Stamani ci ha lasciato Maurizio Pollini, uno dei più grandi pianisti del nostro tempo

di CINZIA DICHIARA-

La notizia ha fatto rapidamente il giro di tutti i media e non c’è testata giornalistica o televisiva, istituzione musicale, fondazione teatrale o ente culturale che non riporti parole più o meno commosse di annuncio e di partecipazione a un lutto che colpisce l’Italia intera, almeno quell’Italia amante della musica colta e pianistica in particolare, e il mondo tutto, poiché un artista sommo come Pollini appartiene al mondo, quale patrimonio dell’umanità. Un’umanità che lo ha seguito e amato sempre attraverso la lunga carriera di interprete dei massimi capolavori della letteratura pianistica, da Mozart a Beethoven, ai romantici, al ‘900 e ancora avanti fino alle avanguardie di cui fu attivo promotore, dopo essere risultato, nel 1960, vincitore assoluto del Concorso Chopin di Varsavia, uno dei più alti traguardi nella vita di un musicista del pianoforte. Era appena diciottenne e Arthur Rubinstein, quale membro di giuria, pare che esclamasse: “Suona tecnicamente meglio di tutti noi!”

Decollata da allora, la sua vita concertistica lo ha portato a esibirsi nelle più importanti sale, diretto dai più illustri direttori d’orchestra, come Karajan, Abbado, Schippers, Giulini, Metha, Boulez, Celibidache, e accompagnato da orchestre prestigiose tra le più grandi al mondo, in primis i Berliner e i Wiener Philarmoniker, presente nei più importanti festival planetari a partire dal Festival di Salisburgo. Il suo repertorio è stato enorme, poiché si estende da Bach agli autori contemporanei come Pierre Boulez, Luigi Nono, Luciano Berio, Kerlheinz Stockhausen, ma anche Iannis Xenakis, György Ligeti, György Kurtàg, dei quali ha contribuito a diffondere le opere.

Il suo nome viene spesso associato a un altro grandissimo italiano del mondo della musica classica, con in quale condivise parallelamente quegli anni di carriera stratosferica e di impegno, anche civile, sotto il segno del valore del bene assoluto della cultura e dell’arte che sempre propugnò lungo l’esistenza laboriosa: il direttore Claudio Abbado. E invero, insieme, i due hanno dato vita a interpretazioni mirabili che restano nella storia grazie a una discografia imponente. Rimane memorabile il loro incontro di giovani e famosi musicisti, glorie italiche con un futuro di astri della musica, con l’Orchestra Sinfonica della Rai di Roma: era il 30 dicembre 1967 e la loro interpretazione del Quinto Concerto “Imperatore” di Ludwig van Beethoven (cui fece seguito la Sinfoni n 7 in La magg.) resta uno dei più straordinari concerti custoditi negli archivi Rai.

ll Pollini degli esordi veniva considerato un ‘cerebrale’, poderoso nella tecnica e nella padronanza della forma, che sapeva rendere con una compattezza quasi inedita per quegli anni in cui il pianismo era ancora condizionato dall’instant précieux della vibrazione emotiva momentanea più che dalla costruzione del  brano.

Legato intellettualmente, oltre che ai suoi maestri Carlo Lonato e Carlo Vidusso, all’insegnamento di Arturo Benedetti Michelangeli, se ne distacca con forte spirito di autonomia, seguendo la propria rotta di interprete gigantesco, centrato su una concezione della musica alta e severa e contraddistinto da un’esigenza di chiarezza aurorale, nonché mosso dall’imperativo di rispondere con esattezza al segno grafico della partitura, che ha tradotto costantemente in esecuzioni tanto ineccepibili da essere considerate di tutto riferimento.

Nel tempo infatti Pollini è divenuto una sorta di monumento nazionale e chi scrive ricorda le lunghissime file davanti al botteghino di Via della Conciliazione, a Roma, nella vecchia sede dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, ove era sovente invitato a suonare. Tutti aspettavano a ogni stagione ceciliana di vedere in cartellone quel nome, presentimento di meraviglie sonore e riflesso di considerazioni filosofiche da ascoltare con emozione in una sala, quella dell’Auditorio Pio, sempre gremitissima. E in molti restavano per ore in fila, magari alzandosi all’alba per garantirsi un posto al suo concerto. Era la prassi. Il fenomeno Pollini ha trascinato intere generazioni di musicofili.

Il pianista milanese è stato forse il più acclamato e seguito fino ad anni recenti, e i suoi concerti sono stati sempre presi d’assalto. Superbo, magnifico, portentoso, per i frequentatori del Teatro alla Scala, in oltre cinquant’anni Pollini è stato una sorta di santo patrono della Milano musicale, protagonista assoluto di serate indimenticabili che si concludevano con ovazioni e applausi interminabili, il pubblico osannante, in delirio.

Negli ultimi anni lo vedevamo entrare in palcoscenico con la sagoma incurvata e sfiorita, dirigersi verso il centro del palcoscenico e raggiungere il pianoforte, la falcata lunga, con una certa gravità, anche mentre si inchinava a raccogliere gli applausi. Ma sempre mantenendo l’allure del grande artista, decisamente chic col suo frac d’ordinanza.

Lontano dai personalismi oggi frequenti, serviva la musica con fede incrollabile. Era impressionante guardare il suo volto quasi trasfigurato nella sofferenza della riflessione mentre eseguiva la 109, la 110, la 111 in concerto (dalla prima incisione del 1975, ha portato avanti nell’arco dell’intera vita lo studio delle Sonate beethoveniane pubblicandole per la Deutsche Grammophon), e ascoltarlo significava contemplare la lezione di un grande sapiente. Appariva stanco ma restava lucido nel reggere la linea consequenziale delle architetture formali, restituendo intatto lo splendore della costruzione. La potenza, l’intensità, la tenuta serrata determinavano in sala una tensione sovrumana: si comprendeva di essere al cospetto di un artista fedele a sé stesso, sempre più profondo, più vicino a una verità ridotta al segno, e pertanto densamente storicizzata, vissuta, inconfutabile.

E a fronte di coloro che si limitavano a criticare qualche minima defaillance nelle note dovuta all’età e chissà a quale altro cedimento, le sue ultime interpretazioni sono pervenute a una consistenza filosofica inaudita, con gli anni il calore del suo suono si è ampliato nell’espressività e ha acquistato ricchezza di nuances senza fare ricorso ad effetti esteriori, tutto nell’interiorità. Valori che mostrano un pianista infinitamente più grande nella maturità, un interprete complesso, che ha saputo restituire il senso di un’opera ogni volta lasciandoci come di fronte a una rivelazione.

Maurizio Pollini ha rappresentato per noi una pietra miliare dell’arte pianistica nella quale il suo rinomato temperamento lo ha guidato fino a oggi come uno dei massimi artisti del nostro tempo. È difficile dover accettare la sua perdita.

La redazione di Tuscia Times esprime pertanto il proprio cordoglio alla moglie Marilisa, al figlio Daniele e a tutta la famiglia.

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