio). Fu nel medioevo, che cambiò in Bieda, denominazione che venne mantenuta fino al  1952.

L’epoca d’oro di Blera, in base alle memorie che ci sono giunte, è rappresentata da quella etrusca: difatti, proprio sotto l’influenza delle vicine Tarquinia e Cerveteri divenne un centro molto florido. In realtà, trovandosi nell’intersezione tra Norchia, Tuscania, Castel d’Asso, Volsinii e Vejo, si può dire che fu la sua posizione a renderla rilevante.

In età  romana, una volta costruita la via Clodia, di cui restano due ponti  (del Diavolo e della Rocca), continuò a godere di notevole importanza. In epoca imperiale venne elevata a Municipio avendo, quindi, i propri magistrati. La campagna circostante è il luogo in cui alcune famiglie decisero di edificare le loro ville, delle quali oggi possiamo ammirare i resti. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, coincise con l’inizio della decadenza della cittadina.

Blera, nella metà del V secolo, divenne  diocesi ed ebbe vescovi propri: San Vivenzio, protettore del  paese, fu il primo. Nel 1093 fu unita a quella di Toscanella (l’attuale Tuscania) e nel 1192  a quella di Viterbo. Agli inizi del VI sec. lì nacque quello che sarebbe divenuto Papa Sabiniano I.

Nel 739 venne conquistata e strappata al Ducato Romano, assieme ad Ameria (Amelia) e Polimarzio (Bomarzo),  dai Longobardi di Re Liutprando. Quattro decenni dopo, Papa Adriano I chiese la restituzione dei territori occupati dai Longobardi e, per tutta risposta, fu assediata e distrutta da Re Desiderio.

La famiglia dei Prefetti di Vico, molto influenti in zona, ne furono signori dal 1200 al 1400 circa. In quel periodo subì un’ulteriore distruzione a causa degli scontri tra guelfi e ghibellini. Fu poi data in feudo da Papa Bonifacio IX ai Conti Anguillara dopo pochi anni, a causa di dissidi con Papa Paolo II, la città rimase sotto la reggenza della Santa Sede per passare, per volere di Leone X a Don Lorenzo Anguillara di Ceri, fino al 1572. Nei tre secoli successivi fu governata dalla Camera Apostolica. Nel XX secolo, diversi studiosi e archeologi se ne interessarono, soprattutto per le ricche necropoli che vi sono state scoperte. Fu oggetto degli scavi condotti dall’Istituto Svedese di studi classici, a cui partecipò  il re Gustavo VI Adolfo: gli archeologi iniziarono uno studio   che portò alla valorizzazione dei villaggi protostorici ed etruschi di San Giovenale e di quello di Luni sul Mignone.

E così, in quella mattinata di gennaio, abbiamo parcheggiato la nostra compagna di viaggio poco distante da Palazzo Anguillara, una lunga costruzione il cui intonaco è come il colore della neve che, sciogliendosi, si mescola al grigio del terriccio che raccolgono le strade asfaltate.

A Blera, la gente non manca. In ogni punto c’erano circoli di persone (distanziate tra loro) che si godevano la luce del mattino e l’aria frizzantina. L’età media, piuttosto alta. I bambini erano a scuola e i genitori, al lavoro.

Diverse botteghe, dal sapore un po’ antico, si affacciano su quelle vie. Una macelleria, un forno, qualche alimentari, uno dei quali esponeva un cartello che pubblicizzava panini con la porchetta. Un tempo non avrei resistito. Avrei varcato la soglia del piccolo locale e, accompagnata da quel senso di colpa che m’assale ogni volta che ingoio qualcosa di particolarmente calorico, ne avrei acquistato uno.

Ci siamo mossi, a passi celeri sulla grigia pavimentazione dell’antico comune. Distratti da qualche telefonata e messaggio di troppo, abbiamo osservato e commentato quelle vie, stranamente larghe e ariose per un luogo dalle dimensioni tanto contenute.

Appese e sospese tra un palazzo ed un altro, le luminarie natalizie ci hanno ricordato che le feste erano appena terminate, lasciando un ricordo appena accennato. E’ così tranquillizzante ritornare alla vita consueta e alle normali abitudini. E’ così emozionante poterle tradire.

Ci siamo ritrovati girando senza una meta precisa, al limitare di una bella piazza.

L’uniformità del selciato, dall’aspetto composto e di recente posatura, è interrotta da sanpietrini chiari che disegnano linee, spezzate esternamente e curve all’interno, e che regalano attenzione ad un antico pozzo. La piccola struttura, dal parapetto in marmo, venne posto nella Piazza di Santa Maria nel 1538, e riporta lo stemma della famiglia degli Anguillara. Non credo sia, attualmente, una fonte d’acqua servibile e al suo interno sono collocati vasi e fiori. Non ho visto freschezza in essi, ma ben si intonano alla scenografia che li circonda.

Le balaustre della chiesa, poste di lato ad un’ampia scala in peperino, invece, sono arricchite da vasi con fiori variopinti e piante verdi.

L’ampia facciata settecentesca, che sostituisce quella che venne eretta agli albori dell’anno mille, è interrotta da una grande porta al centro e due, minori, a lato. Delle finestre, dalla grandezza direttamente proporzionale alle porte, sovrastano gli usci. Le aperture laterali sono ornate da una stella luminosa, uno dei simboli del Natale.

Ci siamo addentrati nella chiesa. Il fascino del silenzio mi assale ogni volta, e quella devozione nata con me, ma non troppo onorata, fa che le mie mani si incrocino in segno di saluto a Dio. All’interno lo stucco chiaro delle colonne in muratura, tipico delle chiese in stile neoclassico, va a contrastare la tonalità tra il ruggine e l’amaranto dei marmi striati di bianco che fungono da pilastro. Poco distante dalla scala che raggiunge il presbiterio, abbiamo notato delle buste, allineate e chiuse, poggiate a terra: probabile segno di qualche cerimonia che si sarebbe svolta di lì a poco.

Un dettaglio interessante, se così si può dire, è il sarcofago su cui poggia l’altare. Di età tardo imperiale, è decorato da bassorilievi che illustrano la caccia di Adone al cinghiale di Calidone, noto per la sua straordinaria robustezza. Questo prestante animale compare in diversi miti come antagonista ai grandi eroi.

Il mito narra che fosse il figlio della scrofa di Crommio e che fu mandato, perché mosso da  gelosia, da Ares, dio della guerra,  a uccidere Adone quando costui si innamorò di Afrodite.

Dopo esserci soffermati su questi particolari, ci siamo avvicinati alla buia scala che conduce alla cripta, testimone dell’origine romanica della chiesa. Era chiusa e nell’ombra di una fioca luce posta sul fondo. Abbiamo sbirciato attraverso le sbarre che la proteggono e separano i fedeli dalla tomba del santo patrono di Blera, San Vivenzio, primo vescovo della diocesi  dal 457 al 484.

La nostra passeggiata è continuata con la testa alta rivolta verso le costruzioni, famelici e ansiosi di scoprire qualche minuzia che riuscisse a incastonarsi nelle nostre anime. Abbiamo fatto irruzione, sebbene in punta di piedi,  in una piazzetta senza alcuna uscita, scorgendo, dietro ad una grande vetrata, una bambina che a quell’ora avrebbe dovuto essere a scuola. Ci ha visti e ha indietreggiato andandosi a nascondere come se volesse sparire e non svelare il suo piccolo, e innocente segreto.

Siamo giunti quasi  alla fine del borgo, e abbiamo gettato una volta ancora lo sguardo sulla quella valle selvaggia che  i blerani  hanno la fortuna di ammirare ogni giorno.

Ci siamo mossi verso la terrazza che si apre sulla natura, abbiamo guardato quel ponte che ci avrebbe a breve condotti verso un luogo magico, a due passi dalla Luna. La strada da percorrere solca il “dosso biedano” e lo fa tramite l’ardito ponte (come viene definito in un filmato  dell’Istituto Luce) che venne eretto nel 1937.

L’alta costruzione vede una luce di ben 90 metri ed è posta in prossimità della vecchia stazione di Bieda, su quella che era la linea Orte-Civitavecchia, oramai chiusa. Sul viadotto si passa alternandosi, per evitare di doversi accostare troppo al parapetto.

Abbiamo proseguito sulla via che giunge alla vecchia e dismessa stazione di Civitella Cesi, un piccolo edificio dalle pareti scrostate: alcune finestre sono murate, altre chiuse da pannelli bianchi, altre ancora prive di protezioni. Un’insegna gialla reca il nome del minuscolo paese poco distante, in cui vivono poche centinaia di persone. Le ruote della nostra auto hanno superato i dossi e le buche di una strada di campagna che avrebbe dovuto condurci al ponte di ferro. Non lo abbiamo trovato, ma abbiamo scoperto un’enorme distesa brulla. Sembrava di stare sulla Luna. Forse, senza uscire dall’orbita terrestre, anche noi abbiamo poggiato il piede sul suo suolo.

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