Salome di Richard Strauss all’Opera di Roma

di CINZIA DICHIARA-

Scena nera, buio pesto, un cono di luce proiettato su personaggi esasperati e terrificanti: una mise en scène che garantisce il brivido continuo a questa somma e inquietante opera straussiana, famoso dramma in un atto unico dall’omonimo componimento di Oscar Wilde nella traduzione tedesca della scrittrice Hedwig Lachmann, che pone alla ribalta un soggetto complesso, con piani diversi di interpretazione psicologica, all’Opera di Roma, domani sera.

L’orchestra è diretta dal fuoriclasse Marc Albrecht, specialista di tale repertorio. Questi sembra governare la partitura come un prestigiatore maneggia le sue carte, padroneggiando appieno la conduzione e traendo dalla compagine strumentale, in gran spolvero e potenziata come si conviene (un centinaio di elementi), tutti gli effetti desiderati. Differenze plurime di sonorità, di giochi timbrici, di geometrie dei volumi, dall’implorazione sottovoce al parossismo sfrenato ogni minima sfumatura è estremamente curata. Albrecht è altresì molto attento nel bilanciare i volumi in favore delle voci, affinché restino sempre in superficie rispetto a una compagine strumentale massiccia che potrebbe sopraffarle, mentre riesce a sfruttare le gamme timbriche e coloristiche lasciando il pubblico abbacinato dalla musica travolgente, ricca di preziosità compositive e di effetti, ritmicamente vivace, melodicamente cupa, totalmente grandiosa e soverchiante.

La regia, precedentemente realizzata per l’Opera di Francoforte, è affidata all’australiano Barrie Koski, uno dei talenti più in vista nel teatro lirico mondiale, direttore della Komische Oper di Berlino e già noto al pubblico romano per il suo precedente allestimento di Die Zauberflöte. In una visione sorprendente, questi azzera ogni connotazione realistica: niente palazzo di Erode, né festosi banchetti, ma vuoto assoluto. La sua è una Salome lontana dall’ambientazione biblica, libera, sia dalle contingenze sceniche, sia dalla tradizione interpretativa, traslata in un non-tempo, nell’assenza di riferimenti spaziali, sprofondata nell’oscurità del total-black scenico privo di qualsiasi arredo pertinente, e illuminata dal raggio argenteo dominante (“È la luna che mostra e nasconde” sostiene il regista), proiettato di continuo sulla sua figura ad esaltarla nelle movenze suadenti e negli scatti di irritabilità o di disperazione, nella fissazione dell’innamoramento e nelle espressioni psicotiche.

Affascinata e irretita dalla voce profetica di Jochanaan che giunge dal profondo, si muove come invasata, ma è solo una ragazza viziata, nevrotica, una lolita capricciosa che si invaghisce della fisicità dell’integerrimo profeta cristiano, desiderandone ardentemente i baci, blasfema, fino allo stremo delle forze; tanto che oppone al suo diniego e al suo rigoroso richiamo all’altissimo, una sofferente e viscerale supplica d’amore, reiterata nella lunga e iperbolica elencazione degli apprezzamenti della bellezza dell’uomo, mediante il linguaggio del testo ricco di affascinanti metafore, una sorta di Cantico delle Creature dionisiaco e pervicace.

Certamente manca l’oriente, tutto, in quest’opera, e non è affatto questione di Kitsch desiderare di poter pensare Salome nel suo habitat, in un tutto armonico con la storia narrata, considerata l’importanza mitica dei personaggi e del contesto in cui essi dovrebbero agire secondo il libretto. Tuttavia la realizzazione cerebrale e psichica di Kosky ha dell’eccezionale, lasciando ammirati gli ascoltatori nei suoi aspetti fondamentali; soprattutto riesce a catturare l’attenzione sui personaggi dall’inizio alla fine senza alcun cedimento, in un crescendo emotivo sensazionale. A ben vedere, tuttavia, non è difficile rintracciare nel suo impianto generale influenze da certo clima tedesco novecentesco, lontanamente brechtiano, in cui si inscrive  l’atmosfera generale del dramma, pregevole per l’elevata carica di modernità nel molto coerente disegno complessivo, scevro dalle consuete esagerazioni sul piano della sensualità prevalente e più centrato sulla disgregazione interiore.

In riferimento alla decontestualizzazione di questo riuscitissimo e senz’altro geniale allestimento, quello della danza dei sette veli è purtroppo un momento che appare non adeguato. Per questo atteso passaggio la regia dissacrante e voyeuristica di Kosky immagina una soluzione del tutto inedita, originalissima se ci sta a cuore la stravaganza più che la realizzazione teatrale della partitura. Non dimentichiamo infatti che nell’opera la regia dovrebbe sempre prendere le mosse dalla musica, e anche dal libretto e, per una magna pars, in Strauss è la musica che si fa scena. Ma questo punto esibisce una discrasia tra testo e azione: nessun accenno alla danza, bandito ogni problema di movimento (che in genere può essere risolto anche con una controfigura), la figura di Salome resta immobile come per contrasto, ferma nella medesima posizione per tutto il tempo in cui si dipana il celebre brano vibrante di barbagli orientaleggianti. Cosicché assistiamo a una lunga e interminabile sequenza scenica fissa sul soprano che esclude di seguire l’andamento della musica.

Accovacciata per terra a gambe divaricate, nella posa di una bambola meccanica o di una donna scioccata o, forse, folle, in una dimensione tra visione onirica e realtà perversa, la principessa estrae dal proprio corpo, praticamente dall’interno delle cosce, o, chissà, dal pavimento, un interminabile filo costituito da spesse ciocche di capelli, una capigliatura che scorre tra le sue mani a metri e metri, e man mano la accumula davanti a sé, a formare una grande matassa, un mucchio di capelli che alludono alla chioma del Battista come simbolo del suo desiderio sfrenato e inappagato, ripetendo lo stesso movimento in modo maniacale e assurdo tanto quanto dura il brano, dunque per diversi minuti. Una sorta di delirio ossessivo, prolungato, monotono, insistito forse un po’ troppo.

A seguire, tra le trovate bizzarre di questa regia, Erode condivide e asseconda tale visione, avvolgendosi intorno al collo i fili delle lunghissime ciocche di capelli, ammaliato, come in un rituale tra sodali. Strampalata anche la presentazione dei personaggi secondari in tuniche con cappucci allungati, quali spauracchi di una setta segreta di massonica reminiscenza o fantasmi. Interessante la lunga scena di apertura, prima del levarsi della bacchetta del direttore, con il rumore sinistro di un forte battito d’ali diffuso ripetutamente a ondate, da una parte all’altra, intorno alla platea, e poi in alto, per tutto il teatro, mentre la figura di Salome appare sola, pallida e bellissima sul palcoscenico vuoto. Una citazione sconcertante che intende evocare l’immagine funesta del lugubre uccello che Erode sente volteggiare sul suo palazzo, come dirà in seguito. Sembra il sigillo della macabra sorte della protagonista e della sua storia tutta, e crea certamente grande suggestione.

Equilibri tra i personaggi: la scena è tutta di Salome, personaggio che si fa storia, dominando l’intero svolgimento tragico della sua degenerazione efferata. Lise Lindstrom è straordinariamente calata nel ruolo per la vocalità prorompente e corposa, sebbene, non sempre estremamente potente. Negli acuti rivela talora qualche fissità di suono ma si fa ascoltare, frase per frase, piena di personalità e di carattere. Costantemente a suo agio nelle proposizioni svettanti, grintosa nei passaggi di forza e dolcissima nelle frasi languide, tra il candore e l’estrema ferocia nello splendido monologo finale “Allein was tut’s?” la cantante americana rende con spirito formidabile la tragica inclinazione caratteriale di fondo di Salome e i suoi umori altalenanti, sapientemente studiati dalla regia, facendo propri gli ondeggiamenti della linea vocale e le movenze del tipo psicologico impostato alla volubilità del suo personaggio, agevolata altresì dalla prestanza fisica, necessaria al ruolo.

Ogniqualvolta il soprano si trovi a dialogare con Erode, il tenore inglese John Daszak, accade che entrambi siano protagonisti, insieme: contrapposti nell’alterità, quando lui le chiede di danzare e lei si nega; sfidanti, quando lei accetta di esibirsi per lui a patto di ricevere in cambio qualsiasi cosa gli domandi in cambio; nemici, quando lei gli chiede, implacabile, la testa del profeta e lui la prega di rinunciare allo scellerato desiderio, giungendo infine alla decisione di farla sopprimere. Un Erode adeguato, anche laddove soggiogato dalla giovane principessa, nonostante qualche lieve incertezza negli acuti, molto presente e sul piano vocale e sul piano attoriale.

Rispetto ai due, Erodiade, il mezzosoprano Katarina Dalayman, risulta una buona compagna di scena, ottima voce per il ruolo, evidentemente tornita e abbastanza potente nel confronto con un’orchestra poderosa, sulla quale tuttavia emerge talora con qualche difficoltà, così come, scenicamente, si impone senza particolare spicco, salvo raggiungere in alcuni momenti il vertice espressivo. La sua mise in tailleurino in tessuto armaturato modello Chanel la imborghesisce, evidenziano le scelte registiche orientate a evocare l’atmosfera torbida e le inquietudini del mondo tedesco fin de siècle e primo novecento, più che la regalità letteraria originale del ruolo. Del resto il Dramaturg Zsolt Horpàcsy non manca di sottolineare al dettaglio ogni particolare del clima suddetto che emerge di continuo negli atteggiamenti di questo spaccato psicodrammatico col trionfo di nevrosi, perversione, smarrimento, insoddisfazione, isterismo, gioco folle, inganno umano e altri mille risvolti.

I costumi di Katrin Lea Tag, sono ben assortiti nella loro voluta banalità. Peraltro il doppiopetto di Erode, anch’esso rispondente alla moda del filone borghese novecentesco, ha ormai fatto il suo corso, mentre paiono davvero splendide, invece, le elegantissime mise della protagonista, dalla sua prima comparsa in palcoscenico ancor prima dell’incipit orchestrale, con un’evidenza spettacolare eclatante: tutta biancovestita, circonfusa di chiarore dalla maxi-acconciatura art-déco carica di piume, imponente, stagliata sul buio generale con straordinario effetto, indossa un peplo dall’aplomb classicheggiate ma in perfetto stile anni ruggenti, inseguita dal fascio di luce che ambienta l’intera recita. Presentata quale figura inizialmente luminosa e abbagliante nel bianco candido, Salome tuttavia porta in sé soltanto il riflesso del pallore mortale.

Poco dopo sfoggia un secondo abito, anni ’20, ispirato all’argento lunare citato nel libretto, e sfaccettato in mille riflessi brillanti, che sembrerebbe di ispirazione scott-fitzgeraldiana, poiché evoca all’istante l’immagine di una Zelda trasfigurata in Tenera è la notte, ma potrebbe appartenere a una fatalona come Marlene Dietrich o alla tipologia di costumi da varietà americano. Fino a giungere, attraverso un meraviglioso satin lucido color fucsia, a un modello decisamente moderno e lineare, non privo di sicuro appeal, prima di scendere la scala delle gradazioni coloristiche in un diminuendo di luminosità e di bellezza del taglio sartoriale, non altrettanto gradevole nella mise della danza, per approdare al nero della consunzione del dramma.

In effetti Salome attraversa modi diversi di apparire: partita dalla chiarezza del bianco mentre un faro lontanissimo la illumina dall’alto a sipario vuoto, prima che tutto abbia inizio, conclude in un nero mortifero quando tutto va a compiersi, adeguato alla scelta finale di Kosky di far penzolare da un macabro gancio da macello la testa mozzata del profeta grondante sangue, con la quale la ragazza si trastulla in un gioco dai movimenti sadici, fino al bacio necrofilo, appassionato e carnale quanto delirante.

La figura di Jochanaan è ben interpretata dal baritono Nicholas Brownlee, del quale le luci studiatissime a ritmo di partitura da Joachim Klein, come pieni e vuoti tra luce e ombra in sincronia con entrate e uscite dei personaggi, concorrono a porre molto in risalto la fisicità illustrata dalle suadenti e poetiche metafore del testo, nell’insieme condizionata dall’impiego delle buffe braghe indossate dal prigioniero. Egregiamente presente anche negli interventi fuori scena, la sua voce è profonda, ben timbrata e calda, e possiede energia bastevole a tenere testa ai capricci e alle implorazioni di Salome fino a maledirla.

Gli altri personaggi, l’innamorato Narraboth interpretato dal tenore Joel Prieto, e il paggio di Erodiade interpretato dal mezzosoprano Karina Kherunts, non godono di molto risalto se non per brevi momenti, tuttavia si inseriscono esattamente nel contesto partecipandovi con intelligenza ed efficacia. Ottimi in generale tutti gli interpreti.

In definitiva, l’idea di lasciare che i personaggi riescano da soli a costituire la scena, di sicuro coadiuvati dal plastico sistema delle luci, risponde a un criterio essenziale in quanto, in un’opera di Strauss, categoricamente, è affidato all’orchestra il compito di definire i personaggi e le loro emozioni. È la musica la grande protagonista ed è suo tramite che tutto viene definito in modo assoluto, soverchiante, apoteotico.

E in effetti questa lettura del capolavoro straussiano che precede l’Elektra lascia esterrefatti, con la sensazione di avere gustato una bellezza musicale irrefrenabile, oltremodo geniale e moderna, e, parimenti, di attraversare un inferno psichico che, come ha preannunciato Barrie Kosky, lascia davvero inquieti e turbati.

Salome di Richard Strauss, al 7 al 16 Marzo 2024, Teatro dell’Opera di Roma

direttore Marc Albrecht, regia di Barrie Kosky

 

Erode (Tenore) – John Daszak

Erodiade (Mezzosoprano)- Katarina Dalayman

Salome (Soprano)- Lise Lindstrom

Jochanaan (Baritono)- Nicholas Brownlee

Narraboth (Tenore)- Joel Prieto

Un paggio di Erodiade (Contralto)- Karina Kherunts

Primo ebreo- Michael J. Scott

Secondo ebreo- Christopher Lemmings

Terzo ebreo – Marcello Nardis

Quarto ebreo- Eduardo Niave

Quinto ebreo / Secondo soldato- Edwin Kaye

Primo Nazareno / Primo soldato- Zachary Altman

Secondo Nazareno- Nicola Straniero

Un uomo di Cappadocia –Daniele Massimi

Uno schiavo- Giuseppe Ruggiero

 

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