Quando Sebastiano del Piombo sfidò Raffaello

di MARCO ZAPPA –

VITERBO – In realtà la sfida fu promossa dal cardinale Giulio de Medici, nipote del Magnifico Lorenzo e futuro Papa Clemente VII che alla fine del primo decennio del 1500 commissionò due grandi tavole per la sua diocesi di Narbonne a quelli che erano considerati i due fuoriclasse della pittura italiana di quel periodo.
All’epoca Raffaello Sanzio era adorato come una divinità ed aveva consolidato il suo stile raggiungendo la maturità come uomo e ancor più come artista grazie ad una pittura morbida ed estremamente raffinata: così stimato da esser tenuto sul palmo della mano da Leone X, Papa che con la sua scellerata gestione in favore delle arti aveva mandato lo stato della chiesa in

Resurrezione di Lazzaro, Sebastiano del Piombo

bancarotta e scatenato la riforma protestante.
Di contro Sebastiano Luciani (ancora non si usava il nomignolo “del Piombo”), un giovane di belle speranze giunto da Venezia in quella che doveva apparire come il centro del mondo e quindi anche dell’arte, la città eterna.
Molto più dotato nella pittura che nel disegno, portava a Roma alcune novità quali una nuova cromia, dei paesaggi sublimi che derivavano dall’apprendistato avuto presso il suo maestro Giorgione e da una grande tradizione, quella veneta basata sulla forza del colore.
Nel contesto romano era il solo che poteva insidiare la leadership incontrastata di Raffaello e di questo, subito Michelangelo si era accorto, tanto da prenderlo sotto la sua ala protettrice.
Il grande scultore, reduce dal lavoro mastodontico realizzato dopo quattro anni di sofferenze e disagi nella volta della cappella sistina, a ragione non si rassegnava ad essere considerato dalla vulgata comune come pittore inferiore al Sanzio.
Grandissimo nel disegno, eccellente nella scultura si diceva, ma il suo modo di dipingere è troppo crudo, nulla a che vedere con la sensibilità e la morbidezza del redivivo Apelle, Raffaello.

Raffaello

Ma l’affronto più grave all’orgoglio di Michelangelo dovette apparirgli l’affidamento della vacante carica di responsabile della fabbrica di San Pietro che il Papa, innamorato metaforicamente del suo rivale aveva affidato proprio all’urbinate in successione di Bramante.
Sembra di sentirla la voce di Michelangelo, che nella sua solitudine inveisce contro i leccapiedi e i favoriti, come probabilmente considerava Raffaello, perfetto cortigiano, raccomandato proprio dal parente Bramante che grazie ai suoi uffici l’aveva chiamato a Roma, riuscendo a fargli avere una commissione prestigiosissima: quella di affrescare la stanza della Segnatura che fungeva nientemeno che da biblioteca e studio privato di Papa Giulio II.
L’enorme potenziale di Raffaello si era sprigionato e da quel momento la sua carriera era diventata un successo dopo l’altro.
Michelangelo per contro vedeva ora in Sebastiano l’unico in grado di rivaleggiare sul terreno preferito dall’urbinate, la pittura a olio: ne era nato un sodalizio, caso rarissimo nella storia dell’arte, la fusione della perfezione del disegno toscano con la libertà cromatica della pittura veneta.
I primi frutti si erano manifestati nella Pietà di Viterbo ma quello era stato un esperimento isolato se pur eccellentissimo, una commissione di un “pesce piccolo”, tal Giovanni Botonti, chierico della Camera Apostolica.
Ora invece la posta in palio era altissima, il cardinal De Medici in persona aveva messo alle con le spalle al muro Raffaello, chiedendogli una Trasfigurazione e Sebastiano, incaricato di dipingere la Resurrezione di Lazzaro.

(continua)

 

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