Pasqua alla Palanzana

di DANIELA PROIETTI-

VITERBO – Non sono mai stata capace di costruire una casa partendo dalle fondamenta. Inizio sempre dal tetto. E per raccontare uno dei luoghi affascinanti del circondario viterbese, il Monte Palanzana, dalla cui croce si ammira una vasta porzione di territorio della Tuscia, non posso che far riferimento alla festività che mi ha vista escursionista per un giorno.

Nel mio immaginario la Pasqua è gialla, verde e rosa. Ha le forme dei fiori di pesco e il profumo dolce del cioccolato in cui tuffavo la mia fetta di Pizza di Pasqua, l’unico dolce che io apprezzi veramente. Si tinge di bianco quando penso alla purezza del mio animo di bambina che portava a casa il bigliettino d’auguri realizzato a scuola e il lavoretto. Pasticciato, però. Non sono mai stata abile nei lavori manuali, ed ho sofferto la parte della mia carriera in cui insegnavo alla scuola dell’infanzia dove, invece, la manualità  è una dote necessaria.

Poi, la Pasqua ha preso i colori più alla moda, quando era diventato quasi un obbligo avvicinarsi alla perfezione per non sfigurare vicino alle coetanee, mentre ci accingevamo a diventar donne. La fase della maternità  e dell’entusiasmo nel veder crescere i propri figli, per me è durata molti anni, visto che la mia prole è al di sopra della media. In quegli anni, le attenzioni erano rivolte soltanto a loro. Un mondo in movimento, ecco quello che ho visto in quelli che posso quasi chiamare “i miei primi 50 anni”. Quella ricorrenza tanto importante per la Cristianità, probabilmente la più importante anche paragonata al Natale (senza voler essere eretici, a nascere siamo buoni tutti, ma risorgere, beh, quello no) perché segna la resurrezione del Cristo, la vedevo perdersi negli schemi conformisti che la società ci stava imponendo.

Poi, è arrivato il Covid-19. E con esso tutta una serie di restrizioni, imposizioni, regole a cui tutti, per responsabilità civile, e anche penale, dobbiamo sottoporci. Anche la Pasqua, così, è cambiata.

Lo scorso anno la trascorremmo chiusi in casa. Eravamo in regime di lockdown. Non si poteva assolutamente uscire, se non per necessità inderogabili. Anche le funzioni religiose erano celebrate ma non partecipate. Eravamo convinti del motto #andràtuttobene e se ci avessero detto che in un anno non avremmo fatto che pochi passi in avanti, nessuno ci avrebbe creduto. Invece, siamo ancora in dovere di evitare spostamenti e, soprattutto, di celebrare in maniera conviviale questa festività. L’unico miglioramento è stato il poter praticare attività fisica e sportiva, cosicché chi era già uno sportivo ha continuato a dedicarsi col massimo impegno alle proprie passioni e chi non lo era, lo è diventato, o sta cercando in tutti i modi di diventarlo. Stamani, io, non avvezza alle tradizioni, dopo una colazione poco pasquale, mi sono infilata l’abito della camminata e sono uscita. Per l’occasione non ho messo i soliti leggins neri, ma ne ho scelti un paio con la banda laterale bianca, come a volerli identificare con il vestito della festa. Ho la fortuna di abitare in una bella zona, al di sotto del Monte Palanzana, la regina delle vette viterbesi, un ex vulcano che supera di poco gli 800 mt.

Sentieri e rocce

La lunga e stretta strada asfaltata che conduce all’inizio del sentiero che porta alla cima, è segnata a destra e a sinistra, da numerose abitazioni, molte costruite in tempi recenti, alcune che, soltanto nell’osservarle, hanno il potere di riportarci indietro nel tempo di qualche secolo.

Fontana delle Sette Cannelle

Devo averlo già scritto diverse volte, ma amo sempre ricordare la grande casa che  si trova di fronte alla Fontana delle Sette Cannelle. Chiamata la Casa del Diavolo, serba in sé una buona dose di mistero, anche dovuta all’incisione nel rosone che sovrasta il cancello. Tante le storie che si narravano e che la vedevano scenario di messe nere e atti poco ortodossi. Probabilmente, erano soltanto chiacchiere, ma da ragazzini ci affascinava credere che fosse vero.

Grandi blocchi di peperino, neanche troppo intaccati dallo scorrere del tempo e dai fenomeni atmosferici che debbono aver visto, fanno da pavimento alla strada che porta ad essa.

Negli ultimi tempi ho intensificato i miei ritmi, e quella lieve salita che connota l’intera via, non mi provoca più il leggero affanno a cui ero abituata.

Mi volto spesso a guardare quegli spazi che sono incastonati nella mia memoria come un’Ave Maria, e ogni volta mi stupisco nel prendere coscienza di quanto sia brillante il verde dei prati e limpido il turchese del cielo. Minuscole chiazze grigie o marroni interrompono la grazia che la natura ha voluto donarci, sebbene, anche l’ambiente naturale  che siamo abituati a vedere, deve aver subito non pochi interventi avvenuti per mano dell’uomo. Ad un certo punto, il cielo si rabbuia perché delimitato dai fitti rami di secolari querce che pare vogliano introdurci in un luogo differente da quello in cui ci troviamo. Ho proseguito a ritmo incessante, impaziente di poter guadagnare quella cima che mi scruta da oltre 22 anni, lasciando indietro chi si era preso l’onere di accompagnarmi. Quando sembra di essere quasi giunti al termine della via, la strada si biforca. Se si prende la destra si ridiscende verso la città, se si volge a sinistra, si raggiunge l’Eremo di Sant’Antonio. Un lungo viale in salita, conduce al grande stabile edificato  nel 1538 e costruito affinché ospitasse l’Ordine dei Frati Cappuccini. Si sa che in esso dimorarono Papa Gregorio XIII e San Crispino da Viterbo.

Ingresso all’Eremo

Chissà com’era quasi mezzo millennio fa il panorama? Quanto profondo era il buio una volta che il sole andava a gettarsi dietro il Monte Argentario che, come una cattedrale nel deserto della costa tirrenica, splende sotto lo sguardo di chi soggiorna in questa zona beata? A fianco dell’eremo si apre una stradina, le folte chiome delle querce imbruniscono il peperino, risultato delle antichissime eruzioni che plasmarono il territorio. Mi sono fermata ad ogni passo per scattare delle foto. Mi piace immortalare ciò che vedo e di cui, un giorno, potrei non aver memoria. Ma, al tempo stesso, mi rendo conto di spezzare la continuità del momento.

Tanti anni fa, venivamo in questo luogo con la moto, e prima ancora per le uscite con i campi estivi. Ma alla cima non ero mai arrivata. Sulla destra, è segnalato il sentiero che conduce alla vetta. Poco più avanti, un cippo in peperino, estirpato dal terreno, giace con la facciata principale rivolta verso il cielo, e riporta la scritta SPQV. Una tubatura dell’antico acquedotto ci dà la certezza di trovarci nella strada giusta. Di lì, si procede in salita, per un sentiero facile, dove si possono incontrare anche bambini o robusti ciclisti decisi ad accollarsi una bici pur di godere del divertimento della ridiscesa a cavallo del proprio mezzo. Ogni volta che si gira l’angolo è una sorpresa. A tratti impervi e dalla terra poco battuta, si alternano stradine più solide e agevoli. Ogni masso, piccolo o grande che sia, racconta una storia. Il muschio ne ricopre un buon numero, e va ad arrampicarsi anche sugli snelli tronchi degli alberi.

Sentiero

Alcuni tronchi, appartenenti alle piante più fragili, sono rovinati a terra, in alcuni casi hanno anche tentato, senza successo, di sbarrare la strada a chi percorre quella piccola via. La mattina di Pasqua il cielo era limpido, ma il vento che spirava, provenendo da nord est, era piuttosto fresco e  ardito. Nel silenzio si sentiva la sua voce che accarezzava vivacemente i fusti. Questi, forse infastiditi da quelle carezze non richieste, sembravano lamentarsi emettendo acuti cigolii. Giunta quasi sotto la cima, ho iniziato a scorgere la città  e tutto ciò che la circonda. Tra i rami mi apparivano le chiazze dei centri abitati e le fettucce d’asfalto. La curiosità ha spinto i miei quadricipiti a superare quelle ultime rocce che si frapponevano tra me e il paradiso. E il paradiso mi è apparso. Lo spettacolo che mi era stato promesso si è svelato senza deludermi. Mi sono seduta al di sotto della croce. Ho osservato l’orizzonte. Si vedeva il mare, i Monti della Tolfa, l’Argentario, che tanto mi è familiare, le cittadine di Civitavecchia, Tuscania, Monte Romano, Piansano e la regina del nord, Montefiascone. Ho notato i ponti principali della superstrada e i paesi limitrofi. Il Lago di Bolsena, dal lato di Capodimonte, così azzurro, sembrava essere contenuto in un grande cucchiaio  di terra. Poi, ho puntato lo sguardo sulla mia città e me la sono goduta. La foschia, con l’innalzarsi del sole, si era dispersa e l’aria era molto più limpida.

Il centro storico di Viterbo si distingue per il colore della pietra di chiese e palazzi. Ho localizzato le altre zone, prendendo come punti di riferimento gli edifici e gli elementi  più caratteristici, come la Camera di Commercio, la Rocca Albornoz, i palazzi di vetro, Porta Romana, e le mura quasi per intero.

Viterbo

Ho cercato la mia casa, percorrendo a ritroso la strada che mi aveva portato fin lassù, affacciata sul cielo. Ho stentato a venir via, nonostante i miei obblighi di mamma mi stessero chiamando. La ridiscesa è stata più impegnativa della salita. Ho  poco equilibrio, e ad ogni passo rischiavo di cadere. Ma non è questo il problema principale. Mi dispiacciono gli arrivederci, e salutare quel tetto disperso nel cielo è stato triste. La Pasqua è rinascita, e quella porzione di mondo è in grado di regalare, almeno per qualche ora, una sorta di rigenerazione.

 

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