Ricciardi: “La telemedicina non è neanche nei Lea e questo è un segnale di un forte ritardo nell’innovazione del Ssn”

ROMA- Sfida alla cronicità è il titolo della IV Conferenza nazionale sull’assistenza primaria, organizzata dall’Istituto Superiore di Studi Sanitari “Giuseppe Cannarella”, on line da oggi fino al 18 novembre.

“La prima lezione impartita dal covid – afferma Mariapia Garavaglia, presidente dell’Istituto Superiore di Studi Sanitari – è che l’Italia è fornita di un Servizio sanitario nazionale che ha retto nonostante difficoltà dovute alle carenze strutturali accumulate negli anni. L’assistenza primaria è la formula più precisa di come lo Stato si faccia carico della tutela della salute presso i cittadini. Ci siamo dimenticati che 42 anni fa la logica territoriale era già proiettata verso il cittadino. È ovvio che l’Italia non sia tutta uguale. Disegnare attorno al cittadino la sanità sui suoi bisogni non può non predisporre una proposta di salute in modo omogeneo. L’epidemia ci mostra anche la mancanza di professionisti. Se vogliamo garantire l’assistenza primaria, l’organizzazione va ripensata come una catena che non si interrompe mai con una gamma di servizi che non può essere disattesa. L’offerta deve essere per tutti. Forse il covid lascerà delle cronicità. La sfida sarà all’interno dell’assistenza primaria”. La presidente ricorda che al termine della conferenza verrà lanciato un manifesto sull’assistenza primaria in favore di coloro che lavoreranno per il riordino del Ssn.

Chi mette in luce alcuni dei nodi dolenti del Ssn è Francesco Ripa di Meana, presidente della Fiaso e direttore generale dell’Irccs Ifo di Roma. “Il covid – osserva – ha messo in crisi gli ambulatori dei medici di medicina generale che si sono rivelati un luogo inadeguato per fare clinica. L’ospedale ha visto cadere alcuni confini perché tutta la parte no-covid ha dovuto occuparsi a domicilio dei pazienti. Questo non è avvenuto per una usurpazione. Si tratta di novità enormi”. In questo contesto, “I cittadini – spiega – non sono soggetti passivi e hanno capito di essere protagonisti. C’è la necessità di avere una rete diffusa di operatori che vanno nel territorio”. Lo stesso territorio “Non è risultato debole solo nelle regioni dove non era stato dimenticato”. In futuro “Ce ne dobbiamo occupare e rimettere al centro il setting domiciliare ed il ruolo degli infermieri di comunità. Non si potrà fare come prima – conclude – magari con qualche risorsa in più”.

Sulla necessità di non tornare al passato si sofferma anche Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva. “Sono venuti al pettine tutti i nodi – commenta -. C’è bisogno di responsabilità e accountability. Oggi non abbiamo alcun modello di benchmark per i sistemi territoriali. In una discreta fetta del Paese non abbiamo nulla. Metterla come priorità è essenziale”. Per Gaudioso è fondamentale accelerare i tempi: “Bisogna usare il Patto per la salute – dice -, implementarlo rapidamente e poi ridurre drasticamente il tempo fra le scelte delle politiche sanitarie e i tempi di applicazione”. Riguardo alla telemedicina aggiunge: “Sono 20 anni che sta aspettando di entrare nei Lea. Bisogna intervenire per far sì che le tecnologie vengano adottate, i Lea implementati, che ci sia un coinvolgimento attivo nella riprogrammazione dei servizi territoriali. Non sarebbe male concludere i piani territoriali per le cronicità con i registri di malati cronici”.

Sulla incapacità cronica del sistema di programmare, nonostante il quadro sia caratterizzato dalla forte domanda di salute per i cronici che in Italia sono un cittadino italiano su due, parla Walter Ricciardi, ordinario di Igiene dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma e consulente del ministro della Salute. “L’Italia – ricorda – è ferma da dieci anni sul piano dell’innovazione tecnologica. Al momento sono decine di migliaia le persone contagiate confinate. Se fossero in Germania, avrebbero una assistenza digitale resa obbligatoria l’anno scorso. Dobbiamo incorporare le nuove tecnologie nell’assistenza primaria. Abbiamo una programmazione regionale e nazionale che non accelera il processo regolatorio della telemedicina. Se non ci muoviamo siamo messi male. Siamo l’unico Paese che non ha una agenzia terza che valuta le nuove tecnologie. Dovremmo avere un database integrato in cui tutti i dati dei cittadini dovrebbero confluire”. L’insegnamento dei Paesi nordici è chiaro secondo Ricciardi. Lì i “Database integrati hanno permesso la gestione del covid. Il cambiamento si può fare se si hanno la visione, le competenze. Oggi abbiamo dei dirigenti incapaci, non abbiamo gli incentivi, le risorse, un piano di azione”. In Italia “Siamo specializzati nella reattività e non nella proattività – prosegue Ricciardi -. Non esiste oggi un problema tecnologico. Il nostro problema è l’incapacità a livello centrale di decidere insieme a una frammentazione enorme. L’Italia si scontra contro la burocrazia. Ma su questo ci giochiamo la pelle. Di medici bravi ne abbiamo ma con questa pandemia non riusciranno ad aiutare”.

“In questa seconda fase – ricorda Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità – l’epidemia ha una distribuzione regionale diversa: tutti i comuni sono in qualche modo toccati. Questo ci dice quanto la diffusione sia veloce. Ultimamente ci troviamo in una situazione in cui l’età mediana tende a crescere. La mortalità colpisce la fascia di età sopra i 70 anni e le persone affette da patologie croniche. In questa fase il numero di patologie rimane un fattore significativo”.

“Il concetto di salute è in trasformazione, non possiamo ignorare che non sia determinato da una dimensione sociale. Dovremmo rafforzare il tema della prossimità anche a partire dall’epidemia. La rete dei professionisti e servizi deve essere una risposta ai bisogni di salute. La tecnologia ci può essere di aiuto ma deve essere calata in un contesto di trasformazione sociale”. “La nostra realtà nazionale è ricchissima di esperienze. Ricordarci questo tipo di attenzione al singolo e alla comunità è la prospettiva in cui stiamo lavorando e credo che i fondi saranno utili”.

“Siamo dentro alla più classica equazione dalla soluzione impossibile – osserva Enrico Letta, direttore della Scuola di Affari Internazionali presso l’Istituto di Studi Politici di Parigi -. Abbiamo tre problemi: più debito, meno crescita e un aumento di domanda di salute e welfare pubblico. Per ora la situazione è anestetizzata dai tassi negativi per cui si riesce ad andare avanti. Se ripartisse la dinamica dei tassi ci troveremmo nell’esplosione del sistema. L‘unica è affrontare la situazione con una bussola diversa ovvero con l’innovazione e la digitalizzazione. Altrimenti prevedo il peggio”.

“È impossibile non rendersi conto che il tema della cronicità consente di sviluppare delle praterie di offerte di lavoro. La capacità di sviluppare in modo più strutturato è il modello win to win: vince l’anziano e il mercato del lavoro”.

Sull’utilizzo del Mes Letta non ha mai nascosto la sua posizione. “Non usarlo in questa direzione è una occasione persa. Non viene usato perché si porta dietro una fama negativa in Grecia. Esiste il timore di non saperlo usare. Così come il timore di usare le risorse del fondo comunitario nei prossimi quattro anni. Negli ultimi tempi non avevamo i soldi per cofinanziare i fondi europei. Oggi sono più ottimista perché la parte di cofinanziamento non c’è”. Letta però prevede: “C’è il rischio del lungo periodo. Dovremmo fare un Patto Paese fra tutti gli attori nazionali e regionali di tipo comportamentale. L’Italia è un Paese in cui tradizionalmente è difficile creare consenso per una riforma. Una volta approvata la si lascia nelle mani di una implementazione inerziale e non ci si mette l’energia perché tutto vada in porto. Questo va rovesciato”.

 

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