“Splendon le sacre faci, splendono intorno!”

di CINZIA DICHIARA-

Ieri sera la prima di Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti (1797-1848), alla Scala fino al prossimo 5 maggio

 Grande successo riproposto, come fece Roberto Abbado nel 2006, nel rispetto della partitura integrale e dunque senza i consueti tagli nelle parti di Lucia con Raimondo, nonché nella parte di Enrico. Reintrodotta in organico anche la glassharmonica, più nota come armonica a bicchieri, strumento idiofono dal suono penetrante in grado di produrre finanche il turbamento psichico, altamente coadiuvante nella scena della follia.

Un’opera grandiosa: tinte fosche incombenti di continuo, atmosfera gotica dominante, laceranti dichiarazioni e accorati appelli, in un mondo ove impera la falsità degli intrighi, cova la violenza e le emozioni risaltano evidenti.
Melodia, armonia e ritmo, trasmettono musicalmente un’impronta di assonanza risorgimentale, soprattutto nelle scene corali, vibranti di appassionato ‘800 e, vagamente, di qualche lontana eco di cori patriottici, nonostante siano calate dal libretto sul finire del ‘500, secondo l’ambientazione originaria scozzese del romanzo The bride of Lammermoor di Walter Scott (1771-1832), da cui l’opera è tratta su libretto di Salvadore Cammarano (1801-1852), e, per l’occasione traslata, con un deciso volo pindarico, nello stile che ammicca agli ‘anni ruggenti’ dai costumi di Jannis Kokkos. Questi evitano in toto i paludamenti teatrali in favore di mise piuttosto semplici, fluide, stylé, eccezion fatta per taluni stereotipi come il giaccone di pelle, indumento must degli allestimenti innovativi, divenuto convenzionale come negli anni ‘70 l’eskimo e il borsello a tracolla dei contestatori d’avanguardia.

In linea con l’attuale visione delle cose del palcoscenico lirico, fa glamour e fa tendenza una certa finezza della recitazione, sobria, essenziale, dalla gestualità contenuta, cosi come sono ormai da tempo di prammatica i ‘costumi d’insieme’ omogenei, per i gruppi corali, nozioni, anche queste, rispettate alla lettera dalla regia.

Ma quanto romanticamente intimisti e poetici gli ‘accenti’ e gli ‘affetti’ nelle arie! In esse, come in un pianto, o in un grido, in un appello disperato, in un abbandono o in un addio, una gamma ricchissima di sentimenti è declamata ed espressa in modo quasi sovrastante. Altrettanto nei brani d’insieme, capolavori di afflato lirico. Quant’è vero che Donizetti è il precursore di Verdi!

Un plauso ai solisti, pressoché impeccabili, padroni del loro strumento e del palcoscenico. La Oropesa, osannata dal pubblico, grazie alla duttilità vocale sua propria, ha toccato momenti di grazia infinita, sottolineati da applausi compatti di un pubblico in visibilio, pur talora mancando di sottolineare con la sua squisita sensibilità passaggi apparsi in qualche modo sfiorati. Le sue decantate capacità attoriali, misurate per volontà registica, risultano incisive nei tratti del dolore e dell’angoscia, fino a convincere per sempre, allorquando la sfortunata va fino in fondo al suo destino, inesorabilmente, animando un colpo d’occhio scenografico eclatante, con l’indossare l’immacolato abito da sposa imbrattato di sangue vivo, sullo sfondo del palcoscenico e del sipario, tutto nero, tinta scelta a contrassegnare senza soluzione di continuità la tragedia, quale leit-motiv visivo.

Semplice ma decisamente apprezzabile dettaglio è che la mise en scène eviti con intelligente discrezione di ricorrere agli attuali dispositivi tecnologici che generalmente abbondano e imperversano sulle scene, talora insistendo con soluzioni finanche distraenti. Forse non troppo accattivanti le statue, usate non tanto in funzione esornativa, quanto con una carica simbolica, rese tuttavia attraenti dalle ottime e ben tagliate luci. Davvero suggestiva la boscaglia cupa e lugubre, un dejà-vu presentato con innegabile maestria e non senza fascinazione.

Tra i personaggi, anche Juan Diego Flórez, tenore rossiniano impegnato nella parte di Edgardo, è parso una figura dallo smalto ammirevole, soprattutto per la dimostrata dimestichezza.

 Valido altresì Enrico, il baritono Boris Pinkhasovich, distintosi per la vigoria vocale. Amatissimo il registro di basso di Michele Pertusi, che interpreta brillantemente Raimondo, mentre il tenore Leonardo Cortellazzi, riveste il ruolo del ricco lord Arturo. Il coro, poderoso. Insomma ce n’è abbastanza per godere di uno spettacolo struggente dall’inizio alla fine: la partitura è, di per sé, potentissima.

L’orchestra scaligera diretta da un Riccardo Chailly ormai capitano di lungo corso in perfetta sintonia con i professori altresì con l’opera e col suo autore, ha assecondato il tutto con vivezza e completezza di sfumature, di volta in volta introducendo e accompagnando con stile ogni fase, ogni personaggio, ogni sentimento. In conclusione, dunque, meritati tutti gli applausi.

Qualche dubbio sui forti e corali buu emessi all’indirizzo di Kokkos, rispettabile scenografo ateniese, francese d’adozione, dal cui impegno nell’esplorazione ermeneutica dell’opera scaturisce il risultato concettuale che abbiamo visto nella totalità della regia. In definitiva, forse, sull’attualizzazione calcolata, minimalista e riduttiva, vince, a furor di pubblico, l’emozione

 “Splendon le sacre faci, splendon intorno! Ecco il ministro! Porgimi la destra! Oh lieto giorno! Al fin son tua, al fin sei mio, a me ti dona un Dio.”

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