VITERBO- Riceviamo e pubblichiamo: “Centro storico di Viterbo: simboli come svastiche o croci celtiche, fasci littori, aquile, sono così tanti da far parte ormai del paesaggio e si rischia di non farci caso. Poi, però, saltano all’attenzione di chi, la mattina andando a lavorare, li trova stampati sui muri delle proprie case o della scuola di fronte.
Noi questa mattina ci siamo dati appuntamento: faremo un “servizio fotografico” di questi simboli sparsi per la nostra bella città e ne chiederemo la rimozione. Sappiamo bene che non basterà farli cancellare – con un’imbiancata si corre il rischio di cadere di nuovo nell’indifferenza – ma vorremmo sensibilizzare la cittadinanza ad aprire gli occhi, a porsi le domande. E mentre facciamo il giro del centro, ci chiediamo cosa spinga ragazzi, spesso poco impegnati a scuola, a dipingere questi simboli. Che si tratti anche di un reflusso di cultura neofascista, non è difficile pensarlo, a Viterbo. Ma sentiamo che sarebbe meglio sedersi attorno a un tavolo e cominciare a interrogarci, a partire da ciò che rappresentano questi simboli, per passare poi alle motivazioni che spingono i ragazzi a lasciarne traccia: bisogno identitario, vuoto di relazioni, aggressività, visibilità, imitazione, ribellione, noia? Vorremmo conoscere l’opinione degli autori di questi disegni e quella dei giovani più in generale. Cosa porta i giovani, a quasi un secolo dall’adozione di questi simboli dall’estrema destra, a utilizzarli ancora?
L’”aggressività” la consideriamo una componente fondamentale dell’essere umano come dell’animale, in quanto “arma di difesa” personale del proprio spazio vitale e del proprio branco. Ma da chi ci si vuol difendere? Dai nemici, dai predatori, dai concorrenti? Senza bisogno di scomodare studiosi come Lorenz, Freud o Bowlby, l’uomo ha imparato nel corso della sua esistenza a controllare la sua aggressività. Allora, come spiegare l’emergenza di questa aggressività? Questi giovani probabilmente ritengono di essere dalla parte del giusto e questa convinzione li porta a scambiare l’Altro per il nemico, fino a perdere la percezione di sentirsi tutti esseri umani.
Nella fase storica che stiamo attraversando, dove sono in corso guerre a più livelli, in particolare quella che il mondo occidentale sta combattendo contro la Russia, emerge e prende forma quell’idea latente del “nemico”, dell’estraneo, dell’immigrato che, quando non si può affrontare direttamente sul campo, si combatte sui muri con svastiche e croci celtiche, nel tentativo di marcare il territorio, di fronteggiarlo, come a dire “Qui ci siamo noi”.
Ci vorremmo interrogare anche sulla “ribellione”. Autori di scritte sui muri di stampo nazista e fascista sono prevalentemente – per non dire unicamente – adolescenti. Così per l’”imitazione” che nel processo di apprendimento dell’animale – compreso quello umano – è la prima fonte a cui attingere.
In Italia esiste il reato di apologia del fascismo. Esso è previsto dalla Legge Scelba (n. 645/1952) che vieta ex articolo 1 la “riorganizzazione del disciolto partito fascista”. Disegnare una svastica, in Italia, non si configura esplicitamente come reato di apologia del fascismo. Si incorre infatti nel reato di danneggiamento, regolamentato dal codice penale, per il quale “chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero interrompendo un servizio pubblico o di pubblica necessità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Tra le “cose mobili o immobili altrui” rientrano edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto, o su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate.
Ma il problema di quei simboli rimane, a dispetto dei vuoti legislativi, e con loro quei messaggi – insieme oscuri e arroganti – cui ci piace opporre gesti in linea con i nostri valori, di partecipazione aperta, alla luce del sole”.
Vanda Fontana – presidente di P.A.R.V.A. Casa delle donne