Negli anni ’90, quando si iniziava a parlare su larga scala di ADHD, lo psicologo James Swanson fu tra i principali promotori della ricerca sui trattamenti disponibili. I dati sembravano confortanti: i farmaci stimolanti come il Ritalin funzionavano, miglioravano nettamente il comportamento dei bambin e la diagnosi sembrava fondata su solide basi. Ma con il tempo, quel che è emerso è una storia molto più complessa e inquietante.
Dopo 36 mesi di trattamento, i vantaggi dei farmaci sparivano del tutto. I bambini che li prendevano da anni non stavano meglio di quelli che non li avevano mai presi. Anzi: crescevano di meno e, a distanza di 9 anni erano ancora, in media, un pollice più bassi. Eppure, in clinica, si continua a prescrivere Ritalin o Adderall come se la diagnosi di ADHD fosse qualcosa di chiaro, netto, identificabile biologicamente. Tuttavia, ancora non lo è. Nessuno studio ha trovato un biomarcatore affidabile. Non c’è una differenza cerebrale inequivocabile. Non c’è un gene e non c’è un confine preciso che distingua chi “ha” e chi “non ha” l’ADHD.
Il problema è che si continua a pensare all’ADHD come a una malattia del cervello, una sorta di diabete neuronale. Ma la scienza più recente dice altro: molti sintomi derivano dal contesto, dall’ambiente in cui una persona è inserita. Un bambino annoiato in una scuola rigida mostra sintomi che spariscono quando studia qualcosa che lo appassiona. Un ragazzo con difficoltà a concentrarsi in classe può essere totalmente focalizzato se lavora in officina o su un set cinematografico. Forse non è il cervello a essere disfunzionale, ma l’ambiente a essere inadatto.
Eppure, i farmaci funzionano. All’inizio. L’effetto è visibile, forte, quasi euforizzante. Ma non migliora la capacità di apprendere, né la performance a distanza di tempo. I bambini stanno più fermi, fanno più esercizi, ma non imparano di più. Studi recenti mostrano che sotto stimolanti si lavora più intensamente, ma non più efficacemente. Inoltre, se si chiede ai ragazzi, molti dicono che dopo un po’ il farmaco “non funziona più” o, peggio: “Mi spegne”, “mi fa sentire meno me stesso”. Non a caso, la maggior parte degli adolescenti smette di prendere le medicine entro un anno.
C’è anche il rischio che la diagnosi stessa, quando trasmessa come un “difetto del cervello”, produca effetti negativi: stigma, senso di inferiorità, isolamento. In alcuni casi, il farmaco può aiutare a migliorare la relazione tra genitori e figli, a contenere il conflitto. Tuttavia , se viene vissuto come una terapia per “correggere” una persona che non è come dovrebbe essere, può fare più male che bene.
I ricercatori oggi propongono un altro approccio. Invece di cercare di correggere la biologia, si può lavorare sull’ambiente. Aiutare i ragazzi a trovare il loro “niche”, il contesto in cui possono funzionare, imparare, essere se stessi. L’ADHD, dicono, non è un’entità fissa, ma un fenomeno dinamico che si manifesta più o meno a seconda di dove sei, cosa fai, come vieni trattato. I sintomi vanno e vengono. Quello che servirebbe è meno rigidità diagnostica e più flessibilità educativa, familiare e sociale.
Alla fine, ciò che può fare la differenza non è una pillola, ma la possibilità di crescere in un ambiente che riconosca la complessità delle menti e che accolga la diversità come una risorsa. Perché forse, a ben vedere, non si tratta di aggiustare le persone, ma di adattare il mondo (1).
TUTTAVIA, c’è una domanda che non possiamo più evitare: perché l’ADHD è più frequente in aree inquinate?
Una metanalisi del 2022 (2), la quale ha arruolato oltre 130.000 bambini, ha mostrato che l’esposizione al piombo e ai metalli pesanti raddoppia il rischio di sviluppare ADHD. I dati sono robusti, la probabilità non è un caso. Nel 2022, una ricerca ha fornito prove chiare sul fatto che vivere vicino ad impianti petrolchimici aumenta il rischio di sviluppo dell’ADHD nei bambini (3). Nel 2024, una revisione sistematica ha confermato che vivere vicino a siti ad alto rischio di trattamento di rifiuti può contribuire a disturbi cognitivi e comportamentali nei bambini (incluso ADHD) (4). Inoltre, nel 2021 una indagine geospaziale ha documentato che i bambini che vivono entro 10 miglia da centrali a carbone presentano una maggiore incidenza di ADHD (5). Le centraline misuravano il particolato direttamente in casa. I dati non sono opinioni.
Ma c’è un altro capitolo ancora troppo trascurato: gli inceneritori di rifiuti urbani. Anche i moderni impianti dotati di filtri avanzati emettono polveri ultrafini (PM0.1), particelle invisibili ma altamente penetranti, portatrici privilegiate di metalli pesanti come il piombo e composti organici tossici. Queste polveri non solo sfuggono ai sistemi di filtrazione, ma si formano anche dopo la combustione, come prodotto secondario. Le polveri ultrafini sono legate a infiammazione sistemica, patologie cardiovascolari e neurotossicità (6). Risulta, dunque, fuorviante parlare di “impianti sicuri” se non si affronta il nodo delle nanoparticelle anche come vettore di inquinanti come il piombo la cui esposizione aumenta il rischio di ADHD.
Infine c’è la guerra. La guerra è tutti questi fattori insieme: piombo, traumi, interruzione degli affetti, fame, esposizione cronica a paura e instabilità. La guerra è l’ambiente neurotossico assoluto. Chi la subisce da bambino, anche se sopravvive, porta le sue ferite dentro. L’ADHD in quei casi non è un’etichetta: è un sintomo del mondo.
Per questo, la vera sfida non è solo curare, ma prevenire. Costruire ambienti che non feriscano. Vivere lontano da centrali a carbone, da raffinerie, da discariche tossiche e da inceneritori di rifiuti. Garantire aria pulita, scuole stabili, affetti continui. Solo così avremo meno bambini da “comprendere”, perché avremo protetto le loro menti prima che si ferissero.
La prevenzione è la prima cura. La comprensione viene subito dopo, ma solo se non abbiamo ignorato l’ambiente che stava ammalando i nostri figli.
Riferimenti principali
1. The New York Times Magazine. The ADHD generation. April 13, 2025. https://www.nytimes.com/2025/04/13/magazine/adhd-medication-treatment-research.html
2. Dalla Bernardina M, Tovo-Rodrigues L, Nardocci AC, et al. Environmental pollution and ADHD: A meta-analysis of cohort studies. Environ Pollut. 2022;315:120351. https://doi.org/10.1016/j.envpol.2022.120351
3. Huang C, Wang Y, Lin T, et al. Living proximity to petrochemical industries and ADHD risk in children. Environ Res. 2022;212A:113128. https://doi.org/10.1016/j.envres.2022.113128
4. Zhang CH, Liu H, Wang Z, et al. Proximity to coal-fired power plants and neurobehavioral symptoms in children. J Expo Sci Environ Epidemiol. 2021;32(1):124-134. PMCID: PMC8275639
5. Miotto E, Tartaglione AM, Iavarone I, Ricceri L, Zona A, et al. Neurodevelopmental outcomes in children living near hazardous waste sites: A systematic review. Int J Environ Health Res. 2024. https://doi.org/10.1080/09603123.2024.2384963
6. Ghirga G. Exploring the impact of municipal waste incineration on PM2.5-related cardiovascular mortality. Re. BMJ. 2024;384:e076322. Published 2024 Dec 6. https://www.bmj.com/content/384/bmj-2023-076322/rr-0
Giovanni Ghirga
Pediatra