Largo ai giovani, il pianista bielorusso Denis Linnik all’Unitus

di CINZIA DICHIARA-

Il concertista si esibirà sabato 25 marzo, alle ore 17.00, a Viterbo

La Stagione Concertistica dell’Università della Tuscia comprende sempre in cartellone artisti molto noti e di lungo corso, come ad esempio Marcella Crudeli o Sandro De Palma, ma, al contempo, il suo promotore, il professore Franco Carlo Ricci, la cui attività prosegue da anni con sensibilità, ama dare spazio a giovani concertisti in ascesa, che si distinguono con successo nel panorama internazionale.

È questa la volta di un pianista nato nel 1995 in Bielorussia, precisamente a Maryina Horka, nella regione della capitale Minsk. Questo giovane talento ha mosso i primi passi alla scuola pianistica di Valentina Shetsko, entrando nel 2004 nella classe di Tatiana Sergievskaya e, in seguito, di Vladimir Nekhaenko, al Minsk Gymnasium-College of Arts, intitolato a Ivan Akhremchik, completando i suoi studi presso l’Accademia Musicale di Stato Bielorussa.

Nel 2017, Linnik lascia il suo paese per la Svizzera, andando a perfezionarsi presso la Hochschule für Musik di Basilea sotto la guida di Claudio Martínez Mehner, ove prosegue dal 2021 anche con Zoltan Fejervari, concludendo tale percorso con un recital nel castello barocco di Ettlingen, in Germania, dopo aver pubblicato il suo CD di debutto “Night Wind”. Uscito per KNS Classical Label, il disco include brani di Janacek, Brahms e Medtner, dalla cui Sonata n. 2 op. 25 Night Wind, appunto, proviene il titolo di copertina.

 Negli ultimi anni è stato invitato a esibirsi in festival internazionali come Art Dialog Festival, Wien Modern Festival, Solsberg Festival, 100% Classique de La Grande Motte, Menuhin Gstaad Festival e ha preso parte a seminari e masterclass presso l’International Musicians Seminair Prussia Cove, istituzione fondata in Cornovaglia dal violinista ungherese Sàndor Vegh, e presso l’International Academy of Music in Liechtenstein.

È vincitore di diversi concorsi pianistici: Concorso Internazionale per Giovani Pianisti nella Patria di S. Prokofiev di Donetsk (2013), Youth Delphic Games of the CIS Member States (2016), International Piano and Orchestra Competition ‘Città di Cantú’ (2018). Infine, con la Camerata Rhein Trio, da lui stesso fondata nel 2018, insieme al violinista Dmitry Smirnov e al clarinettista José Luis Inglés Martínez è vincitore dell’Orpheus Chamber Music Competition (2020)

 E, ancora, primo premio al Rome International Piano Competition (2022), e, infine, quinto classificato al Concorso Internazionale per Giovani Pianisti Vladimir Horowitz di Kiev (2017), nonché destinatario di altri lusinghieri riconoscimenti.

Si esibisce con l’Orchestra Sinfonica di Basilea, l’Orchestra da Camera di Monaco, la Roma Tre Orchestra, l’Orchestra Filarmonica Nazionale dell’Ucraina, l’Orchestra d’Archi Metamorphose ed altre, dedicandosi anche all’attività cameristica, spesso in duo con il violino o il violoncello o in formazione di trio.

 Artista poliedrico e curioso di generi e repertori, è attivo altresì sul fronte della musica contemporanea, con escursioni nel jazz. Di recente ha preso parte alla produzione di opere contemporanee dei compositori Michael Hersch, Du Yun e Pascal Dusapin, ed è stato anche invitato nel ruolo di accompagnatore al pianoforte di musica contemporanea presso l’Università della Musica di Berna

 

Dagli inizi all’età di sette anni, dunque, è evidente che questo giovane artista nordico sia lanciato in una carriera molto importante, che lo ha già portato ad esibirsi in mezzo mondo, vincere competizioni impegnative e, addirittura, lo scorso anno, cimentarsi nel prestigiosissimo Concorso Van Cliburn. Fra i prossimi programmi, il Concorso Horowitz Kyiv-Ginevra, che si terrà dal 13 al 21 aprile 2023 presso il Conservatorio di Ginevra, con la finale prevista per il 21 aprile presso il Victoria Hall con l’Orchestre de la Suisse Romande. Denis rientra infatti tra i soli 29 candidati selezionati a partecipare.

 

Il programma del concerto viterbese prevede la famosissima Sonata “Appassionata” n. 23 op. 57 in Fa minore di Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770-Vienna, 1827), opera in tre movimenti, pubblicata a Vienna nel 1807 e dedicata al conte Franz von Brunswik, amico e protettore del genio di Bonn, presso il quale questi soggiornava.

 

Insieme alle altre due sonate Patetica e Al chiaro di Luna, denominate anch’esse con titoli di fantasia imposti più dalla tradizione editoriale che dall’autore, viene considerata l’espressione forse massima della tragicità beethoveniana e di sicuro la prediletta dell’autore, almeno fino alla fase delle ultime poderose sonate. Risultato, com’era abitudine di Beethoven, di un lungo e travagliato ripensamento, essa costituisce un campo di confronto tematico nel puro spirito del dialogo tra idee melodiche di suggestiva potenza emotiva, che passano in modo dialettico dall’estrema cupezza all’apertura eroica del suo carattere, interrogando l’anima nel profondo. Lo stampo filosofico dello spirito beethoveniano vi risiede, onnipresente, e ne plasma la forma.

Si prosegue cambiando del tutto rotta con le Estampes di Claude Debussy (Saint-Germain-en-Laye, 1862-Parigi, 1918), un trittico i cui brani, Pagodes, La soirée dans Grenade, Jardin sous la pluie, alludono a visioni, atmosfere e ambienti, evocati nei titoli, che l’autore avrebbe amato visitare ma non vide mai, supplendo a ciò con la sua forte immaginazione creativa e rendendoli presenti attraverso soluzioni melodiche, armoniche e ritmiche tipiche della sua tecnica di scrittura impressionista, ora evanescente e languida, ora incisiva e finanche percussiva.

In tal modo infatti, Debussy amava tratteggiare emotivamente scenari geografici reali, come l’Alhambra di Granada, costruzione ammirata in una cartolina alla quale pare ispirarsi il secondo brano della suite, tra l’echeggiare di motivi melodici al ritmo di habanera e accenni di flamenco con chiari riferimenti alla Spagna; oppure descriveva paesaggi d’invenzione, come nel primo brano, nel quale il clima orientaleggiante è richiamato dall’uso della scala pentatonica dei motivi giavanesi che aveva avuto agio di ascoltare in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1889.

L’ultimo dei tre brani predilige invece il virtuosismo atto a descrivere una fluida cascata di note dall’effetto talora ticchettante, con ampio uso di scale cromatiche. Il rombo del vento forte, il maltempo che imperversa e soprattutto la pioggia che cade si snodano via, via esibendo spunti melodici tratti da nenie popolari infantili, come la canzoncina Dodo, l’enfant do e Nous n’irons plus aux bois. Anch’esso pare sia stato composto per ricreare, nel ricordo, un luogo, in tal caso realmente conosciuto, durante un forte temporale. Si tratta dei giardini del seicentesco Hôtel de Croisy a Orbec, città compresa nel dipartimento del Calvados in Normandia, nella quale il compositore simbolista aveva soggiornato.

Con la Suite op. 14 di Béla Bartók (Nagyszentmiklós, Ungheria, 1881-New York, 1945) eseguita per la prima vota dallo stesso autore a Budapest nel 1919, si cambia ancora una volta panorama, andando ad assaporare, attraverso quattro brani in successione, colori, dissonanze, ritmi frenetici e accenti vertiginosi della vitalità folkloristica dell’est europeo, utilizzati tuttavia in senso moderno e colto. Il canto magiaro, com’è noto, costituisce l’anima vibrante e il cardine della produzione compositiva di Bartòk, fin dalle origini. Per di più, l’autore, ricercatore etnomusicologo, si compiace di immettere nel costrutto idee nuove e originali, anche andando ad attingere a motivi della cultura araba conosciuti nell’Oasi di Biskra. Tutto in lui è movimento legato al mondo contadino il cui carattere popolareggiante è tradotto da un martellante e percussivo pianismo su impianto armonico spesso bitonale ispirato alle atmosfere melodiche ungheresi e rumene, con ossessivi ostinati ritmici, che rimbalzano fino alla suggestiva conclusione. Dopo tanto animato incedere, infatti, la parte finale si disperde nel pianissimo, lenta e smorzata, scomparendo all’orizzonte con effetto magico.

L’ultimo brano in programma ci conduce a una scoperta interessante, la Sonata n. 4 di Leo Ornstein (Kremenčuk, Ukraina, 1893-Green Bay, 2002) disvelando il mondo di un artista poco noto e raro nei programmi di sala. Compositore di origine russa ma figura di spicco dell’avanguardia americana degli anni ’20, Ornstein è stato un pianista formidabile, un talento di classe, purtroppo ritiratosi dal concertismo verso i 40 anni e riscoperto soltanto negli anni ’70, sebbene attivo nella composizione fino all’età di 94 anni e scomparso all’incredibile età di 108 anni.

 Allievo di Aleksandr Glazunov al Conservatorio di San Pietroburgo, aveva iniziato a suonare a tre anni, proseguendo da grande negli States dove si era formato presso l’Institute of Musical Art, oggi Juilliard School.

 Considerato un compositore innovatore insieme a Stravinskij e Schoenberg, fu un vero pioniere, il primo a fare uso di cluster sulla tastiera, oltre che di poliritmìa e tecniche ancora in via di diffusione. Visto come personalità indipendente e originale, era osannato e idolatrato, oppure, vivamente detestato dal pubblico. Come apprendiamo dalla critica musicale americana Anne Midgette, la quale di recente traccia un profilo dell’artista sul New York Times, il critico musicale James Uneker nel 1918 ebbe a definirlo ’l’unico vero artista futurista vivente’, mentre The London Observer scriveva dell’‘insopportabile bruttezza della sua, cosiddetta, musica’. La Midgette  prosegue citando un’intervista rilasciata nel 1976 al critico musicale Harold Charles Schonberg ancora sul Times, nella quale Ornstein affermava: “La fama non ha mai avuto molto significato o attrattiva per me”. E, a chiarimento, aggiungeva: “Non ne vale la pena. Se la mia musica ha valore verrà considerata ed eseguita. Se non ha valore è bene che venga dimenticata”.

Una figura di artista controverso, dunque, che si affermò soprattutto per il suo virtuosismo pianistico, di cui la Sonata n 4 è un esempio. Un plauso, quindi, a Denis Linnik, che ce la farà ascoltare domani.

 

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