Soriano nel Cimino, il posto più vicino al Paradiso

di DANIELA PROIETTI-

SORIANO NEL CIMINO (Viterbo) – Sono tornata ad affacciarmi sul balcone dei Cimini nell’ultima domenica d’estate. Il cielo non prometteva bene. Delle grandi nuvole violacee, oscuravano quel sole di cui non si è mai sazi. Sarà che sono nata al centro dell’estate e le lunghe giornate calde non hanno mai fatto altro che donarmi energia. L’autunno, per contro, lo percepisco come quello della vita, un cammino verso il termine.

Soriano nel Cimino si ergeva, maestoso come al solito, illuminato da una tenue luce che di tanto in tanto faceva capolino tra le nubi cariche di quella pioggia che avrebbe benedetto le terre di Tuscia, assetate da oltre due mesi trascorsi senza che piovesse, per una settimana intera.

Ma l’acqua, la prima acqua che abbiamo incontrato sul nostro percorso, è stata quella limpida e gelida che sgorga dalla monumentale Fontana di Papacqua, uno dei simboli del comune montano, che sorge nelle vicinanze dell’ingresso posteriore del grande e massiccio Palazzo Chigi Albani.

La fonte, dalle notevoli dimensioni, sebbene proporzionate all’edificio che la sovrasta e che viene anche denominata Regina delle Acque, rappresenta un elevato esempio di quello stile manierista che imperava in Italia nel ‘500. Alle sue pareti sono scolpiti ben 15 mascheroni da cui l’acqua fuoriesce, che arrivano sino alla rappresentazione di Mosè, immortalato nell’azione di scuotere un masso da cui sgorgherà il prezioso liquido che andrà a dissetare gli ebrei che imploravano di bere. Le figure hanno un significato allegorico legato al bene e al male.

La mano che scolpì il vasto complesso architettonico fu quella di Giovanni Bricciano da Fiesole.

Accanto alla fontana, alcuni anni, fa c’era un bar e un piccolo parco in cui vedevo giocare dei bambini. Ho sempre pensato che vivere in un piccolo centro costituisca una valore aggiunto nella prospettiva delle relazioni sociali. Domenica pomeriggio nel piccolo giardino non ho visto nessuno: probabilmente era troppo presto o, forse, anche in un comune di provincia le abitudini sono cambiate.

Ci siamo fermati giusto il tempo di scattare qualche foto alla grande fonte e poi, attirati dalle alte pareti del palazzo sovrastante, abbiamo cercato la via più breve per raggiungerlo e visitarlo.

La strada ripida che conduce al palazzo, ci ha messi alla prova. Nonostante il cielo carico, le temperature erano ancora piuttosto alte e l’aria, pesante, ci affaticava. Man mano che la si percorre, si guadagna una posizione dominante e il panorama, scoprendosi, si rivela. L’aria non era purtroppo tersa e la visibilità risultava piuttosto scarsa.

Siamo giunti di fronte al grande arco che introduce nella dimora rinascimentale. La sensazione che ci ha trasmesso è quella che si riserva agli edifici che hanno perso il lustro donato loro dalla mano degli architetti e dalle importanti famiglie che, vivendo in essi, ne curavano l’aspetto e i contenuti.

Nella seconda metà del XVI secolo, il feudo di Soriano venne donato da Papa Pio IV (Giovanni Angelo Medici), noto per aver portato a conclusione il Concilio di Trento (convocato a seguito della diffusione della riforma protestante in Europa, da cui nacque, poi, la Controriforma), alla nobile famiglia trentina dei Madruzzo, come ricompensa per aver ospitato nella propria città tale congresso. Ai territori donati, si aggiunsero quelli di Bassano e Gallese.

I signori proprietari del feudo, come prima cosa, iniziarono i lavori di restauro della Rocca e l’edificazione, appunto, di Villa Papacqua. La costruzione dell’edificio, avrebbe dovuto rappresentare per la famiglia trentina un passo che la avrebbe avvicinata alla magnificenza delle famiglie Orsini e Farnese, che erano impegnate nella costruzione di grandiose residenze nei borghi di Caprarola e Bomarzo.

Nell’anno 1715, la famiglia Albani acquistò la Rocca, ultimò la costruzione del Palazzo di Papacqua e operò anche allo scopo di restaurare diversi monumenti. Un secolo dopo, il feudo di Soriano passò sotto il controllo di Agostino Chigi, un discendente degli Albani e, nel 1848, i Chigi, seppur restarono proprietari del palazzo, rinunciarono ai propri diritti in favore dello Stato Pontificio.

Abbiamo ammirato una volta ancora la vista che si gode dalla terrazza del palazzo e ci siamo poi incamminati per una scalinata, tanto lunga da far venire il fiato corto, che collega quella zona al centro del paese. Ci siamo inoltrati nei vicoli tortuosi che ci avevano visti qualche settimana addietro e siamo giunti di fronte alla sede del comune e all’adiacente Chiesa di Sant’Agostino, originariamente denominata Chiesa della SS Trinità, costruita sul finire del XVIII secolo in stile barocco neoclassico.

La via in discesa, in grado di ristorare la muscolatura delle nostre gambe ci ha condotti su quella piazza centrale da cui, proseguendo, ci si introduce nel borgo vecchio.

L’alta Porta del Ponte che nel medioevo, epoca della sua costruzione, segnava il principale accesso al borgo, era originariamente attorniata da un fossato e corredata di un ponte levatoio. Fu oggetto di ampliamenti e decorazioni durante il XVIII secolo. Venne tristemente distrutta durante i bombardamenti aerei che colpirono il paese, il 5 giugno del 1944, ma fu ricostruita rispettando le precedenti linee circa cinque anni dopo.

In questa nostra ultima visita, abbiamo scelto di non introdurci nel cuore di Soriano, non avevamo molto tempo, ed eravamo stati accarezzati dall’idea di compiere una gita naturalistica nei pressi dell’abitato. Così, siamo ridiscesi verso la via che costeggia il belvedere con l’intento di scattare qualche foto alla vallata che si trova ai piedi del Monte Soratte. Per nostra sfortuna, l’aria non era affatto pulita e del monte si intravedevano soltanto i profili decisi e ripidi che ne fanno una cattedrale nel deserto.

Al termine della via, un alto e imponente palazzo, con la facciata interrotta da un solo piccolo balcone, ha attirato la mia attenzione portandomi a immaginare come fossero gli interni, e quante persone avesse visto albergare in esso. Di fronte, posta più in basso, la scuola del paese, che riporta, gloriosa, l’iscrizione “Scuola Elementare”.

Siamo montati di nuovo in macchina e siamo giunti, percorrendo la lunga va in salita stretta tra due fitte schiere di case, alla porta che guarda a sud, Porta Romana, realizzata nel XVIII secolo.

Questa segna l’ingresso dal lato meridionale e per arrivare ad essa da fuori il paese, è necessario aver attraversato i Monti Cimini, la spaventosa e fitta selva che tanti timori incuteva a quanti, nell’antichità, si avventuravano in essa. La particolarità di questo elemento architettonico consiste nella somiglianza, perfetta, con Porta Pia, capitolina e progettata dal Buonarroti. Realizzata in peperino, a differenza della più famosa Porta Pia, venne fatta costruire dal Principe Carlo Albani, con il fine di delimitare l’abitato.

Siamo usciti dal paese, e muovendoci sulle strade curvose e in salita, siamo giunti al bivio che apre la strada verso la rigogliosa Faggeta, una ricchezza che spesso dimentichiamo di avere.

La strada per raggiungere la sommità del Monte Cimino, che si eleva 1053 m s.l.m. e rappresenta la cima più alta della catena dell’Antiappennino Laziale, si snoda per circa 5 km. Al suo culmine un ampio parcheggio attorniato dagli alti e secolari alberi. La faggeta ha un’ estensione di circa 50 ettari, ed è tra le più maestose ed imponenti dell’Italia centrale.

Il monte, in un’era remota, tanto remota da farne il più antico del Lazio continentale (entrò nella fase di inattività circa 800 000 anni fa), era un grande vulcano. La sua altitudine ne fa anche il più alto della regione.

Diversi sono i punti di interesse, tra questi la Rupe Tremante (Sasso Naticarello), un enorme masso dalle dimensioni di 8x6x3 e dal peso di 250 tonnellate che si riesce a farlo muovere facendo leva su un bastone , celebrato anche da Plinio il Vecchio), i vari Massi Trachitici, gli altissimi e snelli faggi secolari e la torretta in vetta.

Nel corso della vita, tante volte ho passeggiato sotto gli alti fusti che la compongono. L’ingresso è spettacolare, ci si ritrova in pochi metri al di sotto di un cielo fatto di rami e di foglie. Il sole, nella stagione estiva, quando è molto alto, riesce ad insinuarsi tra le altissime chiome e a toccare con i suoi coni di luce il terreno perennemente ricoperto da una coltre di foglie.

Da bambini, quando il Comune di Viterbo organizzava i “Campi solari”, antenati degli odierni centri estivi, ci recavamo con gli scuolabus in questo paradiso naturale e ci divertivamo a rincorrerci per le lunghissime salite e, ancor più spesso, ci rotolavamo come fossimo state delle ruote impazzite. Raggiungevamo gli enormi massi lavici e giocavamo a nasconderci dietro di essi sfruttando le loro enormi dimensioni.

Sono tornata con i miei bambini, e abbiamo raggiunto la vetta, un po’ a fatica, ma con la promessa che, scendendo, avremmo fatto a gara a chi sarebbe arrivato prima. L’ho poi frequentata in altri momenti, e mi sono resa conto, senza essere troppo stucchevole, di quanto quel posto fosse vicino al Paradiso.

 

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