di CINZIA DICHIARA-
Ha del rituale religioso, quale pellegrinaggio, l’andata a Torre del Lago per il Festival Puccini. File di seguaci, melomani, artisti, appassionati, turisti, qualche curioso desideroso di fare l’esperienza dello spettacolo sotto il cielo pucciniano, percorrono in processione il breve e ameno tragitto fino al teatro, lungo un vialetto alberato, illuminato dalle scritte appese ai rami dei titoli pucciniani, che pendono da un lato all’altro della strada e si susseguono fino al cancello di accesso, dal quale si attraversa il parco attrezzato con bar, panchine, ampie zone verdi di ristoro e grandi sculture di Mitoraj.
Per la settantesima edizione del Festival Puccini, che quest’anno ha coinciso con il centenario della scomparsa del Maestro, la sera del 7 settembre, nel Gran Teatro all’Aperto di Torre del Lago, a 120 anni dalla catastrofica prima alla Scala di Milano, si è svolta l’ultima recita in cartellone di Madama Butterfly, una delle opere liriche più famose al mondo, protagonisti Marina Medici e Vincenzo Costanzo, con l’Orchestra e il Coro del Festival Puccini diretti rispettivamente da Jacopo Sipari di Pescasseroli e da Roberto Ardigò.
Di primo acchito è evidente che siamo di fronte a un allestimento colto e raffinato: i personaggi si muovono nei loro costumi stilizzati ed eleganti ispirati alla tradizione, con portamento misurato e con la dignità che si conviene a un mondo millenario, colto nell’atmosfera antichissima del sacrificio rituale dei samuray che si scontra con la modernità americana di Pinkerton.
Questo affascina e stupisce, lasciando tutti felicissimi di una mise en scène che risulta concepita sulla base di un’ars combinatoria di leibniziana memoria, presupponendo un mondo concettuale simboleggiato in segni, architetture, costumi, movenze dei protagonisti, luci ecc., associati singolarmente e nell’insieme, in modo da fornire una sorta di mappa complessiva inequivocabile nell’unitarietà: “la scomposizione di concetti composti in nozioni semplici e riducibili”, secondo lo storico della filosofia Paolo Rossi.
La regista Vivien Hewitt realizza infatti un allestimento attento, delicato, molto ordinato e compassato, eppure fantasioso e variegato, nonostante l’adeguatezza alla modernità che pure conferisce all’intero spettacolo uno smalto singolare, mai banale. Ben collaudato, esso è stato riproposto più volte nelle edizioni del Festival Puccini successive al 2000, allorquando nacque in seno al progetto “Scolpire l’opera”, basato sull’unione simbiotica delle arti figurative con l’arte drammaturgica.
Lo scultore Kan Yasuda vi realizza l’idea di un Giappone di fantasia, sospeso nel tempo ma ben presente nel simbolismo di strutture scultoree grandiose e imponenti, le cui rigorose geometrie assurgono a forme monumentali dalla valenza spirituale e teologica, come la porta che nel secondo atto che sembra alludere a un tempio quale accesso al divino. Posizionati al centro del palcoscenico a contrassegnare i tre atti dell’opera, gli elementi architettonici si stagliano verso l’alto, ai bordi di un piano inclinato che simboleggia la collina di Nagasaki. Sono realizzati con essenzialità estrema quanto marcata, basti considerare la levigatezza marmorea e lucida delle forme tondeggianti del primo atto, che con la loro liscia fisicità evocano un’ambientazione astratta, eppure definita quale sfondo metafisico ancorato a forze primordiali.
Elementi lineari e stilizzati, la cui potenza emblematica è accentuata a dovere dalle luci sapienti del light designer Gianni Paolo Mirenda, il quale sa assecondare e mettere in risalto le diverse fasi drammaturgiche, alternando all’uopo tinte dirompenti o ammalianti e potenziando il carattere generale di sacralità sotteso a un apparato sociale ancestrale e al suo sistema di valori.
Tutto questo ben si addice a una recitazione molto elegante, forse apparentemente priva di slanci, in cui i personaggi si muovono a ogni piè sospinto consci di possedere una valenza cosmica e una funzione vicina alla liturgia, mediante una gestualità semplicissima, sempre misurati e ben coordinati. Altrettanto le coreografie, anch’esse figurative e simboliche: bellissima la processione nuziale, efficace l’ingresso dei bonzi; mistica la scena conclusiva con l’assistenza di figure ieratiche; poste in ottimo risalto l’angoscia di Suzuki e la tenera presenza del bambino; toccante, anche se affatto viscerale, la fine, con il sacrificio ultimo.
Una nota anche per i magnifici costumi orientaleggianti della stilista Regina Schreker, la quale opta per un’eleganza sobria scegliendo una forma leggera ma quasi protocollare, in accordo con l’atmosfera spirituale sui toni del bianco puro, nella tradizione giapponese colore dell’innocenza, della verità, e inoltre del lutto, e con trasparenze aeree, secondo la visione perfetta del mondo arcano e antichissimo che predomina. Trionfante sulla scena il kimono rosso fuoco di Cio- Cio- San, colore anch’esso sacro e rituale, che, come peplo regale, sembra ammantare l’intera realtà del dramma, basato sull’omonimo “Madame Butterfly” del commediografo statunitense David Belasco, a sua volta ispirato a un racconto di John Luther Long, prima di essere trasposto in libretto da Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, che trassero spunto anche dal romanzo di ambientazione nipponica “Madame Chrysanthème” di Pierre Loti.
Rientra in tale quadro di raffinata poesia l’incantevole soluzione scenica del ‘duetto dei fiori’ del secondo atto, con l’ondeggiare nell’aria di petali rosati che vagano scendendo sulla scena sospinti dal vento. Una visione che richiama la cultura del decadenismo fin de siècle, allorquando si diffonde, con l’Exposition parigina del 1867, la moda del Japonisme. Il suo effetto tenue e soave sembra per un attimo allontanare lo scontro drammatico tra le due culture d’oriente e occidente che dà luogo all’azione.
La trama, dolorosissima, è nota: tramite un sensale, il tenente Pinkerton sposa la dolcissima Cio-Cio-San, che per lui rinnega origini, religione, famiglia e viene ripudiata dallo zio, illudendola di una vita insieme, nonostante sappia già che si tratta di un capriccio, e quindi si allontana. Fiduciosa, la poverina lo attende a lungo, dando alla luce un figlioletto, finché al suo ritorno, tre anni dopo, appreso che è sposato con un’americana e vuol condurre con sé il bambino, decide di suicidarsi col harakiri.
E veniamo a Marina Medici, protagonista nel ruolo di Cio- Cio- San che ha interpretato, fin dal suo ingresso nel primo atto con il coro femminile in “Ah! Quanto cielo! Quanto mar!”, con tensione talora evidente per l’importante debutto. Ciò le ha causato qualche problema di intonazione, un paio di acuti malriusciti, nonché l’elisione di qualche parola. Tuttavia il soprano ha saputo dominare la situazione ed emergere in alcuni momenti più soddisfacenti. Certo, la sua aria più famosa, “Un bel dì, vedremo”, nel secondo atto, è risultata forse un poco scialba, comunque abbastanza sentimentale in quanto intonata con una rotondità vocale gradevole che è stata comunque applaudita.
Ha toccato punte di commozione nel lirismo del duetto d’amore “Vogliatemi bene, un ben piccolino” nel finale del primo atto, fino a momenti di maggiore drammaticità nei colloqui con Suzuki, apparendo generalmente sensibile ma non troppo coinvolgente. In definitiva il soprano ha inteso mettere in luce una protagonista volitiva, decisa e imbevuta di fiducia per la purezza incontaminata del proprio cuore, per la certezza della propria fedeltà a oltranza. Nobile e mai patetica, grazie alla composta dignità anche nel dolore, è riuscita ad avere inflessioni di passaggio spiritose e brillanti, tenere e dolci, o accorate fino alla disperazione come in “Tu, tu piccolo Iddio!“ del finale del terzo atto in cui le emozioni si amplificano, sebbene costantemente calcolata nelle movenze secondo dettami registici elegantemente funzionali al contesto. In generale ha mostrato una buone e coerente tenuta del difficile ruolo fino al violento epilogo, e ha offerto comunque un’immagine bellissima del suo personaggio, con una fine sobrietà che conquista.
Spavaldo a iosa il suo giovane compagno di scena Vincenzo Costanzo, nel ruolo, interpretato in oltre cento recite, del tenente della marina degli Stati Uniti Pinkerton, che il tenore riveste e padroneggia con bravura e stile, distinguendosi nel cast e facendo presa sul pubblico. Grazie alla presenza scenica e al bel timbro vocale riscuote ovazioni nonostante qualche difficoltà incontrata nella tessitura alta.
Se nel primo atto, con l’aria “Dovunque al mondo”, comincia a scaldarsi, in seguito si impone nella recitazione del superficiale avventuriero invaghito della graziosa geisha con “Bimba dagli occhi pieni di malìa …”, duetto d’amore in cui esibisce un ventaglio seducente di inflessioni espressive, fraseggiando con sensibilità dopo aver sfoderato un carattere estroverso, ottimista e sicuro di sé.
Nel secondo atto con “Addio fiorito asil” risaltano ancora il fraseggio, la precisa dizione, i colori, nonché gli acuti sicuri e la capacità di coinvolgere con il timbro pieno e caldo, che gli fanno guadagnare il pieno favore del pubblico.
Il baritono Sergio Bologna nel ruolo di Sharpless, console degli Stati Uniti a Nagasaki, riscuote clamoroso successo, sebbene la sua interpretazione risulti non proprio eccezionale ma, anzi, piuttosto ‘nella norma’, sia nella recitazione sicuramente appropriata ma non particolarmente caratterizzata, sia nella vocalità, che pur nella dizione piuttosto accurata risulta talora opaca non brillando negli acuti. Evidente la lunga consuetudine con tale ruolo che l’artista riveste di adeguata autorevolezza, evidenziando la sua capacità comunicativa nel dialogo finale con Cio- Cio- San.
Suzuki, la devota ‘servente’ di Cio-Cio-San è interpretata da Anna Maria Chiuri, mezzosoprano dalla vocalità energica, il cui timbro ambrato nonostante qualche imprecisione interviene a rendere efficace ogni suo intervento in scena. Grazie alla capacità drammatica e alle qualità vocali, commuove nella toccante invocazione agli dei giapponesi e sostiene ogni dialogo con Butterfly manifestando viva partecipazione alla tragedia della sua signora, tanto da rasentare il ruolo di una madre.
Il negativo personaggio di Goro, nakodo (sensale) interessato e subdolo che ha favorito le ingannevoli nozze della innocente Cio-Cio-San col vanesio Pinkerton, è reso dal tenore Manuel Pierattelli con verosimiglianza di accenti e di mimica, sebbene con una potenza di voce non particolarmente emergente.
Bisogna tendere l’orecchio nell’ascoltare il Coro di Roberto Ardigò quando, nel primo atto, esegue il celebre brano “a bocca chiusa”. La sonorità flebile e dolcissima raggiunge appena le gradinate, forse per il numero di coristi, tuttavia ciò non impedisce di percepire una meravigliosa timbrica, screziata e evocativa come una preghiera. Nella scena del matrimonio è evidente la morbidezza di sonorità, che nella scena della veglia notturna risulta particolarmente amabile.
Appare versatile e determinata la direzione di Jacopo Sipari di Pescasseroli, il quale, da maestro concertatore, ha molta cura della cooperazione col palco, segue attentamente ogni cantante e tiene l’intero insieme con estrema padronanza e capacità di coordinamento, sfruttando anche un’agilità fisica che gli permette di imprimere accenti, di inviare attacchi, di segnalare entrate con disinvolta perizia e spesso con una foga trascinante, riuscendo a comunicare in modo dinamico e vigoroso la propria intenzione anche nella ricerca di tracciare orditi ed evidenziare livelli sonori ed espressivi nella trama strumentale. L’Orchestra del Festival risponde inizialmente con qualche incertezza, per raggiungere man mano una compattezza organica col procedere scorrevolmente evidenziando bei timbri e sonorità sfumate, anche se talora manca della necessaria profondità tragica.
Uno spettacolo nel complesso riuscitissimo, che rimane impresso per la sua valenza suggestiva.
La recensione si riferisce alla recita del 7 settembre 2024
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in due atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini (Prima rappresentazione Milano, Teatro alla Scala 17 febbraio 1904)
Personaggi e interpreti
Cio Cio San –Marina Medici
B.F. Pinkerton – Vincenzo Costanzo
Suzuki – Anna Maria Chiuri
Sharpless – Sergio Bologna
Goro – Manuel Pierattelli
Il Principe Yamadori – Italo Proferisce
Lo Zio Bonzo – Gaetano Triscari
Il Commissario Imperiale – Enzo Ying
L’Ufficiale del Registro – Alessandro Ceccarini
Kate Pinkerton – Claudia Belluomini
La Madre – Maria Salvini, La Zia – Greta Buonamici, La Cugina – Irene Celle
Yakusidè – Rocco Sharkey
Dolore – Nicholas Ori
Assistente alla regia – Stamatia Nefeli Spyropoulou
Scenografia- Kan Yasuda
Light designer – Gianni Paolo Mirenda
Sound designer – Luca Bimbi
Costumi – Regina Schrecker
ORCHESTRA E CORO DEL FESTIVAL PUCCINI
Direttore- Jacopo Sipari di Pescasseroli
Maestro del Coro – Roberto Ardigò
Regia-Vivien Hewitt