Mercato, Confagricoltura Viterbo-Rieti: “Ora aumenteranno pane e pasta”

VITERBO – Riceviamo da Remo Parenti (Presidente di Confagricoltura Viterbo-Rieti) e pubblichiamo: “Autunno caldo in tutti i sensi questo del 2021, sia per il clima, fino ad ora estivo, sia per i prezzi, in forte aumento a cominciare dalle materie prime, compresi molti prodotti agricoli. Per questi ha inciso, a quanto pare, la rinnovata domanda legata alla ripresa economica dopo la pandemia, ed anche l’andamento climatico sempre più imprevedibile ed estremizzato nei suoi fenomeni. I cereali (mais, grano tenero, orzo, avena, sorgo) hanno registrato negli ultimi mesi aumenti fino al 50%, il grano duro invece ha praticamente raddoppiato i prezzi. E forse un’analisi su quest’ultimo potrebbe essere interessante farla, visto anche le ricadute economiche per tutta la filiera della pasta, per i consumatori e per le particolari implicazioni sul territorio viterbese. Per mesi infatti è stato annunciato un raccolto abbondante a livello mondiale e anche nazionale, da una serie di report che, inevitabilmente, hanno creato aspettative precise sui mercati (la citazione del film Una poltrona per due è banale ma rende l’idea) con prospettive di prezzi in calo nel breve e medio periodo. In tutta sincerità non mi è mai capitato di leggere un report ante-raccolta che prevedesse un deficit produttivo, neanche nel 2007, altro anno di scarsissime produzioni, né tanto meno quest’anno. A cosa servono queste stime allora? Dovrebbero preparare i soggetti operanti sul mercato ad attutire gli sbalzi di quest’ultimo in un senso o nell’altro, ma, evidentemente, falliscono nel loro compito creando oltretutto aspettative falsate. Un agricoltore che viene a sapere di raccolti abbondanti dappertutto è consapevole di attendersi un prezzo basso per il suo prodotto, in particolare se gli viene detto che anche le scorte mondiali sono ai massimi. Nell’autunno scorso il grano duro in Italia veniva pagato all’agricoltore intorno ai 25/26 euro al quintale, un prezzo nominalmente uguale o inferiore a quello del 1986; perché mai un agricoltore italiano avrebbe dovuto seminare grano duro sapendo che il prezzo che avrebbe ottenuto a raccolto non sarebbe stato in grado di coprire le spese? E infatti in molti casi non si è seminato grano duro. In molti casi non si è seminato proprio nulla nelle nostre campagne, tanto viene dal Canada, dal Kazakistan, dal Messico.

In provincia di Viterbo si seminavano anche 60.000 ettari di “duro” negli anni ’90; 30.000 ettari nel 2010; neanche 20.000 nel 2020, tanto per rendere l’idea. Poi se gli agricoltori viterbesi piantano noccioleti forse non ci si dovrebbe troppo meravigliare. Per completezza di informazione dal 2010 ad oggi le superfici a noccioleto sono aumentati di 5.000 ettari rimanendo invariate però  negli ultimi tre anni e circa 30.000 ettari di superficie agricola viterbese è inutilizzata. Buona parte probabilmente era coltivata a grano duro fino a pochi anni fa, grano duro che intanto “viaggia” intorno ai 50 euro al quintale, con fortissimi aumenti del prezzo nelle ultime settimane quando già buona parte della produzione non è più in possesso del produttore. Perché, e a vantaggio di chi si è voluta questa dinamica? Possibile che il mercato del grano duro, se fosse stato libero di muoversi, non avrebbe dato segnali nei mesi o negli anni precedenti evidenziando una situazione di carenza di prodotto che, evidentemente, già preesisteva quanto meno nell’autunno 2020? Chi stima le scorte e le produzioni agricole? Negli Stati Uniti può farlo solo un ministero. Pene severissime per chi diffonde dati falsi o in anticipo, e in Italia? Come è possibile che fino a luglio il prezzo fosse di poco superiore alla soglia di convenienza per l’agricoltore e poi d’improvviso si è venuto a sapere che non c’è prodotto né sui campi né tantomeno nei magazzini del pianeta? O il mercato non è così infallibile, o è manovrato da qualcuno che lo rende di conseguenza fallibile. Perché si è voluto distruggere nel disinteresse quasi generale una coltivazione storica, tipica del nostro Paese e delle campagne viterbesi, direttamente collegata alla produzione della pasta, il cibo più consumato e amato da tutti gli italiani e esportato in gran parte del mondo? Sono anni che noi agricoltori diciamo e denunciamo che qualcosa non va, funziona male nella filiera della pasta. Nel 2017, in un convegno di Confagricoltura, peraltro presente su Youtube, invitai l’antitrust a fare indagini in merito senza ottenere nulla. Ora aumenteranno pane e pasta ma anche mangimi, sementi, gasolio. Il timore è che dovremo comprare tutto a prezzi alti e che poi si finisca come nel 2008 a vendere le produzioni a prezzo di saldo (18 euro al quintale). Il settore, in realtà, andrebbe attentamente controllato,   monitorato nel suo funzionamento, nelle sue interconnessioni, nei rapporti tra i soggetti che vi operano. Se questo poi vuol dire avere una visione superata e non liberista dell’economia, me ne farò una ragione. In fondo Siena, dove ho studiato, è sempre stata una roccaforte keynesiana e poi credo sia meglio andare controcorrente che venir meno alle proprie convinzioni. Soprattutto se si ha una responsabilità di rappresentanza”.

 

 

 

 

 

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