Dal Vesuvio alla Carnegie Hall, Conversazione col pianista spezzino, ultimo allievo dello storico caposcuola Vincenzo Vitale
di CINZIA DICHIARA-
Un inizio d’anno in compagnia di Paolo Restani, pianista di spicco tra quelli italiani di rango, cresciuto alla scuola del mitico Vincenzo Vitale. Fenomeno esploso a soli 16 anni nel secondo concerto di Liszt, in Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ha attraversato il mondo passando dalle sale più prestigiose della musica: Grosser Musikvereinsaal di Vienna, Konzerthaus Berlin, Carnegie Hall di New York, Teatro Colón di Buenos Aires, solo per citare alcuni punti salienti della sua mappa concertistica. In lui vivono decenni di splendida carriera, il suo prestigioso curriculum annovera successi mondiali, la sua attività concertistica direttori stratosferici, compreso il nostro Muti col quale ha collaborato sempre felicemente, e orchestre tra le più prestigiose del pianeta, nonché incisioni per etichette gloriose, in primis la Deutsche Grammophon.
È quindi un inizio del tutto speciale, con una chiacchierata che vaga qua e là tra pensieri, confessioni, umori. L’impressione è che in Restani l’artista preceda la persona e la musica avanzi sulla filosofia di vita. Ma, in definitiva, pare quest’ultima a dare l’impronta al suo sentire, con uno stile intellettuale che permea tutta l’impostazione ermeneutica, unitamente a una sensibilità sottile, trasparente e quasi tangibile a ogni esternazione. Un pianista di rara valentia che si porge con estrema consapevolezza del proprio ruolo di interprete e con naturale ma attenta misura. Dunque, incontrarlo e chiacchierare di musica e di esperienze musicali comporta un itinerario che segue traiettorie non scontate, regalando rivelazioni inconsuete, tra dichiarazioni apodittiche e indeterminatezze di un pensiero del tutto originale, di un intelletto sempre alla ricerca e di un cuore in continuo fervore.
-Le sue esperienze musicali, Maestro: lei si è affermato molto presto
Mi sono affermato molto giovane ma ciò non vuol dire che fossi un enfat-prodige. Piuttosto, ero, e sono, uno che ama quello che fa.
-E porta avanti un’eredità, quella di essere l’ultimo allievo di Vitale (1908-1984), una responsabilità…
Non l’ho sentita. Col maestro ho lavorato dagli undici ai diciassette anni, fino a due giorni prima che morisse. Aveva una sensibilità, una cultura, un’umanità velate di una particolare malinconia e di un particolare senso dell’umorismo, molto napoletano. Per me era figura di riferimento da svariati punti di vista, non solo pianistico e artistico-musicale ma come persona. Con lui vigeva una ‘simpatia’ nel senso etimologico greco di affezione, ‘sentimento insieme’.
-Benché in seguito lei abbia proseguito gli studi con altri importanti maestri, Vitale ha inciso nella sua formazione…
Il testamento metaforico che mi ha lasciato è il rispetto per quello che si fa. Il verbo ‘fare’ consiste nell’azione del pensiero, dunque mi ha lasciato il rispetto del pensiero trasformato in azione. Molti hanno frainteso la parola rispetto: il rispetto è qualcosa di infinito, di incommensurabile; in fondo è il rispetto per sé stessi.
-La sua scuola?
Ormai un maestro come Vitale sarebbe improponibile. Nasce ai primi del ‘900, poi studia in Francia, conosce Alfred Cortot (1877-1962): il suo metodo di insegnamento, la sua filosofia, la sua estetica sarebbero fuori luogo. Vitale va contestualizzato nella sua epoca. Non è mai stato superato, però è stato frainteso. Riusciva a far suonare il pianoforte a chiunque, oggi chi suona il pianoforte lo sa fare già da sé e poi riceve molti input dalla vita, dai personaggi che può incontrare, sul piano musicale e interpersonale. Io non so se lui, adesso, sentendomi suonare sarebbe d’accordo con alcune mie scelte ma direi di sì, a motivo della mia traduzione del termine rispetto. Secondo lui, il maggiore concetto di rispetto era quello di libertà.
-La sua nozione di libertà?
Suonare come vuoi, cercando di smuovere qualcosa che possa infondere un certo tipo di energia. Musica è energia, dunque qualcosa di antitetico alla trasmissione del nulla. Sono anni che cerco di interpretare un insegnamento di Shakespeare dall’Amleto, intorno al quale avrei amato tantissimo conoscere il parere del maestro: Nulla è più vero di ciò che non è.
- E, questo, come si traduce nel suo fare musica?
Il nulla non può essere perché non è, per definizione. E il nulla, se non è, non è vero. Ma non è neanche falso, poiché non è niente. Essere un interprete comporta il saper accogliere e accarezzare il dolore che ciascuno di noi ha e vive nell’esistenza. È attraverso il dolore che si perviene alla gioia. La vera conquista è giungere ad accettare delle cose di noi stessi che magari non sono benaccette o omologate con certo tipo di linearità di sentimenti. E questo è vero, ma non è niente. E questo non è vero, ma è l’interpretazione.
-Dunque l’interpretazione va a confluire in un nulla…
Potremmo dire sì e di no. Va a confluire nel tutto. E nel nulla. Se qualcuno che non ha mai ascoltato musica d’arte va a sentire l’Adagio in Si min. di Mozart, alle prime note ha uno scuotimento.
-Per un quid indefinibile. Gli uomini di pensiero cercheranno sempre una spiegazione…
I numeri sono infiniti, dall’uno all’infinito. Le lettere dell’alfabeto sono finite. Eppure quando mancano le lettere, le parole, si scrivono le poesie, cosicché, attraverso le stesse parole, disposte in modo diverso, si riesce a commuovere. Difficile commuovere con la prosa, ma se leggo Garcìa Lorca o Ungaretti, loro commuovono. Anche l’Odissea.
-Anche Petrarca…
Uhm… un po’ meno. Ho suonato troppe volte i Sonetti del Petrarca di Liszt… Certo che commuove. Ciò che commuove, smuove, non è un gioco di parole. Vai a teatro, non sai che cosa succede, poi qualcosa accade. È la magia della realtà. Non si capisce bene che cosa avvenga, però lo si sente interiormente.
-Dunque lei propende per una forma di ‘irrazionalità’ dell’arte?
C’è un bellissimo libro di Robert Craft ‘Conversazioni con Stravinskij’. Alla domanda “Che cos’è la musica secondo lei?”, il compositore del Sacre du Printemps risponde esattamente così: “Musica è punto contro punto”. Togliendo, togliendo, togliendo, rimane ciò che non è semplicità, non è povertà di linguaggio, ma essenza: dunque l’essenziale. Arrivare alle cose semplici è la cosa più difficile.
-La semplicità quale sintesi dell’intelligenza, un punto di arrivo…
A Henri Matisse alla fine della vita era stata commissionata una chiesetta con vetrate policrome in Francia (la Chapelle du Rosaire a Vence in Costa Azzurra, ndr.), e lui aveva cominciato a prepararne dei bozzetti, assolutamente barocchi, ridondanti. Volta pagina, e dopo una settimana comincia a togliere elementi, e alla fine, nel luogo dello Stabat mater, nella scena della madre che piange sotto la Croce il figlio di Dio (sono agnostico però credo in Gesù Cristo), Gesù non è sulla croce. Ma si vede una donna che piange e si sa che cosa piange: lo Spirito Santo. Questo è bellissimo.
- Gli autori che ha interpretato, i suoi autori…
Ora Mozart!
-Dunque una conferma di quanto ha appena esposto. Dalla complessità di Liszt, all’apparente semplicità di Mozart, un punto di arrivo.
Sia Liszt sia Mozart non sono troppo difficili.
–Diversissimi nel linguaggio…
Sai che cosa li lega? Una figura paterna direi assolutamente ossessiva. Leopold Mozart e il padre di Liszt volevano che Wolfgang e che Franz fossero degli animaletti da circo. Quando ho lavorato con Chiara, la figlia di Riccardo (Muti), lei ha letto una frase straordinariamente atroce da una lettera terribile del carteggio padre-figlio, Leopold- Wolfgang: «figlio mio, ricordati che sopra Dio c’è tuo padre.» Quest’uomo, per tutta la vita, nel suo stabile e determinante rapporto con la figura paterna, che superava addirittura quella di Dio, non ha avuto tempo di elaborare tutto questo. Doveva sempre chiedere il permesso, sia a livello emotivo sia a livello pratico.
-Forse era il bagaglio dell’educazione di quell’epoca. Nella visione dei rapporti tra padre e figlio, il padre rivestiva un’autorità somma, sempre al di sopra del figlio, per averlo generato.
Sì ma Leopold aveva un figlio che si chiamava Mozart!
-Dunque propende anche lei per la figura paterna soverchiante…
Mah, nel Don Giovanni c’è questa figura.
-A volte queste cose affondano più nel mito che nella storia
Nella biografia. Ma l’aspetto incredibile di Mozart è che credo che lui non pensasse quando componeva. Al contrario di un Beethoven che pensava troppo. Nei manoscritti trapela il suo rimuginare. Cancellava sempre, quasi con rabbia.
-Sì, Mozart olimpico, Beethoven prometeico. Ma la sua vita di interprete registra un rapporto speciale con Liszt e poi con Brahms
Vado d’accordo con tutti!- Ride. Arthur Rubinstein a una simile domanda rispondeva: “Io amo quello che sto suonando in quel preciso momento.”
-Certamente, non parliamo di autori preferiti, ma aver inciso tutta l’opera di Brahms comporta l’averne attraversato, penetrato e assimilato l’universo compositivo
Frequentare Brahms per molti anni è usurante.
-… è ad alta densità
Poi, lui non arriva mai al punto agogico, non so, sembra una sorta di patologia. Quando senti che sta andando verso l’alto e ti aspetti una soluzione, accedi all’ingresso di un punto agogico, e invece, per pudore, eccolo volgersi indietro e ritornare sui suoi passi. E fa davvero male, commuovendo molto.
-Quindi, quale visione ha di Brahms?
Brahms scriveva malissimo per i pianisti. Era un pessimo pianista; i due concerti, soprattutto il secondo sono scritti malissimo per il pianoforte. Sulla pagina, degli sforzi che non servono a niente. Ho inciso i Cinque studi, la Ciaccona (di Bach per violino solo) trascritta da Brahms per la sola mano sinistra, spostando di un’ottava bassa la parte del violino senza aggiungere una nota, di una bellezza unica. Poi l’étude di Chopin op. 25 n. 2 in Fa min, da lui riscritto inserendo doppie seste e doppie terze per la mano destra a flusso continuo. Inutilmente.
-A lui piaceva scrivere così, doppie seste, sempre, a gogò…
Il Moto perpetuo di Weber, le quartine nella sinistra e gli accordi nella destra… Ne ha fatte di strane, ne ha fatte di tutti i tipi, trasformando il pianoforte! Liszt ha scritto pagine bellissime ma non tutte; di Brahms non c’è una cosa brutta.
-Riguardo a Liszt, con la sua interpretazione ha inteso liberarlo dal cliché del virtuosismo tout court del grande pianista bello e tenebroso dell’800, facendo affiorare nella musica il contenuto poetico e la bellezza spirituale
Ne parlo cominciando dal contrario: gli ultimi anni della vita di Liszt si svolgono tra Bayreuth e Venezia con sua figlia Cosima, seconda moglie di Richard Wagner. Aveva una sua stanza a Palazzo Vendramin (dove i coniugi Wagner soggiornavano e dove Wagner si spense) e scriveva tutto il giorno. Quando Wagner lo vide intento al lavoro e gettò uno sguardo al foglio, persino lui che certamente non era un superaccademico pensò che Liszt fosse impazzito. Cosicché Liszt diede ordine ai numerosi allievi, che peraltro lo adoravano, che la sua musica non venisse eseguita, poiché non sarebbe stata capita. Era musica troppo oltre, lo è ancora oggi e forse lo sarà sempre, poiché ha un qualcosa di intellettuale, di colto, e di chi si sente vicino alla fine e non vuol dire alcunché di nuovo, perlomeno non a tutti i costi, ma qualcosa che cerca e sa che non troverà mai. Liszt non era persona felice, Mendelssohn sicuramente sì. Liszt non era un borghese. Molto credente, fortemente cattolico. Credo che fosse persona molto umile e molto vanitosa allo tesso tempo.
- Aspetti che possono convivere…
Alla ricerca sempre di qualcosa, ma quello che cercava non era la perfezione, poiché non arrivare mai alla fine di qualcosa vuol dire pensarla ogni volta in modo diverso. Il secondo concerto, quanti anni per scriverlo! Ma se non ci si sforzasse di cambiare degli stilemi, indotti chissà da chi, chissà da quando, chissà perché, ci si stancherebbe di vivere, di suonare, di cercare la bellezza.
-La ricerca della bellezza va a braccetto con l’interpretazione. Per Paolo Restani, una recherche du temps perdu o uno slancio verso il futuro?
Semplicemente lo specchio del mio umore. Da ragazzo quando iniziavo a suonare Mozart e c’era scritto ‘piano’, lo suonavo ‘piano’. Oggi, c’è sempre scritto ‘piano’ eppure io lo suono ‘forte’.
– Un processo magari avvenuto per consapevolezza; nella nostra coscienza il tempo filtra le cose, ma la questione filologica del testo?
La filologia… Innanzitutto è cambiato l’orecchio umano, trecento anni da Scarlatti a oggi, nonché il modo di scrivere. L’ambiente acustico e sociale è cambiato: esistono rumori che prima non esistevano, le macchine, la rivoluzione industriale, i teatri sono cambiati, gli strumenti… Non sappiano come potesse suonare Mozart. Mozart potrebbe non avere i suoi più che duecento anni. Per essere filologi a tutto campo occorrerebbe fare una seduta spiritica.
-Dietro la tendenza intellettuale filologica odierna c’è anche un amore per la tradizione: il modo di suonare si è tramandato di musicista in musicista, con anelli di congiunzione lungo una catena, ci sono le scuole…
Anni fa si suonava in modo così sdolcinato, oppure aggressivo e molto maschile. Stereotipi: Chopin è dolcezza, Chopin è sangue, un rubato stretto, Chopin era succube di George Sand, Chopin è molto sofferente, persona morta male, ha scritto pochissimo, non ha mai scritto sinfonie. Icone e stereotipi. Si cambia.
-Tutto cambia velocemente nella realtà odierna, complessa e difficile da seguire. Ne La montagna incantata Thomas Mann sostiene che “l’uomo non vive soltanto la sua vita personale come individuo, ma –cosciente o incosciente- vive anche la vita della sua epoca e dei suoi contemporanei.” Dunque, siamo influenzati nelle nostre vite private dall’andamento della storia. Quanto, il mondo attuale, influisce sulle sue dinamiche personali, e sul suo modo di suonare?
Sul mio modo di suonare influisce poco. Non si suona ascoltando le false notizie di un telegiornale. Ma influisce sulla vita pratica sì, perché, ad esempio, nelle sale da concerto non ci sono giovani. Eppure abbiamo 63 conservatori in Italia!
- … e una miriade di licei Musicali
Basterebbero due o tre lezioni di Bernstein alla Carnegie Hall con la New-York Symphony per avvicinare i giovani. Purtroppo la nostra realtà registra anche cose spiacevoli, emotivamente brutte, esteticamente inutili.
- Com’è dunque per te fare il pianista oggi?
Amare la mia vita per quello che è sempre stata. Cambiando spesso idea. Nel parlare con alcuni direttori d’orchestra é emerso che, se per tre settimane studiano Arnold Schönberg e Pierre Boulez e poi tornano a Brahms, lo suonano in modo nettamente diverso e vanno in crisi. Si cambia, ma è giusto così. Anche con te, in un’altra occasione parlerei in modo diverso perché ti direi qualcosa che ora avrei voluto dirti e non ti ho detto. È la bellezza della precarietà, dell’essere nel non starci.
-La tua attività artistica, l’espressione del tuo discorso musicale: difendi anche dei valori nel fare questo?
Non credo nei valori.
-Qual è il tuo credo, allora, se esiste?
Cercare il più possibile di pensare a dire la verità di ciò che penso in quel preciso momento. E questa non è un’aggravante…
-Parlavamo di Liszt dunque dell’ambiente dei salotti altoborghesi e aristocratici dell’800
Liszt ha inventato il recital nel 1854 a Londra. Prima c’erano le accademie, riunioni affollate di tutto un po’. Lui è stato il primo a mantenere ferma l’attenzione del pubblico davanti a un solista e un pianoforte.
- Era già iniziata l’era del concertismo, tuttavia, mentre il salotto era luogo di incontri artistici con la poesia, tra meditazioni filosofiche e considerazioni politiche, adesso nelle grandi sale da concerto vige la performance, e talora l’esibizione diviene esibizionismo. Si fa sfoggio di tutto, dalla tecnica funambolica e mirabolante agli abiti da sera succinti delle grandi pianiste. Che cosa abbiamo guadagnato?
Non lo so. Yuja Wang suona benissimo, è straordinaria.
- Sì, davvero, impressionante, superlativa. E tra i giovani emergenti…
Non ne conosco. Non ho tempo. Uno che amavo alla follia è Pogorelich, un genio.
-Lei è già passato attraverso la fase di costruzione della carriera, che cosa consiglierebbe oggi ai giovani?
Innanzitutto, non andare in conservatorio. E, poi, consiglierei di avere la facilità, la dolcezza, la sensibilità di ascoltare musica, soprattutto sinfonica.
-L’incontro con un maestro è importante. Quanto può contare una guida indovinata negli studi?
Insegnare è una cosa delle più difficili del mondo, poiché vuol dire insegnare a credere, laddove credere è un verbo mai affermativo, bensì dubitativo. Credere è difficile. E non bisogna credere fino in fondo, ammesso che un fondo esista, altrimenti si diventa presuntuosi. Il dubbio è espresso fin nelle Ultime Sette parole di Gesù sulla Croce, formulate in aramaico, quando Cristo esclama: Eloì, eloì, lamà sabactàni (padre, padre, perché mi hai abbandonato). E Haydn ci scrive sopra un capolavoro assoluto.
-Dunque, se è difficile credere, se non ci sono valori…
I valori mi sanno di parole, sembrano cause senza effetto, o effetto senza causa. Panta rei.
-Soltanto un contenitore vuoto?
Sì, che valori abbiamo oggi?
-Ma i suoi personali?
Il mio valore principale è la ricerca. Sono persona dotata di una microscopica intelligenza e da questa scintilla scaturisce la curiosità, la curiosità conduce alla ricerca. Il segreto è che amo quello che faccio.
- La sua spiegazione dunque è una: l’amore.
Già…
-Ha scelto il valore più grande
L’amore non è un valore.
-Davvero?
Certamente. “Nulla è più vero di ciò che non è!”
Bene, siamo tornati al suo punto di partenza, chiudiamo il cerchio.
Cinzia Dichiara
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Paolo Restani chi è
Un talento precoce quello di Paolo Restani, a soli 11 anni ha dato il suo primo concerto. Nel 1984 il recital all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Roma, Auditorio Conciliazione) ottiene un successo sensazionale, testimoniato dalla critica più autorevole: “A Santa Cecilia è nata una stella” (Mya Tannenbaum, Corriere della Sera), “Già destinato a inserirsi nella grande tradizione pianistica del nostro paese” (Alfredo Gasponi, Il Messaggero), “Sedici anni ma non gli credete: Paolo Restani, che ha fatto la sua apparizione l’altra sera all’Accademia di Santa Cecilia, è addirittura scioccante” (Ivana Musani, Paese Sera).
Seguono immediatamente scritture con i maggiori teatri europei. Fra le tante affermazioni di quegli anni, memorabile il concerto alla Sala Verdi di Milano per le Serate Musicali nel Gennaio 1988: chiamato a sostituire Alexis Weissenberg con poche ore di preavviso, suona le Variazioni Eroica di Beethoven e i 12 Etudes d’exécution transcendante di Liszt.
In oltre quarant’anni di carriera ha tenuto concerti in molti dei più importanti centri musicali del mondo, distinguendosi per un personalissimo tratto interpretativo in costante maturazione.
La padronanza tecnica e la profondità di lettura, tese a rendere trasparente e percepibile ogni minimo dettaglio di scrittura, ne fanno un artista eccelso soprattutto nel repertorio romantico dove il suo virtuosismo richiama alla memoria i grandi nomi della tradizione pianistica: …nell’esecuzione di Chopin sono sorprendenti le affinità con Vladimir Horowitz per il timbro, la ricchezza del colore e la chiarezza della melodia (Allgemeine Zeitung, in occasione di un suo recital a Francoforte, 1998).
Nel Giugno 2004 Riccardo Muti lo dirige nel Concerto nr. 2 di Liszt con la Filarmonica della Scala.
E’ l’esordio di una felice collaborazione tra i due artisti, che proseguirà in più occasioni. Tra queste, la partecipazione solistica di Restani, ancora accanto a Muti, alla produzione sinfonica Lélio ou Le Retour à la vie op. 14b di Berlioz. In scena un ensemble di duecento musicisti: il Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, le orchestre Luigi Cherubini e Giovanile italiana, l’attore Gérard Depardieu – protagonista della narrazione -.
I recital word tours più recenti includono: New York Carnegie Hall, Milano Teatro alla Scala, Venezia Teatro La Fenice, Palermo Teatro Massimo, Vienna Grosser Musikvereinsaal, Berlino Konzerthaus, Monaco di Baviera Prinzregententheater, Lipsia Gewandhause, Amsterdam Concertgebow, Mosca International Performing Arts, Innsbruck New Congress-Hall e Haus der Musik Grosser Saal, Buenos Aires Colón e Coliseo, Santiago del Cile Teatro Municipal, Tokyo, Londra, Stoccolma, Bruxelles, Francoforte, Amburgo, Istanbul, Beirut, Montevideo, Dubai, Manama, Kuwait City.
I Festival di cui è regolarmente ospite: Flanders Festival, Prague Spring Festival, BBC Proms London, Bonn Beethovenfest, Ljubljana Festival, Jornadas Internacionales de Piano di Oviedo, Asturias Festival, Istanbul Recitals, Miami International Piano Festival, Festival Martha Argerich di Buenos Aires, Maggio Musicale Fiorentino, Ravenna Festival, Festival MITO, Rossini Opera Festival di Pesaro,
Settembre Musica di Torino, Panatenee Pompeiane, Festival Pianistico di Brescia e Bergamo, Verdi di Parma, Ravello Festival, Todi Arte Festival, Festival Uto Ughi per Roma, Festival Romaeuropa.
Nel Gennaio 2008 su invito di Yuri Temirkanov partecipa al “XVII Festival Internazionale Christmas Musical Meetings in Palmira of the North” di San Pietroburgo. Grande la sua popolarità in Sud-America, dove si reca ogni anno. “L’Associazione della critica argentina” lo premia nel 2005 quale miglior interprete, e nel 2011 per i concerti con il Quartetto d’archi della Scala come miglior ensemble.
Solista con orchestre quail: Dallas Symphony, Detroit Symphony, Berliner Symphoniker, Berliner Philharmoniker String Orchestra, Stuttgarter Philharmoniker, Münchner Symphoniker, Neue Philharmonie Westfalen, Scottish Chamber Orchestra, Philharmonique de Nice, Oviedo Filarmonía, Budapest Festival Orchestra, RTV Slovenia Symphony, Moscow Symphony, Chamber Orchestra Kremlin, St. Petersburg Philharmonic, St. Petersburg Symphony, Kiev Philharmonic, Lithuanian Philharmonic, Sydney Symphony, Australian Chamber, Sinfonica Nacional de Chile, Johannesbug Philharmonic, Filarmonica della Scala, Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, del Maggio Fiorentino, del San Carlo di Napoli, del Regio di Torino, della Fenice di Venezia, dell’Arena di Verona, del Comunale di Bologna, del Teatro Carlo Felice di Genova, del Verdi di Trieste, Sinfonica Toscanini di Parma, Sinfoniche RAI di Milano, Roma e Napoli.
Tra i direttori: Roberto Abbado, Gerd Albrecht, Piero Bellugi, Christian Benda, Francesco Caracciolo, Aldo Ceccato, Misha Damev, Francesco D’Avalos, Yoram David, Vladimir Delman, Claus Peter Flor, Heiko Mathias Forster, Tanja Goldstein, Marco Guidarini, Helena Herrera, Irwin Hoffman, Lu Jia, Gustav Khun, Lothar Koenigs, Gerard Korsten, Julian Kovatchev, Uroš Lajovic, Yoel Levi, Anton Nanut, John Nelson, John Neschling, Gunter Neuhold, Paolo Olmi, Daniel Oren, Gabor Ötvos, Massimo Pradella, Misha Rachlevsky, Donato Renzetti, Gintaras Rinkevicius, Ola Rudner, Lior Shambadal, Jörg-Peter Weigle, Andreas Weiser.
Appassionato di musica da camera, è impegnato con il Quartetto d’archi della Scala, il Quartetto Fonè, il Quartetto David, i Solisti della Scala, il violista Simonide Braconi, il violoncellista Andrea Noferini. Affianca inoltre Monica Bacelli, Guillemette Laurens, Claire Brua in cicli liederistici. Musicista versatile, le sue interpretazioni solistiche interagiscono spesso con eccellenze dei palcoscenici mondiali – Gérard Depardieu, Enrico Maria Salerno, Mariano Rigillo, Gottfried Wagner, Carla Fracci, Sylvie Guillelme, Laurent Hilaire – dando vita a inedite creazioni di teatro/musica.
Con l’attrice Chiara Muti (figlia di Rccardo Muti) dal 2005 al 2008 realizza tre pièce originali: Il Regno di Rüken-la vita di Mozart, Il sogno di Ludwig-gli ultimi giorni di Ludwig II e Wagner, Prospettiva Nevsky-Gogol e i Preludi di Rachmaninov.
Nel 2013 Simona Marchini lo vuole accanto a sé nelle recite di Verdi e le Parafrasi pianistiche lisztiane.
Il suo repertorio, vastissimo, spazia da Bach ai contemporanei comprendendo più di 60 concerti per pianoforte e orchestra e altrettanti programmi di recital.
La predilezione per i capolavori del Romanticismo e del ‘900 storico lo porta ad affrontare l’opera omnia di Brahms, la maggior parte delle composizioni di Chopin, Debussy, Ravel, Rachmaninov, le integrali degli Studi di Chopin, Scriabin, Liszt (oltre 150 esecuzioni dei 12 Etudes d’exécution transcendante), nonché l’intero corpus per pianoforte e orchestra di Beethoven, Field, Chopin, Liszt, Tchaikovsky, Saint-Saëns, Casella.
Grazie alla continua dedizione a Franz Liszt, ne è considerato tra i maggiori interpreti. Dalla collaborazione con Michael Nyman è nata la prima esecuzione italiana di The Piano Concerto per pianoforte e orchestra, tratto dalla colonna sonora del film premio Oscar Lezioni di Piano di Jane Campion.
Dal 2018 è Steinway Artist.
I suoi CD e DVD sono pubblicati da Deutsche Grammophon, DECCA, Brilliant Classics, Amadeus, Gruppo Editoriale l’Espresso, Aulicus Classics, Stradivarius, Imd Music & Web.
Paolo Restani fu l’ultimo e prediletto allievo di Vincenzo Vitale (celebre esponente della Scuola Pianistica Napoletana, studiò con Florestano Rossomandi, Attilio Brugnoli e, infine, con Alfred Cortot all’École Normale de Musique di Parigi).
Successivamente i suoi insegnanti sono stati Gerhard Oppitz (erede dell’arte interpretativa di Wilhelm Kempff) all’Hochschule für Musik und Theater di Monaco di Baviera, e Peter Lang al Mozarteum di Salisburgo. Ha inoltre ricevuto lezioni da Vladimir Ashkenazy, Aldo Ciccolini, Gustav Kuhn, Piero Rattalino.
Ha studiato composizione a Roma con Paolo Arcà, a Milano con Bruno Bettinelli.
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