Per la XIX Stagione concertistica pubblica dell’Università degli Studi della Tuscia-Viterbo, Concerto di Marcella Crudeli ed Emanuele Savron  

di CINZIA DI CHIARA-

VITERBO- Un duo a quattro mani d’eccezione si esibirà sabato 10 febbraio 2024, alle ore 17, presso l’Auditorium di S. Maria in Gradi, in un programma dedicato all’integrale delle Danze ungheresi di Johannes Brahms (Amburgo, 1833-Vienna, 1897), pagine molto diffuse nelle sale da concerto e in vetta alle opere gradite al pubblico di ogni dove.

Si tratta infatti della ventina di danze più celebri di tutta la letteratura del genere (21 per l’esattezza), ispirate a vivaci o struggenti motivi popolari magiari che l’arte dell’autore amburghese ha nobilitato con il piglio e la formidabile scrittura a lui consoni, tanto da renderle deliziosamente accattivanti nell’alternanza di  ritmi selvaggi e irruenti del tipico clima tzigano con linee melodiche suadenti e cantabili dolcissimi che toccano le corde più intime e giungono a commuovere, tra accenti dolenti e ingenue litanie dell’est, salvo improvvisi scatti d’umore popolareggianti, vivaci fino alla corsa vertiginosa. Un idioma zingaresco, con le sue armonie, le suoi caratteristiche inflessioni fraseologiche, i timbri giocati su effetti spettacolari che il genio di Brahms seppe utilizzare, tanto da far sembrare originali anche i temi da lui stesso coniati.

Ascolteremo dunque un ventaglio di inquadrature prospettiche di brani, alcuni dei quali arcinoti, che dimostrano la duttilità di un compositore apparentemente austero e teutonico fin nel midollo, com’era Brahms. Ma ciò non tragga in inganno poiché egli fu, invece, tra i compositori interessati al patrimonio folcloristico rilanciato dalla cultura delle scuole nazionali dell’800, quello più appassionato e autentico nel forgiare le melodie e i ritmi di danza ungheresi.

Aveva familiarizzato con tale repertorio grazie all’amicizia giovanile con una sorta di musicista zigano, Eduard Reményi (1828-98), suo compagno di tournée in un viaggio (a piedi!) di formazione che i due intrapresero, com’era d’uopo in età romantica, intorno agli anni ’50 dell’’800, era il 1853, lungo un itinerario che li vide condividere programmi da concerto per violino e pianoforte ma anche molta musica che il pianista accompagnava a orecchio seguendo l’estro bizzarro dell’amico, il quale accese per sempre in lui l’attrazione per il repertorio popolare dell’est europeo. Tanto che questo riecheggia spesso in disegni tematici, in cellule ritmiche, in suggestioni coloristiche della sua produzione, punteggiandone e permeandone la veste complessiva.

Anche quando i due amici si separarono, avvenne che per Brahms l’amore viscerale per quel linguaggio fosse ormai connaturato al proprio essere. I particolari lessemi compositivi ne erano divenuti registri d’espressione, così le sue inflessioni armoniche e melodiche, rivelazioni ab intus di un magistero assimilato in modo totalizzante e restituito in un complesso di elementi stilistici del tutto originali. Fu in quel viaggio che il ventenne Johannes conobbe personalità di spicco del mondo musicale che tanto dovevano arricchire il suo bagaglio esperienziale, artistico e umano.

Pensiamo all’amico Joseph Joachim (1831-1907), il violinista al quale in età matura volle dedicare il suo Concerto per Violino e orchestra op. 77, o al compositore, allievo di Schumann, Albert Dietrich (1829-1908), autore del libro di memorie della sua giovinezza Erinnerungen an Johannes Brahms in Briefen, besonders aus seiner Jugendzeit (Ricordi di Johannes Brahms nelle lettere, in particolare del periodo della sua giovinezza). Amicizie fraterne alle quali si affiancò il rapporto di stima e consonanza intellettuale con Philipp Spitta (1841-1894), musicologo autore della Bach Renaissance col quale Brahms scambiava esercizi epistolari di contrappunto.

Ma, sopra tutti, incisero i due coniugi Schumann: Robert (1810-1856) al culmine della fama di musicista romantico ed esempio da seguire per il giovane esordiente, presentatosi nella casa di Düsseldorf con una lettera di presentazione onde essere ricevuto e ascoltato; e Clara Wieck (1819-1896), la grande pianista e madre degli otto figli di Schumann, nel tempo legata al nuovo talento giunto da Amburgo da un’amicizia perfetta, quanto chiacchierata. Tutto il resto è storia. In molti conoscono l’articolo ‘Neue Bahen’ (‘Strade nuove’) col quale, nell’altrettanto autorevole veste di critico musicale, Schumann lanciava nel panorama musicale il nuovo astro della musica Johannes Brahms.

Le incantevoli pagine delle danze Ungheresi, pubblicate in due volumi (inizialmente redatte  in quattro quaderni), sono strutturate secondo una forma ternaria, cioè nella consueta divisione in sezioni a-b-a, senza indulgere troppo a preamboli introduttivi, né a sviluppi tematici, dunque sopra un impianto di grande semplicità, con l’episodio centrale di carattere contrastante e quindi di diverso andamento ritmico al quale fa seguito la riproposizione della prima parte come ripresa del tema principale.

Eppure la varietà di questi trascinanti cammei folclorici ispirati a modelli di stile della puszta, sui quali insistono il pianismo brahmsiano corposo e il suo lirismo sconfortato, sorprende continuamente nell’avvicendare e rimpiazzare agili e dinamiche cascatelle di note con velocissimi arpeggi strappati alla gitana, o accordi ritmati come nella Czárdá; con suoni staccati e marcati a segnare arsi e tesi, mentre la leggerezza del disegno scorre a perdifiato dando vita a una deliziosa opera cameristica.

Certamente la verve irresistibile, l’esuberanza vitale dei finali vivacissimi, la malinconia lacerante e accorata delle parentesi espressive richiedono un virtuosismo scatenato ma al contempo un maturo gusto esecutivo per evitare pesantezze stereotipate. Qualità che senza dubbio è garantita nella raffinata visione stilistica di Marcella Crudeli, artista insigne, pianista di lungo corso, Grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana, nonché fondatrice e Presidente dell’Associazione “Fryderyk Chopin” organizzatrice del Concorso Pianistico Internazionale “Roma”. In duo con Emanuele Savron, suo giovane e talentoso allievo già vincitore di concorsi internazionali, l’acclamata pianista è una presenza affezionata a Viterbo.

In questa occasione è in cartellone la sua esperienza di collaborazione tra maestra e allievo, questa la particolarità di una formazione cameristica tra le più diffuse, almeno dai tempi del salotto ottocentesco borghese. Non capita spesso, infatti, che il rapporto docente/allievo possa uscire dal recinto dell’apprendimento didattico per confluire in un connubio artistico, o meglio, ciò accade nei casi più fruttuosi ed eccezionali in cui il modo di ‘sentire’, altresì le prerogative e le qualità personali, in sostanza la relazione tra mente, tecnica individuali e intesa esecutiva si sviluppino in un dialogo, in una connessione intellettuale, in una simbiosi spirituale che permetta di amalgamare e fondere anche le differenze del rispettivo grado di maturità.

Cosicché, a un tale duo riesce ciò che generalmente non è facile realizzare: arrivare a collimare spiritualmente, oltre che tecnicamente, suonando sulla medesima tastiera, condividendo lo stesso spazio e lo stesso strumento dal quale trarre con eguale intenzione interpretativa il disegno prefigurato nell’idea. Risultato in genere difficile, perseguibile solo attraverso un tragitto di limatura virtuosa e affinamento costante. Condizione necessaria è dipanare la rete di suoni e di fraseggi con lo stesso approccio al tasto. Ecco, un tale aspetto, pressoché ignorato nell’opinione di taluni poco esperti e talora anche dal pubblico, è invece da considerarsi massimamente: non si valuta abbastanza spesso la difficoltà costituita dalle numerose esigenze ai fini della resa conclusiva del duo a quattro mani. In vero, molti si esibiscono, ma pochi sono coloro che riescono a ottenere intesa e coesione musicale assolute. I duo formati da grandi maestri che hanno incontrato sulla loro strada allievi dotati e ricettivi al punto da raggiungere con essi una sintonia sostanziale, possono essere fra questi.

La qualità del legato, la pronuncia dei suoni, la capacità di intonare un colore, il grado di evocazione di un’atmosfera, la concertazione stessa, con i diversi pesi delle parti tra le quattro mani: raggiungere tale affiatamento tra docente e allievo è di una stupefazione unica. Esempi in giro ve ne sono, basti pensare a Martha Argerich in duo con l’allievo Sergio Tiempo. Calibrare i rapporti di dinamica, suscitare una teatralità che affonda nell’emozione sottocutanea affiorando in superficie sono dimensioni del suonare le più inattingibili, per carità, ottenibili anche tra pianisti provenienti da un diverso background. Tuttavia, se consideriamo alcuni grandi duo di pianisti passati alla storia si tratta di persone tra loro vicinissime, pensiamo allo stesso Brahms in duo con Clara, o, addirittura, nei casi più eclatanti, di fratelli, come i grandissimi Alfons e Aloys Kontarsky, o come le sorelle Katia e Marielle Labèque, altro duo straordinario, o di coniugi come Paul ed Eva Badura -Skoda, e anche Robert e Gaby Casadesus, o di padri e figli come Emil ed Elena Gilels. Ma per un’alchimia che ha del prodigioso, eppure è costruita passo passo dalle fondamenta, maestro e allievo possono attingere livelli notevoli di sintonia e resa esecutiva.

È quanto accade ascoltando il duo Crudeli Savron, sincronizzato nel rapporto della consegna, tra donazione peritale e immateriale da un lato e ricezione di un codice vivo dall’altro, nel lascito di una matrice custodita, alimentata e a lungo impiegata fino alla condivisione e al suo rigenerarsi attraverso l’insegnamento. Maestro e allievo, un connubio che quando venga a crearsi può avvalersi di un valore aggiunto nel fare musica insieme: la stessa scuola, la stessa fonte di conoscenza, un ‘idem sentire’, un reciproco scambio, progredito nel tempo.

 

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